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L'epigrafe del libro: «Pour la seconde fois, les Latins ont conquis la Gaule», è una piccola malizia... da latino, direbbero a Parigi.
Il Daudet ha abituato il pubblico ai romanzi contemporanei trasparentissimi, pepati come il pettegolezzo di una conversazione elegante, gustosi come le indiscrezioni susurrate nell'orecchio dietro un ventaglio, e caldi di scandali mascherati a mala pena dal leggier velo d'un nome un pochino storpiato. Egli usa largamente del suo diritto di osservatore e di artista; ma quando con quei suoi occhietti di miope ha sbirciato le miserie, le colpe, il ridicolo della società parigina, non sa frenarsi di rivolgersi al suo lettore e d'ammiccargli, da birichino, con una civetteria quasi femminile. Vuol fargli sapere che sotto il personaggio dell'arte c'è il personaggio reale, che sotto l'episodio — narrato in un certo modo, con attenuazioni o reticenze — c'è l'aneddoto vero, lo scandalo di un giorno che corse tutta Parigi e fu registrato dai giornali.
L'artista in queste malizie, fortunatamente, perde poco o nulla, e il libro, commercialmente, intanto guadagna di molto. Non è una malignità l'affermare che il Nabab e Les Rois en exil siano stati un po' aiutati così ad arrivare oltre le sessanta edizioni. Ma è giusto aggiungere che senza un innegabile merito artistico, per la forza del solo scandalo, non sarebbero arrivati neppure a un terzo. Questo non significa che il Daudet speculi sul pettegolezzo dei suoi lavori, bassamente. Il romanzo moderno è uno studio psicologico positivo, un lavoro d'osservazione minuta, attenta, inesorabile, che non perde le sue belle qualità neanche quando combina i diversi elementi della realtà per ricavarne un insieme che non sia precisamente reale. Significa soltanto che il Daudet mette una punta di malizia nel lasciar intravedere quel lavorio, parte meditato, parte incosciente, da cui viene elaborata l'opera d'arte moderna. Nel Nabab, nei Rois en exil questa punta di malizia traspariva dal titolo e bastava. Nel nuovo romanzo, poiché il titolo non diceva nulla, ha voluto mostrarla nella epigrafe tratta da una pagina del libro stesso.
Infatti, quando s'è detto: «...pour la seconde fois, les Latins ont conquis la Gaule» si pensa subito a quel latino dalle larghe spalle e dalla parola possente che tien oggi nel suo pugno d'atleta i destini politici della Francia7; si pensa a quella turbinosa atmosfera parigina gravida di scandali finanziarii, di agitazioni comunarde e parlamentari, di avidità non mai sazie e di grassi godimenti materiali, che freme d'attorno a quella torreggiante figura del caorsino e minaccia d'abbatterla; e apriamo il libro già belli e avvertiti, leccandoci anticipatamente le labbra pel piccante manicaretto che stiamo per gustare.
Quella festa del concorso regionale nell'arena d'Aps (Aix) sotto un sole cocente, con quella folla in ammirazione dinanzi al grande uomo della provincia, Numa Roumestan, che distribuisce a destra e a manca saluti alla buona, strette calorose di mano, incoraggiamenti e promesse d'ogni sorta, mentre le bande strepitano e i contadini si slanciano in massa a ballar la farandole al suono del piffero e del tamburo di Valmajour, il primo tamburino della Provenza; quella festa ci richiama in mente altre riunioni della stessa natura, delle quali abbiamo lette le descrizioni nei giornali, quando il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente andava attorno, per convertire le turbe al suo vangelo opportunista. Poi si torna indietro; assistiamo ai primi passi del grand'uomo nella carriera della vita. Quella testona dalla nera capigliatura che le mangia metà della fronte, quel viso con tutto il sangue a fior di pelle, con quei begli occhi dorati, di ranocchio, quel giovine studente, insomma, che passa le serate al caffè Malmus, nel quartier Latino, discutendo in dialetto coi suoi focosi compaesani; e, poi, quel processo di stampa del Furet che rivela, più che agli altri, a sé stesso un oratore di prima forza nel giovane avvocato senza cause, ci ricordano anch'essi il latino dalle larghe spalle e dalla parola possente, che, sotto il secondo Impero, frequentava ancor studente il caffè Procopio, esercitandovisi coi pugni sui tavolini nella grand'arte della discussione, e che poi, nel 1868, già laureato e uscito dello studio del Crémieux, nel processo Baudin lanciava, invece della difesa del cliente Delescluze, il suo terribile atto d'accusa contro l'Impero in via di sfasciarsi.
Di mano in mano che si procede nella lettura, il personaggio dell'arte si rimpicciolisce, prende le proporzioni comuni, e il lettore prova un vivo dispetto contro l'autore che, colla malizia della sua epigrafe, lo ha fatto cadere in inganno. Il romanzo, convien dirlo, non lascia d'essere attraente. Le reminiscenze della infanzia di Numa, il viaggio al monte Cordoue in cerca del tamburino Valmajour che riscalda così straordinariamente la testa della giovane Le Quesnoy, la serata musicale al Ministero della pubblica istruzione, le macchiette della modesta cittaduzza di bagni, i tipi provenzali di Bompard, dell'Odiberta, dei Méfre col loro magazzino di commestibili Aux produits du Midi, ecc., ecc., sono degli episodi e dei profili graziosi, pieni di spirito, d'un colorito ben intonato, quantunque privi di rilievo; ma non son tali da fare che la figura e il carattere di Numa acquistino l'alta importanza lasciata supporre dalla malizia dell'epigrafe...
Mio Dio! questi latini che conquistano di bel nuovo la Gallia mi sembrano veramente una meschinissima cosa. Se la Gallia si lascia affascinare dalle sonore esagerazioni della loro parola, dalla sbadata facilità delle loro promesse, dai loro entusiasmi momentanei, dalle loro piccole furberie, tanto peggio per essa. Infine, son essi così diversi dai parigini da doverne fare una classe a parte? Nel romanzo si scorge poco. Si direbbe che il Daudet, arrivato alle strette, non abbia più avuto il coraggio dal suo forte soggetto richiesto, ed abbia indietreggiato dinanzi a quella vigorosa e complessa persona dalla testa capelluta, dalle larghe spalle, dalla voce vibrante e la barba grigiastra che domina davvero la Francia.
Poi, questa volta, il tema imponeva al romanziere un'attitudine seria. Non era il caso di ripetere, con più vaste proporzioni, la deliziosa caricatura dei suoi compaesani schizzata nelle Prodigiose avventure di Tartarin di Tarascona.
L'autore s'è frenato, s'è fatto violenza. Se qualche tratto di fina ironia gli è sfuggito, si vede che gli è accaduto suo mal grado. Egli voleva mostrarci, seriamente, la razza meridionale della Francia col suo sangue sempre alla testa, colla sua voce altisonante, col suo gesto largo da attore tragico, con la sincerità e la volubilità delle sue impressioni; una razza che vive all'aria aperta, abbagliata e inebriata dal sole; tutta sensi, tutta esteriore; che parla come l'uccello canta e fa della propria parola non un mezzo ma un fine, improvvisando, gorgheggiando, trillando e stando ad ascoltarsi, rapita dalla sua stessa musica come da una cosa di fuori; una razza che non ha misura, che vede tutto con proporzioni enormi, che ha l'esagerazione nel midollo delle ossa, nel sangue, nei nervi e perciò dà la stessissima importanza a cose affatto disparate; e questa razza, attiva, irrequieta, un po' rozza, un po' superstiziosa, troppo naturale, voleva mostrarcela alle prese colla raffinata civiltà parigina che se ne scandalizza ma si lascia soppraffare, che ne ride ma le si sottopone, sia fiacchezza, sia indolenza, sia importanza, non gl'importava di dircelo.
Nessuno era più adatto di lui per un quadro di questa natura. Meridionale naturalizzato di buon'ora parigino, egli ha l'immaginazione vivace, impressionabile, lo stile caldo e pittoresco, ed insieme la osservazione acuta e il buon senso che sorride; proprio quel che ci vuole per essere un romanziere moderno di razza, qual ha potuto mostrarsi nel Nabab e nei Rois in exil, per citar solamente i suoi più recenti lavori.
Eppure questo nuovo romanzo è riuscito sbiadito, a dispetto di tutto il sole che l'autore vi ha profuso. Quando noi vediamo la rigida parigina scandalizzarsi della leggerezza di carattere di suo marito, noi sorridiamo indulgenti. Le parole significano qualche cosa, ella dice, niente persuasa che tra meridionali, come assicura Roumestan, esse abbiano soltanto un senso relativo. Ed è vero. Ma a Parigi, a Londra, a Roma, a Pietroburgo, signora mia, in certe occasioni, quando tutte le immaginazioni sono scaldate, quando tutti gl'interessi sono in fermento, non è meno vero che le parole significhino sempre o qualcosa di più o qualcosa di meno di quel che suonino in realtà.
L'intiero romanzo è concepito sotto questo falso ed esagerato punto di vista. Atti troppo comuni in ogni latitudine vengono addossati al povero Numa Roumestan come altrettante colpe di origine. La razza! Il Daudet non vede altro. E, da meridionale, si scalda, alza la voce, si batte i fianchi, sgrana gli occhi: la razza! la razza! Ci manca poco che non la calunnii questa povera razza, per servirsene allo scopo della sua opera d'arte.
Numa vien presentato in casa Le Quesnoy come candidato alla mano d'una delle due ragazze di quel Consigliere della Corte d'Appello. Non si tratta, è bene avvertirlo, d'un matrimonio d'amore. Però il futuro marito deve piacere alla ragazza, una parigina puro sangue, che non può soffrire i meridionali da lei creduti tutti grossolani, chiassosi, vuoti, dei tenori da melodramma, o dei negozianti di vino in grosso. Numa fa di tutto per piacerle. Un parigino, nel suo caso, non avrebbe fatto altrettanto? Numa parla, si lascia andare, diventa eloquente; forse ripete involontariamente (è l'autore che lo nota) dei brani di discorso contro la Corte imperiale pronunciate altrove, al caffè o alla Conferenza; ma scuote la ragazza, ma le fa sentire il fascino della sua voce, ma la travolge in quel suo fiume di generosa eloquenza che ha parlato così appassionatamente di libertà e di giustizia; e quando essa, un'anima d'artista, se lo vede trasfigurato sotto gli occhi, non più tenore da melodramma, né vinaio in grosso, e gli parla, abbagliata, e gli domanda:
— Oh! signorina, se l'amo! — risponde Numa, che sa di non capirne nulla.
E la stordisce colle sue frasi belle e fatte, colle sue idee vaghe e superficiali presentate con tutta l'arte della parola e con tutti i grandi gesti del mestiere. Avrebbe forse fatto diversamente un giovane parigino un po' furbo che stesse ad uccellare alla dote? Pare che il Daudet creda di sì. In tutto questo naturalissimo artifizio egli vede la malizia, o, se non la malizia, l'esagerazione poco scrupolosa del meridionale. E finisce il capitolo esagerando alla sua volta, da vero meridionale che si sia ben montata la testa: Flamme et vent du midi, vous êtes irresistibles! come se Numa Roumestan avesse operato un miracolo.
Il Daudet ce l'ha un po' con questa sua creatura e le aggrava addosso la mano.
Numa, avvocato in voga, casca nella rete delle seduzioni d'una cliente, certa marchesa d'Escarbés, donna di più di quarant'anni, mezza disfatta e tutta ripicchiata, che mena di fronte gl'intrighi galanti e gl'intrighi politici. Una debolezza, se così volete. — Era nobile! E per l'uomo del mezzogiorno questo facea le veci di tutto: il blasone gli nascondeva la donna. — Ma no; molti mariti parigini fanno lo stesso in tutti i mesi dell'anno... Il Daudet gli amministra intanto un assai grave gastigo. «Bruscamente, senza dire una parola, ella si slanciò, attraverso il piccolo salotto, andò diritta alla porta del gabinetto, la spalancò e cadde rovescioni. Non avevano neppur messo il paletto!» Rosalia riceve tal colpo la vigilia di esser madre, dà alla luce un bambino morto e si dibatte per qualche tempo tra la morte e la vita. Si può dire, in coscienza, che in questa disgrazia la povera razza meridionale c'entri proprio per qualche cosa?
Ma penetriamo un po' più addentro nel carattere di Numa.
Egli si annoia in quel sobborgo di San Germano, fra le viete illusioni legittimiste. La sua attività sente bisogno d'un campo più serio, e già egli prepara un'evoluzione verso il partito imperialista. Un giorno, a tavola, Numa si sfoga a canzonare quei di Froshdorf; li rassomiglia al Pegaso di legno di don Chisciotte inchiodato fermo al suo posto mentre il Cavalier della Mancia, cogli occhi bendati, crede di viaggiare su di esso pegli azzurri spazi del cielo. — Il suocero consigliere si mette in sospetto. Tieni d'occhio il tuo grand'uomo; mi pare che ciurli nel manico, egli dice alla figlia. E Rosalia sorprende, poco dopo, il marito mentre scrive una lettera all'Imperatore con la quale egli accetta il posto di consigliere di Stato: Figlio della Vandea del mezzogiorno, cresciuto nella fede monarchica e nel culto rispettoso del passato, io non credo venir meno all'onore né alla mia coscienza...
Sua moglie lo rimprovera; egli si difende stizzito. La parigina replica, insiste...
— Tu hai ragione, cento volte ragione; convien rispondere al contrario, dice Numa convinto.
E sta per stracciare la bozza. Ma c'è lì una bella frase che può servire, modificandola un pochino: Figlio della Vandea del mezzogiorno, cresciuto nella fede monarchica e nel culto rispettoso del passato, io crederei venir meno all'onore e alla mia coscienza, accettando... Senza dubbio non è morale, non è dignitoso; Numa non ci fa una bella figura. Ma se mi dite che è per la razza, per la indifferenza meridionale intorno l'onesto e il disonesto, io vi rispondo di no. Nessun parigino ha mai fatto altrettanto? La cosa è un po' difficile a esser creduta.
E tutto il romanzo va di questo passo intramezzato di gentili episodi come il Daudet sa foggiarli. Potrei anche citare la bella e vispa signorina Le Quesnoy innamorata del tamburino Valmajour. Che ad Aps, in mezzo al chiasso indiavolato della festa nazionale, con quel sole cocente, la bizzarra e rozza figura del suonatore di piffero e di tamburo le faccia una strana e forte impressione, passi; ci è un po' di natura meridionale in quella testolina immaginosa. Ma che la illusione duri a Parigi, dopo il ridicolo che colpisce il suonatore nella festa musicale al Ministero e nel suo debutto all'Opera; ma che l'illusione sia così profonda da intaccare i germi vitali della povera ragazza, ecco, è... meridionale addirittura. E il Daudet non se n'accorge.
Una cosa intanto sorprende: il difetto di colorito in un soggetto meridionale.
Una cosa intanto fa pensare: la mancanza di quei contrasti così soliti nel Daudet.
Gli è stato detto tante e tante volte che la sua forma è troppo straluccicante, troppo impennacchiata; gli è stato detto tante e tante volte che i suoi quadri mancano di proporzioni nei diversi episodi e abbondano di contrasti eccessivamente ricercati. Ed ecco che il vivace romanziere si sorveglia, si rattiene, anche a costo di riuscire, egli! un po' grigio e monotono: ed ecco che architetta il suo lavoro ingegnosamente, con regolarissime proporzioni di parti, senza divagazioni, senza contrasti.
Che vuol dire?
Secondo me, vuol dire che questo libro è la forma transitoria di una bella evoluzione artistica del Daudet. Qui comincia a mancare l'accento personale, l'emozione intensa dello scrittore, e i personaggi, se non si disegnano netti e spiccati, tentan di vivere da per loro. Guardando all'ingegno del Daudet, non è ardito presagire che nel suo prossimo romanzo potremo salutare la sua evoluzione artistica già bella e compiuta.