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La stessa notte del tristo avvenimento il dottore aveva detto:
«La signora non può dormir qui accanto alla camera del cadavere.»
E lo sgombero era stato fatto subito, un po' scompigliatamente dal Padreterno e dai commessi, trasportando soltanto il letto e qualche seggiola in una cella di faccia. Il resto dei mobili vi era stato portato la mattina dopo, senza che né Patrizio né Eugenia si opponessero. Nei giorni appresso, due altre celle erano state messe in comunicazione con quella camera, e così l'appartamento di abitazione si era trovato diviso dall'ufficio.
Eugenia, che durante la prima settimana non era rimasta mai sola, aveva potuto accorgersi appena del cambiamento. Giulia, Angelica, Benedetta arrivavano di buon'ora e andavano via a sera avanzata. Si divertivano a veder lavorare la sarta che cuciva nel salottino il vestito di lutto di Eugenia; e lavoravano un po' anche loro assieme con lei e davano consigli a ogni prova dell'abito, infastidendo la sarta.
Poi, quando quel tramenio cessò e le figlie del sindaco diradarono le loro visite, parve a Eugenia che un gran vuoto si fosse, tutt'a un tratto, frapposto tra suo marito e lei, e che il silenzio del vasto edificio dei carmelitani fosse diventato più intenso.
Patrizio era tuttavia trasognato.
Aveva voluto che la camera della morta rimanesse tal quale, col lettino rifatto e la vecchia poltrona presso la finestra, quasi la sua mamma dovesse venire a riprendere, da un momento all'altro, la vita ordinaria.
Dalla stoffa della poltrona s'elevava l'odore di colei che vi si era seduta per anni, piangendo lacrime di vedova, covando rancori di suocera. Quell'arnese stinto, con la spalliera e i bracciuoli rapati per l'uso, aveva viaggiato con loro di qua e di là a ogni mutazione di residenza, mobile prediletto della povera donna. Pareva ch'ella non si potesse adattare a una poltrona diversa da questa, diventata, dopo sì lungo tempo, muta confidente di tutti i di lei dolori, fida posseditrice di tutti i segreti mormorati nella solitudine della sua camera parlando a se stessa. Ogni volta che Patrizio aveva accennato di comprarle una poltrona nuova o almeno di farle ricoprire quella con altra stoffa, aveva ricevuto sempre la stessa risposta:
«No, no! È un ricordo!»
«Ora è un ricordo anche per me!» egli pensava col cuore straziato, guardandola tristamente tutte le mattine prima d'entrare nell'ufficio, quando si affacciava nella vuota stanza, ahimè, non più per dare il buon giorno alla sua cara mamma, ma per recitarle un requie dalla soglia di quella specie di santuario dove ogni oggetto gli parlava di lei!
Soltanto ora egli comprendeva perfettamente qual largo posto avesse occupato nel suo cuore e nella sua vita colei che non era più! Quella morte così inaspettata gli diveniva di giorno in giorno maggiormente dolorosa per le circostanze con cui era avvenuta.
«Senza potermi dire una sola parola!»
Non sapeva darsene pace. Non se ne sarebbe consolato più mai!
Il suo pensiero stava fissato costantemente là, qualunque cosa egli facesse. Mentre gli occhi scorrevano le lunghe filze di numeri dei registri, le pagine di un atto notarile o di un reclamo, accadeva dentro di lui un fenomeno di raddoppiamento della sua persona: una badava ad addizionare, a moltiplicare cifre, o a studiare l'atto e discutere la validità del reclamo, rammentando le complicate disposizioni delle leggi e delle ministeriali, il numero preciso d'un articolo del regolamento, i diversi comma di tale articolo: l'altra ripeteva incessantemente l'angosciosa esclamazione: «Senza potermi dire una sola parola!» che gli richiamava alla memoria gesti e risposte della mamma e lo faceva trambasciare. E quali risposte! «Ora appartieni tutto a lei... Io sono di troppo, non per te, ma per colei... Sarete liberati da questa incresciosa!» E se n'è andata con questo cruccio nell'animo! Non sapeva darsene pace.
Era ripreso nell'ufficio il via vai del pubblico per gli affari. Compatendo il dolore di lui, la gente entrava in punta di piedi, seria, parlava a mezza voce. E anche allora, intanto che una delle due persone in cui egli si sentiva raddoppiato ascoltava, rispondeva, dava torto, faceva buon viso, porgeva pazienti dilucidazioni agli interessati che non si raccapezzavano facilmente nel gran viluppo delle leggi antiche e nuove, l'altra non cessava un momento di ripetere lamentevolmente: «Senza potermi dire una parola!... Ora appartieni tutto a lei!... Sono di troppo, non per te, ma per colei!... Sarete liberati da questa incresciosa!»
Eppure nei primi giorni del lutto non era stato così.
La mattina che egli aveva visto Eugenia vestita di nero, pallida, con gli occhi cerchiati da lieve tinta azzurrognola, s'era sentito rimescolare da un senso di profonda tenerezza, da un vivo slancio di gratitudine per quella dolce creatura che partecipava intimamente al di lui dolore; e le aveva aperto incontro le braccia, stringendola al petto con muto impeto, facendole intendere in tal modo: «Non ho altri al mondo che te!».
Più tardi, si erano trovati loro due soli a quella tavola dove prima veniva apparecchiato per tre. Nessuno dei due aveva voglia di mangiare; pure egli si fece forza e la incoraggiò, anche con l'esempio, a prender qualcosa. E vedendo che Eugenia stava a guardarlo con ansietà, quasi per scrutargli l'animo, aveva rotto il silenzio domandandole:
«Come ti senti?»
«Bella giornata oggi!» aveva soggiunto subito. «Che tepore! La primavera è precoce qui. Si capisce che l'Africa sta a due passi.»
«L'estate, soffocheremo» rispose Eugenia distrattamente.
Non s'erano scambiate altre parole sino alla fine del desinare. Eugenia però aveva continuato a interrogarlo con lo sguardo ansioso; ed egli, fingendo di non intendere, sentiva agitarsi smaniosamente la risposta tra le labbra.
All'improvviso, sul punto di uscire dalla stanza da pranzo, fermatosi, prese Eugenia per le mani e le balbettò in un orecchio:
«Era gelosa di te!... Povera mamma!»
«Gelosa di me?» esclamò Eugenia stupita.
«Sì!»
«Perché? È mai possibile?»
«È vero, avrei dovuto dirtelo prima... Povera mamma!»
Non glien'aveva più riparlato; e questo la tormentava.
Ora, tutte le sere, allorché lo vedeva prepararsi per l'immancabile visita al camposanto, ella si sentiva messa da parte, anzi scansata nel di lui dolore. E guardandolo dalla finestra mentre andava via a capo chino, con le mani dietro la schiena, solo o accompagnato da uno dei commessi, le pareva di sentirsi proprio abbandonata, quasi egli non dovesse tornare più, e rimanere con quella morta che le contendeva il cuore di lui più di quando era viva.
Come lottare contro la invisibile nemica?
Se la sentiva dattorno in tutti i momenti. A ogni scricchiolio di mobili, a ogni rumore di cui non sapeva rendersi subito ragione, trasaliva, stando in attesa, trattenendo il respiro, origliando, spalancando gli occhi verso il posto d'onde il rumore era partito; e chiamava:
«Dorata!»
Dorata compariva su l'uscio, rossa in viso, asciugandosi le mani.
«Che cosa fai?»
«Sono in cucina, signora; preparo il desinare.»
«Lascia stare un momento; spolvera quei mobili.»
«Li ho spolverati bene questa mattina.»
«Spolvera, ti dico» ripeteva Eugenia, con voce velata dal turbamento che voleva nascondere.
E si metteva a discorrere con lei per trattenerla più a lungo.
«Brava gente la famiglia del sindaco!»
«Un po' strambi di cervello padre, madre e figlie...»
«Esageri.»
«Le ragazze spasimano di prendere marito, ma il cavaliere le farà spighire per via della dote. Gesù Maria! Ricco qual è!... La maggiore è già avvizzita. L'altra ingiallisce a vista, come un cetriolo a cui manca l'acqua. La minore però si serve di suo capo. Sa? Giorni addietro - è un segreto, glielo confido perché so che non ne fiaterà con nessuno -, giorni addietro la signorina voleva che io facessi una bella parte... Capisce? Portare una lettera a don Corrado Favi. Risposi: «Perdoni, non mi mescolo di certe faccende. È per retto fine, lo so; ma se i suoi parenti lo sapessero, dovrei andare a nascondermi dieci miglia sotterra». Mi faceva pietà, povera ragazza! Voleva anche darmi del denaro.»
Eugenia, spintala a parlare, la interrompeva di rado, senza però stare attenta ad ascoltarla. Le bastava quel mormorio di parole ronzate nella camera che l'assicurava di non esser sola; il suo pensiero intanto vagava altrove. Vagava nella stanza d'ufficio dove Patrizio passava la giornata in preda della sua morta che lo invasava ognora più; vagava nella camera lasciata intatta, dov'egli spesso andava a chiudersi per sedersi su quella poltrona su la quale la sua mamma aveva passato metà della vita, o per buttarsi bocconi su quel letto dove egli l'aveva baciata l'ultima volta. Così una mattina lo trovò Dorata; e venne a dirglielo subito, per farla accorrere presso il padrone che piangeva come un fanciullo.
«Così non si consolerà mai, padrona mia!»
Eugenia non rispose. Doveva mettere a parte delle sue pene una serva? Le pareva già troppo esser ridotta a invocarne la compagnia nei momenti di paura. Dio mio, scendere così in basso!... Non era però sicura di non doverci, un giorno o l'altro, arrivare! Aveva tanto bisogno di compassione! Soffriva tanto maggiormente, non potendosi confidare con nessuno! Infine, era una buona creatura, benché serva, colei. Aveva amato, era stata amata in gioventù; che importava come? C'è un destino nella vita! Dio, che sa tutto, perdona allorché si pecca per bontà di cuore. Perdonò alla Maddalena!
E arrossiva, indispettita di queste scuse che si andava preparando per l'avvenire, quando forse non ne avrebbe potuto più, e avrebbe dovuto sfogarsi con Dorata, da cuore di donna a cuor di donna, dimenticando ogni altra cosa.
Non osava uscire da quelle stanze e attraversare il corridoio per andare ad affacciarsi, come un tempo, all'uscio dell'ufficio di Patrizio. Le due celle, dove erano prima la sua camera e il salottino, non le aveva più visitate dalla sera fatale; all'idea di rimettervi piede, si sentiva scuotere tutta da ribrezzo. E Patrizio intanto si rammentava così di rado ch'ella doveva per lo meno annoiarsi con la sola compagnia di Dorata! Assorto nel suo dolore, passava le giornate colà, in continuo rimuginare con la morta, evitando fin di parlarne con lei, sua moglie, quasi temesse di profanare la memoria di quella mamma gelosa! Gelosa della nuora! Della moglie del proprio figliuolo! Le pareva una mostruosità. Non era arrivata a spiegarsela, quantunque vi avesse riflettuto lungamente dopo che egli, in un fuggevole istante di espansione, si era lasciato sfuggir di bocca: «Era gelosa di te!».
Il sole vicino al tramonto, spuntando dietro la cupola della chiesa che lo aveva nascosto fin allora, irradiò improvvisamente il salottino d'una tenera luce rosea. Eugenia, seduta presso la finestra, se ne sentì quasi toccare con mite carezza. La stoffa nera della veste azzurreggiò e parve schiarirsi sui ginocchi e su le maniche a quell'onda di tinta gentile; allo stesso modo si schiarirono i suoi neri pensieri e il suo cuore nero in quel subitaneo chiarore.
E si affacciò alla finestra con un senso di sollievo, quasi qualcuno fosse venuto a liberarla dall'incubo che la opprimeva.
Alto, su la collina, un vasto quartiere di Marzallo si schierava in faccia al sole; e tutte quelle povere casette con le finestre aperte, i tetti coperti di borraccina, le terrazze piene di graste di garofani e di basilico, con panni sciorinati qua e là, sventolanti come pennoni da le cordicelle tese, parevano sorridere nella luce e formicolavano di vita. I campanili dell'Annunziata e della Mercede, l'uno nel centro, l'altro a sinistra, snelli, traforati, sul fondo del cielo azzurro, quasi posti a guardia delle casette attorno; e il convento di Sant'Anna in cima alla collina, con le mura scurite dal tempo, la cupola della chiesa rivestita di mattoni inverniciati azzurri e bianchi che scintillavano, e a lato il campanile aguzzo, con su una palla e una gran croce di ferro, in quella gioia luminosa, chiudevano severamente l'orizzonte.
Per qualche momento, rapita dallo spettacolo, Eugenia stette a guardare. Ma non appena le si presentarono all'immaginazione altre case lontane, tante volte vedute alla stessa luce rosea dal terrazzino di casa sua, mentre inaffiava i fiori o attendeva che Patrizio dalla finestra incontro venisse a darle la buona sera; ma non appena le balenarono innanzi agli occhi le sorelle, le amiche e quasi ne sentì le voci e le parole, si ritrasse dalla finestra e cercò di scacciare quella visione che inopportunamente veniva a intenerirla e a riempirle gli occhi di lacrime.
Aperse un cassetto, rovistò, ne aperse un altro, senza scopo, soltanto per divagarsi.
Ed ecco la sua bella vita! Aggirarsi dentro due cellette di convento come una mosca senza capo! Smaniare nella solitudine, colma di tutto, fuorché di quel che unicamente avrebbe potuto appagarla e renderla felice, anche senza gli agi, con un tozzo di pane nero! Giacché invidiava fin questo alle poverelle che venivano a stendere il loro misero bucato sui fichi d'India della siepe attorno al convento, ma si traevano dietro i loro bambini! Ah!... Il Signore le aveva pure negato il conforto d'un figlio. Era dunque maledetta, se Dio non le concedeva nemmeno questa grazia? Che peccati aveva commessi da meritarsi tale gastigo?... Padre, sorelle glielo avevano avvertito: «Andrai di qua e di là, senza casa propria, senza parenti, né amici di cui tu possa fidarti! Che ne sai di costui? Dice d'amarti, sembra buono... Chi lo conosce a fondo?». Oh, buono era! E l'amava davvero; non poteva dubitarne. Ci era però di mezzo colei, la sua nemica! Quella che era stata gelosa, e continuava ad essere tale anche di là dove ora si trovava, invadendo tuttavia il cuore del figliuolo e stornandolo da lei, come aveva evidentemente minacciato con quegli occhi fissi di morente! Se li vedeva dinanzi tutte le volte che vi ripensava, dalla mattina alla sera; e anche la notte, allorché non poteva prender sonno e pel terrore svegliava Patrizio: «Ho paura! Ho paura!».
S'era fermata a origliare. Aveva inteso aprire l'uscio; e ora udiva il leggero rumore dei passi di suo marito, che si apprestava ad uscire per la giornaliera visita al camposanto, dov'ella non aveva mai avuto il coraggio di accompagnarlo. Parlava con qualcuno, Zuccaro o Griffo forse; e non si era neppure fatto vedere da lei, quasi volesse andar via di soppiatto a trovare la sua mamma! Questa visita quotidiana diventava, ogni giorno più, tortura insoffribile per Eugenia. Patrizio rientrava così triste, ch'ella non ardiva di interrogarlo né di rimproverarlo. Però quella sera si sentì afferrata da improvvisa smania d'impedirgli di andare; voleva convincersi almeno se ne avrebbe avuto la forza.
Patrizio, vestito di nero, col cappello in mano, comparve in mezzo all'uscio del salottino.
«Sei sola?»
«Con chi vuoi che io sia?»
«È in casa.»
«Va bene. Buona sera. Torno subito.»
Ed anche quella volta lo aveva lasciato andar via!