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«Com'è avvenuto?» domandò il dottor Mola, chiudendo dietro di sé l'uscio della camera di Eugenia.
«Tutt'a un tratto!» rispose Patrizio quasi balbettando. «Da tre giorni, avevo notato qualcosa di nuovo nel suo contegno e non riuscivo a spiegarmelo. Se la guardavo, se le rivolgevo la parola, diventava stizzosa, intrattabile. Non osavo più dirle nulla, per paura di far peggio; ma le stavo attorno, la sorvegliavo, tornando più spesso dall'ufficio, con un pretesto o con un altro... Ah, dottore!»
«Non vi disperate. La crisi è stata violenta. Appunto per questo non credo che si rinnoverà facilmente. E l'aver tempo, in questi casi, è molto, è tutto anzi. Intendiamoci però. Io non sono un santo; non so fare miracoli. Così potessi! E se non mi aiutate voi...»
«Io?»
«Voi. Ho già capito che qui i malati siete due, e che vi è qualcosa di comune nelle rispettive malattie. Abbiate pazienza; sarò franco; è il mio difetto. Ho ripensato lungamente le vostre parole dell'altra volta, al camposanto: «Non ho saputo farmi amare!». Perché? Il nodo è qui. Si tratta di un disordine morale che ne produce uno fisico, a modo mio di vedere. Io sono codino, credo nell'anima; l'uomo-macchina non mi ha mai persuaso. Se voi mi domandaste in che maniera anima e corpo stiano uniti, vi risponderei che non lo so. Nessuno al mondo lo sa; e perciò non mi vergogno della mia ignoranza. Che stiano insieme, lo veggo. Il come, lo saprò, forse, un giorno. Il male è che non potrò venire a dirvelo, perché allora sarò morto... Dio vuole così! Sia fatta la sua volontà.»
E con accento più fermo riprese:
«Ascoltatemi bene. Se avete fiducia in me, dovete confessarvi e al medico e all'amico. Con voi non posso servirmi d'una pietosa bugia come, ricordate? con la vostra signora. Il male pareva vinto. Non più crisi, non più odore di zagara. Ora siamo daccapo. Le malattie nervose, si sa, fanno simili scherzetti, tortura di noi poveri medici. Nei tempi andati, le guarivano i preti a furia di acquasanta e di esorcismi. Dicevano: «Qui c'è lo zampino del demonio!» e agivano in conseguenza, secondo i precetti della Chiesa. Mettiamo pure che il demonio non ci entrasse per niente; l'acqua benedetta però faceva spesso il suo buon effetto, come le pillole di midolla di pane che noi somministriamo a certi fantastici malati. Oggi la scienza non si degna di mostrarsi ciarlatana neppure a fin di bene. È ciarlatana per un altro verso, se pretende di saper guarire meglio di prima. Guarire? Andiamo! Ci sono femminucce che le danno dei punti coi loro empirici impiastri. Io, quando capita, non ho rossore di servirmi di questi. Non sono scientifici, è verissimo, ma guariscono; ed è l'importante. Dunque, niente diavolo. Vi è però un quissimile del demonio: la fantasia eccitata, il pensiero insistente, qualcosa che lavora sotto sotto e mette i nervi in rivoluzione. Non vi spazientite. Cerco di spiegarmi chiaro. Già, noi vecchi siamo verbosi per natura; bisogna compatirci.»
«Parli pure. Scusi. Un momentino.»
Patrizio aperse l'uscio e guardò Eugenia stesa supina sul letto. Un brivido gli corse per la schiena. Nella penombra della camera - col pallore diffuso sulla faccia, il disordine dei capelli scomposti nella convulsione e la immobilità dell'atteggiamento - la povera Eugenia pareva proprio morta.
«È tranquilla» disse.
«Starà tranquilla un pezzo» rispose il dottore. «Chiudete quell'uscio, lasciatela riposare e venite a sedervi qui, accanto a me. Col confessore medico, non occorre che il penitente si metta ginocchioni... Dunque: «Non ho saputo farmi amare!». Dev'esserci di mezzo qualche equivoco. Ricordo altre vostre parole strane davvero...»
«Le dirò tutto!» esclamò Patrizio, sedendosi e stringendogli le mani. «Non ho più ritegni. Da due settimane una trasformazione avviene in me; mi sento divenire un altro; comincio a intravedere qualcosa, io che finora sono stato cieco, brancolante tastoni nella vita!... Le dirò tutto! Sì, i malati qui siamo due; io, forse, il più grave. Porto da lungo tempo il male con me, secondandolo, aiutandolo, afforzandolo senza accorgermene, credendo anzi di far bene. Non sono mai stato un uomo, ma un fanciullo!»
«Bel difetto» disse il dottore sorridendo. «Oggidì, invece, corre il difetto contrario: i giovani invecchiano troppo presto. Io, sappiatelo, a sedici anni, sapevo appena un po' di grammatica, e facevo il chiasso per le vie coi ragazzi miei pari, senza berretto in testa, con indosso i vestiti smessi di mio padre, adattati; allora usava così! Fra poco avrò settant'anni, e non mi peseranno, statene sicuro. Fanciullo? Eh, via! Non ve ne affliggete. Non v'interrompo più.»
E non lo interruppe per quasi un'ora. Solamente, di tanto in tanto, scoteva la testa, aggrottava le sopracciglia, o strizzava un occhio, pelandosi la barbettina attorno al mento, come soleva fare nei momenti scabrosi. Era commosso e stupito dell'eloquente sfogo di Patrizio; non gli levava gli occhi dal viso, e talvolta lo imbarazzava con quella mimica continuata, fino a che Patrizio, portandosi le mani alla testa, non conchiuse:
«È stato così!... È stato così...»
Aveva le lacrime agli occhi. Tutta la triste e solitaria sua vita gli era sfilata rapidamente dinanzi, come in un sogno pauroso, come una straziante fantasmagoria. Nel terreno del suo cuore, sconvolto da tante sventure, era germogliato un ideale purissimo, natural prodotto dell'isolamento e della timidezza diventata la caratteristica della sua indole mite e quest'ideale lo aveva illuso, anzi ingannato! Lo aveva fatto soffrire, lo faceva soffrire tuttavia!
«Vostra madre aveva ragione» disse il dottore.
«Conosceva la vita e conosceva a fondo il proprio figliuolo; per ciò non voleva che voi prendeste moglie.»
«Come tutte le madri; forse, soltanto un tantino di più. Vostra moglie, dall'altro lato, ha ragione anche lei. Ama, ed è naturale che voglia essere amata come si deve essere amati a questo mondo, quando non si è santi addirittura. I santi lasciamoli lì; son altra gente. Dio largisce loro doni soprannaturali; le leggi comuni per loro non valgono. Il matrimonio, per esempio, può essere tra essi l'unione di due anime e nient'altro. Lasciamoli là; sono santi, beati loro! Voi, la vostra signora, io, tutti gli altri siamo misera carne. E la carne non è poi gran brutta cosa. L'ha fatta pure Domeneddio con le sue proprie mani, e bisogna accettarla come l'ha fatta lui che sa bene quel che fa, molto meglio di noi che non sappiamo niente.»
«Vostra moglie è una preziosa creatura d'una bontà rara, d'una semplicità più rara ancora. Non la mettete a prova. Potrebbe darsi il caso - non vi offenda la ipotesi - che la sua forza di resistenza non fosse proprio invincibile. La eccessiva sensibilità, le circostanze, le tentazioni... Il mondo è fatto così. I gravi guai domestici, le terribili tragedie delle passioni spesso non hanno altra ragione. I medici ne sanno qualcosa; i confessori assai più. Oh, non parlo per spaventarvi!» si affrettò a soggiungere il dottore, vedendo un gesto di Patrizio.
«Dice bene!» egli rispose. «Da due settimane mi ribollono nella mente le stessissime cose che lei mi ha dette. Solo quest'ultima possibilità non mi era mai passata pel capo. Non accadrà!»
«Certamente. E persuadetevi pure che vostra madre, dall'altro mondo, ora vede le cose in maniera molto diversa di come le vedeva con gli occhi terreni; il vostro rispetto filiale può stare tranquillo; questo mutamento non le dispiacerà; le sarà piuttosto di consolazione, perché i morti soffrono degli sbagli commessi quaggiù, vorrebbero correggerne le conseguenze e non possono. Il loro purgatorio non è forse altro. E non dimenticate, soprattutto, che la vita è molto più facile che non paia: e che noi, noi stessi, con le nostre fisime, con le nostre stoltezze, ce la rendiamo difficile e dura!»
Patrizio lo guardava, traboccante di gratitudine. Quel vecchietto, risecchito dagli anni, col naso adunco, che gli scrollava dinanzi affermativamente la strana testa schiacciata, gli sembrava nobile e bello in quel momento; e lo avrebbe abbracciato, e baciato, se non lo avesse distratto la nuova agitazione che gli faceva ripetere dentro di sé:
«Oh! Non accadrà!... Non accadrà.»
L'accesso nervoso, contro ogni previsione del dottore, si era ripetuto verso sera e nella mattina del giorno seguente.
Gli tenne dietro un grande abbattimento. Eugenia non tollerava la luce, né i rumori più lievi. Il dottore però si accorse che quella repugnanza per la luce non era soltanto degli occhi.
La malata voleva restar sola, allo scuro, per pensare, per fantasticare con maggior libertà. La crisi dello spirito era dunque più grave che non apparisse. Questo lo rallegrò. Guarito lo spirito, sarebbe venuta, di conseguenza, la guarigione del corpo. E ne disse qualcosa a Patrizio per consolarlo, per spingerlo a sormontare le ingenue titubanze.
Non ce n'era più bisogno. Un lievito di vaga gelosia fermentava nel cuore di Patrizio. Fino a due giorni fa, egli non aveva mai sospettato che il malinteso tra sua moglie e lui sarebbe potuto diventare una rottura o peggio. Si sentiva tuttavia amato in quel dispetto di Eugenia che non si vedeva amata a modo suo; il chiuso rancore, lo sdegno di lei gli sembravano una forma dell'amore, non bella, né invidiabile, ma da contentarsene in mancanza di meglio. Non era egli rimasto e non rimaneva tutto di lei pur soggiacendo alle influenze della propria mitezza ai bisogni della gelosia materna, alle conseguenze dell'educazione e dei casi della vita? Così Eugenia rimaneva tutta di lui anche nello slancio vacuo, nella ricerca inutile, che rappresentavano la direzione di quel povero cuore, non ismentita un solo giorno da che il matrimonio li aveva uniti.
Il dottore intanto aveva detto benissimo: «Ogni resistenza ha un limite!». Riflettendo intorno al possibile disastro, Patrizio dava sbalzi, tendeva le braccia quasi ad afferrare la dolce creatura che vedeva sfuggirsi di mano.
Sentiva fitte punture di rimorso, smaniava domandandosi:
«Farò in tempo?»
E i primi tentativi lo scoraggiarono. Eugenia gli resisteva; non sopportava una carezza, respingeva i baci, e con tale vivacità da sembrare che le ispirassero orrore.
Infatti era proprio così. Sconvolta, indignata dal ricordo dei baci di Ruggero, dopo lo sbalordimento di quel giorno, ella avrebbe voluto portarli via assieme con la pelle della fronte e delle labbra. Invece, macchia indelebile, la loro impronta persisteva; e l'idea che le labbra di Patrizio dovessero posarsi là dove si erano posate quelle dell'altro le produceva intensa nausea, la faceva fremere da capo a piedi.
Le pareva tanto enorme, che in certi momenti dubitava di quel ch'era accaduto, cercava persuadersi di esserselo solamente sognato. E quando non poteva dubitare più, abbrividiva al pensiero che, pur indignandosi, pur non volendo, ahimè, forse sarebbe stata trascinata, un giorno o l'altro, molto più in là!
«E per colpa tua!» avrebbe voluto gridare come una forsennata a Patrizio, vedendolo aggirarsi per la camera, a capo chino, con le mani dietro la schiena, senza sospetto, senza turbamento, soddisfatto del presente, sicuro dell'avvenire!
Ella chiudeva gli occhi, e si stirava sul canapè, irritata da quella domanda, sempre la stessa! Ma quando Patrizio non le domandava niente e le si accostava per accarezzarle i capelli, o si chinava a darle un bacio, mormorando qualcosa che non prendeva suono distinto e non si lasciava intendere, gli opponeva subito le braccia irrigidite dallo sdegno:
«Soffro!... Lasciami stare!... Soffro!»
Non gli credeva più; si sentiva irrisa da quel che le pareva sembiante di carezza e di bacio, mostra senza significato né valore alcuno.
«Soffro!... Lasciami stare!... Soffro!»
Non mentiva: soffriva torture ineffabili, e si augurava di morire. Ah, se uno di quegli accessi nervosi l'avesse fatta restar là, stecchita sul colpo! Ma no, non sarebbe morta così presto! Doveva penare ancora, Signore Iddio! Che delitti aveva mai commessi da doverli scontare così duramente?