Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Il Decameroncino
Lettura del testo

GIORNATA SESTA LA SPINA

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

GIORNATA SESTA
LA SPIN
A

 

– Oh, non si contenga, signora! – esclamò ridendo il dottor Maggioli. – Io non sono più medico da parecchi anni; sono un parassita decrepito che rubo agli altri un po' di posto, un po' d'aria e di luce, e non posso piú fare niente di bene, e neppure di male, per fortuna. Si sfoghi dunque, signora! Tanto, non potrà dir corna dei medici quanto ne penso io che sono lor confratello. Sappia però che, tra molti, anzi moltissimi, medici ciarlatani, c'è degli eroi ignorati, dei martiri, dei veri santi degni dell'onor degli altari e della pubblica adorazione; umili che hanno fatto e fanno bene al prossimo senza nessuna speranza di ricompensa né in questa né nell'altra vita, perché spesso sono materialisti che non credono all'anima immortale e intanto, secondo me, ne sono la prova evidentissima; generosi, che cimentano la loro esistenza serenamente per medicare una piaga pericolosa, per studiare una malattia infettiva e trovarne il rimedio; ciarlatani ed eroi nello stesso tempo – e questa non è la loro minore stranezza – come colui che fu mio maestro e del quale voglio raccontarle una gran bricconata e la mirabile morte.

Allora facevo la pratica presso l'illustre medico chirurgo... No, non debbo dirne il nome, perché la bricconata di cui sono stato testimone può oscurarne la fama tra coloro che tengono assai piú conto di un'azione cattiva che di cento buone.

Alla nostra clinica si era presentato un giorno un pecoraio col braccio destro legato al collo e col pollice della mano rozzamente fasciato. Il professore doveva conoscerlo e aveva forse qualche ragione di non essere benevolo verso di lui, perché lo ricevette con modi assai bruschi:

«Ah! Voi! Vediamo. Che c'è?».

«Signor dottore, mi sento morire!».

Intanto il professore gli afferrava il braccio, senza punto badare agli strilli del poveretto, e disfaceva la fasciatura del dito. Un dito enorme, rosso pavonazzo, con chiazze nere e bianche, quasi un frutto mostruoso innestato nella mano, che attirò l'attenzione di noi giovani. Ma noi solevamo rimanere in disparte, finché il professore non c'invitava ad osservare. Questa volta non c'invitò. Pareva sprofondarsi nell'esame di quel caso nuovo; tastava, premeva con due dita, faceva delle domande, intimidendo il cliente con la burbera intonazione di voce assunta sin da principio.

«Com'è stato?».

«Non so ... Tutt'a un tratto. Una mattina, all'alba, grandi trafitture, mi hanno svegliato...».

«Quando?».

«Otto, dieci giorni fa».

«Perché non siete venuto subito?».

«Non sospettavo che si trattasse...».

«Per risparmiarvi di pagare il chirurgo, eh?».

«No, signor dottore».

«E ora siete in pericolo di perdere la mano, forse anche il braccio!».

«Ah, signor dottore! Mi salvi!».

«Che intrugli avete adoprato?».

«Un impiastro di pane bollito nel latte».

«Bravo! E avete fatto peggio. Ecco qua!».

«Ahi! Ahi!».

Il professore gli lavò il dito con una soluzione disinfettante, glielo fasciò, e disse al poveretto che gemeva e piangeva:

«Tornate domani».

Quando colui fu andato via, egli riprese la sua aria ordinaria, e, rivolto a noi, soggiunse:

«Aveste visto quel tanghero? Sembra quasi un mendicante, ed è ricco sfondato!».

E del male che gli deformava il pollice non fece nessun cenno.

Mutò contegno nei giorni appresso. All'apparire di quel cliente, il professore accorreva premuroso, lo tirava in disparte verso la finestra, lo faceva sedere e, sorridendo, gli domandava:

«Come va? Meglio?».

«Niente affatto, dottore».

«Un po' di pazienza!».

«Tagli, squarti, dottore! Non ne posso piú!».

«Se foste venuto subito, il primo giorno in cui sentiste le trafitture, sarebbe stato una cosa da nulla. Ma ora ... bisogna lasciar maturare la suppurazione ...Taglieremo a suo tempo, se occorrerà; ma spero che non occorrerà...».

«Ahi! Ahi!».

Alla minima pressione delle dita del professore, il poveretto trambasciava.

«Dovete mettervi a letto; tenere il braccio in completo riposo. Verrò io da voi, tutti i giorni...».

«Ne avrò per un pezzo, dottore?».

«Chi lo sa? e no; secondo!».

Lavatura, fasciatura, strilli del cliente, e non un motto a noi giovani intorno a quel caso che ci sembrava assai complicato e strano, se il professore teneva per sé ogni osservazione, e si prendeva la cura di andare a medicare il cliente a casa, piuttosto che nella clinica, portando colà cassette di ferri chirurgici e barattoli e fasce, con molto suo scomodo.

Mi era toccato piú volte di accompagnarlo, di aiutarlo a disporre sur un tavolino ferri, medicamenti e bambagia che poi non servivano a niente, perché non occorreva adoprarli. Lavatura, fasciatura, strilli del cliente anche colà, e silenzio del professore.

La cosa durava da tre mesi; e da tre mesi, tutte le settimane, arrivavano al professore carichi di formelle di cacio, di ricottelle, di ricotte, e agnelli e capretti... doni da pecoraio ricco, che intendeva ingraziarselo perché lo facesse guarire piú presto.

Noi ci attendevamo, da un momento all'altro, una stupenda lezione intorno a quel caso, qualche rivelazione scientifica, come l'illustre professore era solito di regalarcene; attendevamo, per lo meno, una pubblicazione, di quelle che poi facevano il giro di tutte le riviste mediche del mondo.

Invece, capitò a me... Oh, non dimenticherò piú il furore del maestro e la mia mortificazione di quel giorno!

Una grave operazione lo aveva trattenuto in casa. Tutt'a un tratto si rammentò del pecoraio; e, rivolto a me, disse:

«Va' tu; una lavatura, capisci, e una semplice fasciatura; non occorre altro».

Orgoglioso dell'incarico, ero tornato infinitamente piú orgoglioso della scoperta che credevo di aver fatto. Il dito si era già spaccato come una melagrana matura, e nel centro della piaga avevo potuto scorgere una piccola spina, causa permanente della suppurazione. Tolta via, con una pinzetta, la spina, il paziente si era sentito subito alleviato.

«Animaleesclamò il maestro, appena io gli esposi quel che avevo fatto.

Gli aveva lasciato apposta la spina nel dito, per aumentare il numero delle visite e il conto del cliente ricco sfondato!

Eppure l'uomo cosí poco scrupoloso, e che si compiaceva di mostrarsi senza pregiudizi di sorta alcuna in molte circostanze della vita, è morto per aver fatto un'opera di carità di cui sapeva il pericolo e alla quale non era punto obbligato.

Ve lo figurate voi quell'illustre scienziato curvo su un povero malato di tifo, in una fetida stamberga, e intento a fargli lunghe frizioni di chinino alla spina dorsale?

«Mi permetta, professore...» gli diss' io.

«No, caro; è pericoloso. Voi siete giovane, dovete vivere; io, ormai!...».

Infatti si contagiò, e morí stoicamente, contento di aver fatto il suo dovere; lo ripeteva fin nel delirio della febbre.

Oh! Egli portava su la coscienza parecchie di quelle spine di pecoraio; ma Domineddio non ne avrà tenuto conto, speriamo. Questa morte è cosí bella da scancellare qualunque macchia!... Ed ora, si sfoghi pure contro i medici, gentile signora! – conchiuse il dottor Maggioli. – Era giusto che io dicessi almeno che vi sono molte e grandi eccezioni alla regola... E, per rispetto dell'umana dignità, voglio credere che sia cosí in tutte le professioni e in tutti i mestieri –.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License