IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Le vie della sua cittaduzza, ripide o mal selciate, non avrebbero consentito al dottor Lambertini l'uso della carrozza, anche quando i molti clienti gli avessero permesso questo lusso. Il muletto di cui si serviva di estate per le visite, dopo la pratica di parecchi anni, conosceva le case dei clienti meglio dello stesso padrone, e il dottore, smontando era sicuro di poter lasciarlo davanti a le porte con la briglia sul collo e le staffe penzoloni; non si sarebbe mosso, nè avrebbe mai avuto il capriccio di buttarsi per terra, farsi una bella stropicciatina e rovinare sellino ed arnesi.
Vispo e forte, trottava allegramente, tenendo alta la testa, inarcando il collo come un cavallo di razza; alla porta del cliente però si arrestava piantandosi su le quattro zampe cacciandosi di tanto in tanto le mosche con la coda tagliata a spazzola e con rapidi movimenti della testa. E se qualche ragazzo gli veniva attorno per palpargli la pancia, per lisciargli il groppone, per grattargli la fronte, o anche per stuzzicarlo e dargli noia, lo lasciava fare, da muletto prudente e dottorale, che non voleva procurare impicci al padrone con un calcio mal dato.
Solamente, quando questi indugiava troppo in qualche visita, intonava un raglio un po' stonatino, quasi intendesse dirgli: – Ehi dottore? – E il dottore gli dava sùbito retta. Egli chiaccherava volentieri, nei giorni che non aveva troppa gente da visitare, osservato il malato e scritta la ricetta, appiccicava il discorso con lui o con i suoi parenti, secondo l'occasione, e dimenticava facilmente la povera bestia che s'annoiava giù, nella via.
Al raglio, il dottore scattava dalla seggiola, nè c'era più verso di trattenerlo. Se il muletto ragliava, voleva dire ch'egli l'aveva fatta proprio lunga; e scappava. N'era nata la leggenda che dottore e muletto fossero d'intesa, cioè che il dottore avesse addestrato l'animale a dargli l'avviso, quando egli cedeva alle lusinghe della chiacchiera allegra. Non era vero. Quel raglio, bisogna esser giusti, era stato una trovata del muletto, di cui il dottore profittava e di cui era gratissimo alla bestia intelligente. Egli anzi soleva raccontare una strana storiella intorno a quel raglio, ma forse soleva adulare un pochino il suo bravo compagno di visite.
Raccontava, dunque, che, le prime volte, aveva ricompensato quei ragli con qualche manata di fieno e di biada più dell'ordinario, specialmente allorchè essi erano stati davvero opportuni per rammentargli una visita che non si doveva trascurare. Dopo due tre volte però, quel diavolo di muletto, comprese la vera ragione del soprappiù di fieno e di biada fattogli somministrare dal dottore, pensò di abusarne, i suoi ragli diventarono frequentissimi, si fecero sentire a proposito ed a sproposito; e il dottore ingenuamente confessava che a capire questa malizia egli ci aveva messo assai più che non il muletto a capire le intenzioni di lui. Ne rise; e per non farsi canzonare da una bestia, sospese quella specie di mancia.
Anche questa volta il muletto comprese sùbito; e da allora in poi i suoi ragli si fecero udire soltanto quando erano proprio necessari.
Ho detto che, al raglio, il dottore Lambertini scattava dalla seggiola e non c'era più verso di trattenerlo. Ma un giorno, un brutto giorno, il muletto dovette essere maravigliato di vedere rimaner vani i suoi replicati appelli, uno più forte dell'altro, uno più stonato dell'altro. Non già che il suo raglio fosse corto o roco, no; difettava, nelle note profonde e nelle acute, di quella pastosità, di quell'ampiezza, di quelle gradazioni meravigliose che rendono veramente insuperabile il raglio asinino. C'erano, insomma, discontinuità nella emissione, asprezze nei passaggi: l'ibridismo vi si manifestava con netta caratteristica.
Quel giorno dunque, come dicevo, i ragli appellanti del muletto rimasero vani. Dopo un par d'ore di angosciosa aspettativa, vistosi prendere per le redini da una persona sconosciuta, ricalcitrò, s'impennò, fece un po' il testardo da quel muletto che era; si buscò calci alla pancia, nerbate, strappate di cavezza che gl'insanguinarono il muso; e sparato un paio di calci, capito la inutilità della resistenza, s'era lasciato ricondurre alla stalla, e si era messo filosoficamente a mangiare la biada, senza stillarsi il cervello intorno all'insolito caso che doveva esser capitato al padrone.
Infatti il caso era stato insolito davvero.
Convien premettere che in quel tempo, da due mesi, gli abitanti della cittaduzza nativa del dottor Lambertini erano agitati da grandissima curiosità.
Una palazzina, disabitata da più di mezzo secolo, aveva ricevuto inaspettatamente tre ospiti, un signore e una signora accompagnati da un servo; e nessuno, neppure i più braconi del paese, coloro che si sarebbero messi volentieri allo sbaraglio per sapere i fatti altrui, avean potuto penetrare il mistero di quella coppia che se ne stava tutta la giornata tappata in casa, che si affacciava ai terrazzini a sera tarda e quando non c'era lume di luna, e che s'avventurava per le vie più remote, o per la campagna, soltanto di notte, a braccetto, parlando sottovoce, quasi avesse qualche gran delitto da nascondere...
La gente era maravigliata, soprattutto, del mutismo della polizia, che pareva di non avvedersi di niente, o di non volersi occupare, per chi sa quali profonde ragioni, di quella stranissima apparizione.
Il giudice, come dire oggi il Pretore, nelle cui mani stavano allora in Sicilia anche i pieni poteri di polizia, interrogato destramente, aveva risposto con un'alzata di spalle assai significativa. Così fu tenuto per accertato che si trattava d'un relegato politico; la signora era sua moglie. Giovane? Bella? Fu messo in chiaro anche questo: giovanissima e bellissima. E un gran senso di compassione invase tutti i cuori a beneficio della coppia infelice; e i braconi divennero più riguardosi, per non compromettersi, per non aver che fare con la polizia borbonica che non usava riguardi a nessuno.
Il servo, sulle prime era stato assediato di domande, poi avea dovuto stentare non poco per resistere a tutti i tranelli tèsigli dagli sfaccendati a fine di cavargli il segreto di bocca. E, finalmente, fu lasciato in pace, anzi evitato. Lo stesso dottor Lambertini, che era stato tra i più curiosi e più insistenti, e che parecchie volte interrogato, con diversi pretesti, intorno alla spesa giornaliera, quando lo avea visto aggirarsi pel mercato – il dottore fidava in una sua idea: Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei – fin il dottore si era rassegnato a rimanere al buio, quantunque ogni volta che passava, davanti al portone della palazzina, non mancasse mai di squadrarne la facciata e l'atrio, quasi avesse voluto penetrare con gli sguardi lo spessore delle mura del vecchio edificio, e osservare in che modo occupassero il loro tempo quei due personaggi piovuti là non si sapeva nè perchè, nè da dove.
Figuratevi, dunque, la sua immensa sodisfazione la mattina ch'egli vide arrivarsi in casa quel servo tante volte inutilmente tentato, il quale veniva in nome del padrone per pregarlo di una visita d'urgenza, di grandissima urgenza.
Il dottor Lambertini, senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate sino ai gomiti, il petto aperto, la cintura rilasciata attorno al bel pancione rotondo, seduto nel terrazzino dello studio, all'ombra d'una tenda, con le gambe allargate e i piedi nuotanti nelle pianelle, si faceva vento beatamente.
– Il signore è ammalato? – si affrettò a domandare.
– Non lo so.
– O la signora?
– Non lo so. Il padrone mi ha detto: conducilo con te, sùbito sùbito.
– Eccomi; il tempo di vestirmi e di far sellare il muletto.
– Lo sello io, se lei vuole.
Mai il dottor Lambertini s'era vestito con tanta fretta; mai il muletto era stato spronato con tanta sollecitudine; mai il dottore era sceso di sella più sveltamente, nè più lestamente aveva mai salito le scale d'un cliente in pericolo di vita. Pareva ringiovanito, pareva che l'adipe non gli pesasse più, e che la mole del pancione non gli premesse più sui polmoni ad accorciargli il fiato.
S'era trovato faccia a faccia con un bel giovane alto, dalla tinta olivastra, con barba e capelli neri, che gli stese le mani balbettando qualcosa d'incomprensibile e lo trascinò attraverso una fila di stanze buie, balbettando allo stesso modo interrottamente, quasi singhiozzante....
Al dottore pareva di sognare. Nella rapida traversata di quegli stanzoni antichi, in penombra, che mandavano forte odore di rinchiuso, aveva potuto appena intravedere gli scarsi mobili, i quadri polverosi alle pareti, i grandi specchi appannati, dalle cornici dorate, tutte frastagli e cartocci.
Poi in quella camera con le imposte ermeticamente chiuse, illuminata quasi fosse stata notte, il letto in un canto tra ampie cortine e quel corpo di donna stesovi su, rigido, gli avevano intorbidita così violentemente la intelligenza, che per qualche secondo rimase là, spalancando gli occhi smarriti, senza poter pronunziare una sillaba.
– Salvatela, dottore!... Salvatela!...
Ora udiva distintamente queste parole dello sconosciuto, e avrebbe voluto rispondergli, interrogarlo; ma la lingua inaridita gli si era appicciata al palato, e le gambe gli tremavano sotto, intanto che si passava una mano su la fronte e su le tempie per schiarirsi la mente. Si lasciò cadere sopra la seggiola a piè del letto, e stese macchinalmente il braccio per tastare il polso dell'ammalata. Questo atto abituale bastò a richiamarlo sùbito all'esercizio della sua professione, a rimetterlo pienamente in calma, quantunque provasse tuttavia grande stupore alla presenza di quello sconosciuto delirante d'angoscia e che non riusciva a dirgli altro all'infuori di:
– Salvatela dottore!... Salvatela!...
– Non abbia paura. È cosa da niente.
Gli parve opportuno confortarlo così, quantunque ignorasse la natura del male che stendeva là, come morta, la bella signora.
Il polso era fievolissimo, la temperatura del corpo molto bassa. Una straordinaria tensione dei muscoli lo rendeva immobile, allungato. I denti serrati, le labbra contorte, gli occhi spalancati senza sguardo, il pallore cadaverico davano a tutta la persona un'espressione terribile.
– Scusi – disse finalmente il dottore; – che le è accaduto?
Colui guardava ansiosamente ora la donna ora il dottore, torcendosi le mani, agitando le labbra a una risposta che non poteva venir fuori.
– La signora era sofferente da un pezzo? – riprese il dottore.
– No, al contrario! – balbettò lo sconosciuto. – È stato tutt'a un tratto... per una cattiva notizia – soggiunse con qualche sforzo.
Questi, che s'era completamente rimesso dall'improvviso sbalordimento e intendeva trar profitto dell'occasione per penetrare il mistero di quei due, avventurò qualche domanda. Pareva che colui non si raccapezzasse o non intendesse.
Allora il dottore si decise a scrivere un paio di ricette.
– Mandi sùbito qualcuno; attenderò.
E si metteva a strofinare ora l'una ora l'altra mano della signora per richiamarvi il calore.
– Va bene – esclamò, vedendo che le vesti e il busto erano slacciati. E chinò l'orecchio sul petto della malata, per ascoltare il cuore. – Ritmo lento, quasi impercettibile!... – Forse gli ultimi guizzi d'una vitalità prossima a mancare?
Parve che lo sconosciuto gli avesse letto questa interrogazione negli occhi, con impeto così disperato gli si buttò ai piedi, con le mani cacciate convulsamente fra i capelli irti:
– Oh Dio!... Dottore, salvatela!... La vita di lei e la mia sono nelle vostre mani!... Salvateci!
Il povero dottore era commosso; ma, purtroppo, non vedeva chiaro in quella crisi nervosa, che poteva mutarsi da un momento all'altro in letale catastrofe. E il suo imbarazzo aumentò quando scorse che il male resisteva ostinatamente ai rimedi portati con sollecitudine dal servo. Il polso rimaneva ancora fievole; la temperatura bassissima; la rigidezza di tutto il corpo allo stesso grado. Invano egli introduceva fra i denti serrati della malata la punta del cucchiaio per farle inghiottire qualche goccia della pozione rianimante; invano le metteva sotto il naso la boccetta dell'etere; invano le bagnava la fronte e le tempie con acqua fresca mista ad aceto. Sudava freddo anche lui, tornava a smarrirsi, e accennava a quel disperato di star zitto, di frenarsi. Tentava intanto di richiamarsi alla mente qualcosa che gli era balenato appena messo il piede in quella stanza e che gli era subito sfuggito...
Lo sconosciuto esitò un istante, quasi avesse paura dell'aria e della luce; poi spinse indietro il dottore che s'accingeva ad aprire l'imposta e la spalancò egli stesso.
– Salvatela!... Salvatela! – tornò a balbettare.
All'altro non era sfuggito, intanto, il gesto di diffidenza con cui gli era stato impedito di aprire le imposte.
A questo punto salì dall'atrio il raglio del muletto; e al dottore sembrò un avvertimento di persona amica che voleva metterlo in guardia contro un pericolo imminente. Scattò, per abitudine, dalla seggiola e diede schiarimenti, su quel che occorreva fare: Insistere, insistere con quei rimedi.
– Tornerò verso sera, – aggiunse, affettando la tranquillità che non aveva.
– Oh, no! Voi non uscirete di qui, dottore, prima ch'ella sia salva. Oh no, no!
Il tono della voce, l'espressione degli occhi, il gesto erano poco rassicuranti.
– Ma io, caro signore, ho altri malati – egli disse quasi supplichevole...
– Muoiano! Perisca il mondo intero, se costei!...
Non finì la frase; cominciò a piangere, ripetendo – Muoiano, muoiano!... Perisca il mondo intero!...
Il dottore si sentì ricacciare bruscamente su la seggiola.
Poi vide lo sconosciuto chinarsi amorosamente verso il volto pallido della signora, e chiamando: Dora! Dora! Dora! – e voltarsi angosciato verso di lui:
– Non mi ode!... Salvatela, Salvatela!... Ditemi che la salverete! Ah, dottore!...
Il muletto tornò a ragliare, prolungatamente, insistentemente. Questa volta il suo raglio avea l'evidentissima intonazione del rimprovero.
Il padrone se n'era dunque scordato?
E con l'abitudine della familiarità tra padrone e muletto, il dottore gli rispondeva, nel suo interno, quasi l'animale potesse udirlo:
– Che vuoi che faccia, caro mio? Sono nelle mani d'un pazzo!
I suoi sguardi intanto erano fissati sulla donna che rimaneva immobile, smorta, con gli occhi aperti, vitrei, le membra tese e irrigidite dall'assalto nervoso. La crisi durava da più ore e pareva volesse prolungarsi indefinitivamente e finire molto male...
– Per tutti! – rifletteva con profonda angoscia il dottore, che non sapeva più a qual santo voltarsi per far intendere un po' di ragione a quel furibondo, che si agitava, piangeva, supplicava, invocava Dio e i santi, qualche volta anche il diavolo, con deplorabile confusione; che lo spingeva poco garbatamente su la seggiola a ogni tentativo di alzarsi per scappar via...
– Ma scusi – gli diceva dolcemente; – lei pretende un miracolo;... Bisogna che la crisi faccia il suo corso. Se ne persuada; non c'è pericolo. Nervi! Le donne, si sa... La scienza è impotente. Se poi lei volesse un consulto... Certamente, un consulto sarebbe opportuno, anche per mio sgravio di coscienza; quattro occhi veggono meglio di due.
Questa del consulto gli era parsa una bellissima idea; e vi picchiava e ripicchiava su, abbozzando un sorriso, scuotendo il capo in segno di grande approvazione, modulando la voce in toni insinuanti, persuasivi. Era come dire al muro.
– Salvatela!... Salvatela! – ripeteva quel trambasciato, smaniando più di prima.
– Ahaa! Ahaa! Ihii! Ihii! Ahaa! Ahaa!...
Non la finiva più; pareva che stesse per perdere la pazienza anch'esso.
Ora che le imposte erano aperte, la sua voce montava fin lassù chiara, sonora; riempiva la camera.
– Scusi...! C'è quel povero animale! – disse il dottore pietosamente.
Quegli, che aveva udito il raglio, si scosse, chiamò il servo, diede ordini che il dottore non capì e poi venne a piantarglisi davanti, col viso contratto, con gli occhi che gli lucevano di pianto...
– Non m'ingannate, dottore! Non m'ingannate per pietà!... Vivrà:... Vivrà?... Guardi : se Dora...
E si precipitò verso un mobile, aprì rapidamente un cassetto e ne trasse un paio di pistole della canne lucenti, che brandì mostrandole; poi fece atto di farsi saltare le cervella.
Se non che il gesto fu così imbrogliato, che il dottore capì anche: ma prima farò saltare le cervella pure di lei!...
Allibì, si sentì svenire. L'atto di contrizione articulo mortis gli salì alle labbra per istinto. E i suoi occhi si volsero, già mezzi appannati dal terrore, verso la donna giacente...
– Oh Dio! Oh Dio!... È finita! – pensò il dottore, vedendo quell'aspetto che pareva decomporsi nel supremo sfacelo della morte.
Un brivido diaccio gli guizzò per le vene da capo a piedi; e chiuse gli occhi per non vedere le maledette pistole dalle canne luccicanti, che quel pazzo furioso teneva sempre impugnate, attendendo. A un tratto, non vide nè sentì più nulla.
***
Quanto tempo fosse rimasto morto egli non seppe mai dirlo; forse pochi istanti, forse qualche minuto... Un secolo! – egli credette, rinvenendo, atterrito di sentirsi scuotere e chiamare ad alta voce:
Quella voce però era tremante, sì, ma di gioia: come erano convulse anche di festosa impazienza le mani che lo scuotevano...
Spalancò gli occhi, che gli si riempirono di lacrime, mentre il cuore gli balzava violentemente nel petto, e il sangue gli tumultava violentemente nelle vene, così caldo ed impetuoso da fargli male.
La bella signora, seduta sul letto, sorretta dai guanciali, con gesto di persona non ancora desta dal sonno, si passava le mani sui capelli, sorrideva dolcemente, e con languida voce diceva al giovane che stava ginocchioni davanti a la sponda del letto:
– Sentivo, vedevo tutto, e non potevo fare il minimo movimento! Lo spavento di questo signore...
– È il dottore! – la interruppe colui, stendendo una mano riconoscente al pover'uomo, che non osava ancora credere a sè stesso.
– Il suo spavento, la sua terribile minaccia... Feci uno sforzo... e, improvvisamente, mi sentii slegare. Quanto ho sofferto!
– Oh, bene, benissimo. Me ne rallegro. Tanto meglio. Benissimo!...
Il dottore si era levato in piedi, e si tastava per persuadersi che non sognasse o delirasse, ripetendo: – Tanto meglio... benissimo! – con un gran desiderio di scappar via, prima che sopravvenisse qualche altro malaugurato incidente.
– Perdonate, dottore. Ero pazzo! – gli ripeteva lo sconosciuto. – grazie, grazie!
– Grazie di che?... Non ho fatto niente.
E cercava di svincolarsi dell'abbraccio di colui, che ora pareva ammattito in modo opposto, dalla troppa gioia.
– Bravo! Tanto meglio!... A rivederli... La signora si sente bene, è vero! È passata ogni cosa?
Pareva che anche la bella signora ridesse garbatamente della gran paura di lui.
– Quel povero animale! – riprese il dottore, come cercando un pretesto – Bisogna che io vada via.... I miei malati...
– Ah! il muletto! esclamò il giovane, ricordandosi.
– I miei malati – ripetè il dottore.
Ma ce ne volle, prima che lo lasciassero partire. Dovette quasi lottare per farli persuasi che non avrebbe mai accettato un compenso.
– Questo ricordo, almeno! Insistette, mostrando uno spillo elegantissimo, tolto dalla propria cravatta, e che volle appuntargli alla cravatta con le sue stesse mani, tra le più calde proteste di immensa riconoscenza, di eterna gratitudine...
– Noi partiremo domani l'altro, ma non dimenticheremo mai il nostro salvatore, mai, mai!
– Dottore, la prego, non dica niente a nessuno di quanto ha veduto.
– Si figuri! Anche pel segreto professionale!
E, più che scendere, ruzzolò le scale.
Nella via trovò ancora la gente, che la lotta del muletto col servitore aveva radunata. Gli raccontarono l'accaduto.
Il dottore, prima di entrare in casa, volle visitarlo nella stalla. Gli si accostò, lo accarezzò, lo palpò; ma l'animale, mostrando di tenergli il broncio, non si voltò neppure, e continuò a masticar paglia, come se il padron non parlasse con lui.
Muletto vendicativo! Da quel giorno in poi non ragliò più mai.
Il dottor Lambertini, vecchissimo, ricordava spesso con piacere le prodezze del muletto, suo compagno di visite, e ripeteva sorridendo: – È morto da un pezzo, povero muletto! L'ho rimpianto come... come...
E si vergognava di dire che lo aveva rimpianto come un amico, come un figlio.
L'uomo bonario col quale viene ritratta
la figura del dottore e dell'asinello
«suo compagno di visite»
trova un contrappeso nel dramma buio di una coppia, che appare e dispare senza
nulla aver fatto trapelare di sè.
La novella, complessivamente interessante, ha un difetto nella
impossibilità, davanti alla quale si trova lo scrittore,
di farci intendere il muto dramma dei due
personaggi misteriosi.
Trovandosi la Casa Editrice Remo Sandron proprietaria di una ventina tra volumi e volumetti di novelle di Luigi Capuana, cioè di quanto di meglio lo scrittore siciliano produsse nella novellistica, ci è stato possibile scegliere alcuni tra i più significativi componimenti, coordinarli, alcuni in qualche punto per ragioni varie tagliarli, commentarli e presentarli perchè gl'insegnanti di scuole medie inferiori possano adottarli in base ai programmi che prescrivono «un'opera di scrittore italiano del sec. XIX o XX».
Tra i molti libri del genere, tutti buoni e parecchi ottimi, le novelle di Capuana dovrebbero formare un libro ottimo.
Almeno tale ci auguriamo che troveranno questa raccolta gl'insegnanti che dovranno giudicarla e adottarla, e gli alunni che saranno chiamati a leggerla.
Ringraziamo, inoltre, Adelaide Bernardini, che fu compagna dello Scrittore, per la revisione che ha voluto fare di questa raccolta; revisione amorosa che testimonia del suo nobile e devoto attaccamento alla memoria e all'opera di Capuana.