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È una figura dolce e gentile che comincia a sbiadire.
Ce lo dipingono con la carnagione bianca, cogli occhi cerulei, coi capelli castagni, con certi baffi lunghi e folti dei quali si compiaceva quanto delle mani e dei piedi che aveva piccoli e ben fatti. Vestito sempre con ricercata eleganza, affabile di modi, conversava con arguzia, e aveva motti pieni di malizia fina e delicata dei quali il suo sorriso temperava la puntura.
Era, come allora si diceva, naturalmente romantico, senza affettazione, con una certa elevatezza che rende rispettabile il suo carattere anche quando chiama un sorriso sulle labbra. Appena sposato, mette in una cassetta gli abiti nuziali e li conserva come ricordo di uno dei più felici momenti della sua vita. Di tanto in tanto si accerta coi propri occhi che quel sacro deposito sia ben custodito.
Le sue stanze erano sempre ingombre di vasi di fiori: amava portare spesso un mazzolino all'occhiello. Cani, gatti, scoiattoli, uccelletti, liberi e addomesticati con amorosa pazienza, tutti convivevano con lui, che godeva di studiarne le abitudini, gli istinti e faceva il chiasso insieme con essi. Era convinto che quelle creature avessero piena coscienza di loro stessi e che si credessero altrettanti uomini e fossero assai più buoni e più affettuosi di questi.
La sua sentimentalità lo faceva attaccare ugualmente anche alle cose inanimate. I vecchi mobili gli erano cari pei ricordi che gli suscitavano, e li voleva d'attorno, in vista, perché narrassero la loro storia in mezzo a quelli venuti dopo. Nella sua villa di Moneglia, dove passò la puerizia e dove andò a morire, conservava tuttavia i primi suoi libri sgualciti, strappati, macchiati, con precoci annotazioni ai margini che i tarli non aveano sempre rispettato.
Però la dolcezza del carattere, la bontà d'animo quasi eccessiva non gl'impedivano di essere, a tempo e a luogo, dignitosamente forte.
Giovane ancora era stato eletto professore di letteratura greca invece del suo maestro, il Solari, messo sgarbatamente a riposo quando l'università genovese fu riformata; ma il Romani non accettò per non essere complice di recata offesa all'onore di un grand'uomo e non affliggere colui verso il quale nutriva riconoscenza ed affetto di discepolo.
Così, più tardi (1851), dopo le noie e i dispiaceri avuti in Torino per la direzione della Gazzetta ufficiale, egli rifiutava le offerte del conte Pachta, allora commissario imperiale in Milano. Il conte Pachta avea saputo attirarsi con buone ragioni l'animo del suocero del Romani. — Si voleva fare all'illustre scrittore, maltrattato dal governo sardo, una posizione indipendente nella Gazzetta di Milano, una posizione puramente letteraria, senza noie di revisione, colla più completa libertà di principî... e carta bianca pel resto... — Il suocero era corso da Milano a Torino colla buona novella; ma il Romani non avea voluto neppur sentirne parlare: il suo patriottismo era assai superiore al suo interesse e al suo orgoglio di letterato; rifiutava. E alla moglie, che nella proposta del commissario austriaco vedeva soltanto la desiderata occasione di ritornare nella sua città nativa, fra i suoi, e perciò tentava di persuaderlo: «È un insulto — rispose — fatto a me, al mio decoro e al mio paese».
Per la stessa ragione parecchi anni avanti (1816) aveva rifiutato il posto di poeta cesareo della Corte di Vienna. Bisognava rinunziare alla cittadinanza sarda e diventare suddito austriaco. Il Romani preferì non toccare i quattromila fiorini annui dello stipendio, non godersi le dolcezze del bel soggiorno viennese e rinunziare all'onore non piccolo di essere il successore del Metastasio, piuttosto che accettare a quel patto.
* * *
La sua critica, nelle appendici della Gazzetta ufficiale torinese, era anch'essa un riflesso del suo carattere, un che di ardito, di sentimentale e di severo, tre qualità che avrebbero dovuto fare a pugni tra loro e in quell'anima si compenetravano, si armonizzavano per una certa vaporosità d'idee propria di lui e di quei tempi.
Il conte di Cavour gli diceva un giorno:
— Lei, caro Romani, è troppo classico!
— Io non sono né classico, né romantico — rispondeva — Voglio anch'io il progresso, purché io sappia dove si va e che cosa si va a fare.
E gli pareva che allora si andasse, a rotta di collo, in un precipizio.
«Uno sbrigliato ardimento di tutto violare, un continuo smarrirsi nelle nuvole di astrazioni metafisiche, un fallace notomizzare di passioni, un abuso di mistico e di fantastico, nessun ordine e nessuna proporzione nelle forme; bandita ogni eleganza; non proprietà di voci, non convenienza di stile; in prosa e in poesia, nei libri e nei teatri ogni sorta di stravaganze, ogni turpitudine di vizi e di colpe, ogni abbandono di morale e di gentilezza italiana... Ecco a che estremo vuolsi condurre la nostra letteratura!».
Questo scriveva nel 1843, pei romantici; e aggiungeva:
«E invano il cielo d'Italia sorride sereno, invano il sole si compiace di questa terra fiorente, e invano ogni sasso, ogni tomba, ogni tempio parla a noi di antiche grandezze, di incancellabili glorie! O Italiani! Poiché la libidine d'imitare gli stranieri si è tanto radicata negli animi vostri, non li imiterete voi mai nella generosa ambizione di conservare le patrie ricordanze e di conservare inviolato il più santo palladio d'un popolo, quale si è quello dell'indipendenza dell'ingegno?».
Precisamente come molti sentimentali o spiritualisti esclamano oggi, alla lor volta, contro i così detti realisti colpevoli, secondo essi, di abbandono della morale e della gentilezza italiana!
Il Romani è più sicuro e più autorevole, quando parla dell'arte sua (stavo per dire del suo mestiere):
«E voi che vi mostrate tanto schifi delle imitazioni dal francese, quando tutto è imitazione fra noi, vesti, costumi, usanze, arti, letteratura, credete voi così facile ridurre una tragedia o commedia francese in un melodramma italiano? Far poche pagine di un volume? Compendiare una lunga azione? Mettere in miniatura caratteri, personaggi, situazioni? Da un componimento tutto dialogato togliere via il dialogo, suo primo elemento? E poi vi par facile soddisfare a tutte le esigenze della musica; prestarsi a tutte le convenienze dei cantanti; distribuire i così detti pezzi in maniera che gli uni non nocciano agli altri, sceneggiare senza monotonia, ora coi soprani, ora coi bassi, combinando la ragion poetica con la necessità dell'arte; allargare un concetto in tanti versi del tal metro e restringerlo in tant'altri e della tal'altra misura?».
No, la cosa non è punto facile, massime quando si posseggono tanto ingegno, tanta cultura e tanto buon gusto da esigere che l'adattamento melodrammatico conservi una piccola apparenza d'opera d'arte; ingegno, cultura e buon gusto che il Romani aveva certamente, e sarebbe stoltezza il negarlo.
Però egli non si accorgeva che la sua difesa del librettista diventava la completa condanna del preteso lavoro poetico. Non si accorgeva che, dopo il Metastasio, nell'opera in musica le parti sono invertite, e che mentre prima la musica poteva dirsi l'accessorio, l'aiuto, l'ornamento, lo svolgimento melodico dei punti più culminanti del lavoro drammatico, ora invece essa ha preso il primo posto, ha invaso il campo e ridotto la poesia un vero pretesto per la sua personalità di opera d'arte indipendente.
Il fatto è che voi potete citare Temistocle, la Clemenza di Tito, Artaserse, tutti, fino a uno, i melodrammi del Metastasio; potete citare le sue strofe sentenziose, i suoi versi già diventati patrimonio del linguaggio comune, senza che vi venga in mente il nome d'uno di quei classici maestri che li vestirono di note, senza che vi passi pel campo che quelle strofette e quei versi siano stati musicati o che fossero a questo destinati. Potete fare di più. Staccare assolutamente dall'opera del poeta la fioritura musicale, restituire il lavoro drammatico alle sue libere movenze di parola recitata, e così persuadervi della sua perfetta vitalità come opera d'arte.
Nominate invece Norma, la Sonnambula, Lucrezia Borgia, Anna Bolena! Con questi nomi vi verranno spontanee sulle labbre le divine melodie del Bellini e del Donizetti; i versi serviranno soltanto ad agevolarvi i richiami dell'orecchio e il piacere della memoria; e vi parrà forse impossibile che possano stare da loro, come opera poetica e nient'altro. Eppure son belli, armoniosi, delicati, spesso vigorosi, vibranti; ma rimangono precisamente come se non avessero nessun valore, dei zero, innanzi ai quali bisogna mettere una unità capace di elevarli a numero, cioè: quella nota che è già tutto, quel qualcosa fuor del verso, fuor della strofa, fuori dell'azione, quella vera opera d'arte che può farne senza; insomma: il sentimento indefinito nell'espressione indefinita.
Inoltre, come caratteri, come passioni in conflitto, come azione, come tragedia o commedia, quell'opera d'arte gode già altrove la sua completa esistenza; voi librettista, voi (diciamoglielo in grazia della forma!) poeta, non avete creato nulla, non avete soffiato su nessun personaggio il vostro spiraculum vitae. Cotesto vostro lavoro di riduzione, di eliminazione, di condensazione è, come negarlo? puramente manuale; e per questo non accadrà mai che i vostri melodrammi contino nella storia dell'arte come la continuazione o (quello che è più ardito) come il perfezionamento del melodramma metastasiano.
* * *
Ahimé! Al cospetto del pubblico è probabile possa anche contar poco tutto il bagaglio lirico ed epico dell'autore.
Mai non potrà guarire;
Forse a te pur son tenebre
Che non verdeggia mai:
Questa e le altre elegie hanno, insieme colle romanze, il pregio della musicalità; paiono far vibrare anticipatamente il motivo che dovrà risvestirle.
Gli astri che consapevoli
Oh! dimmi tu,
Oh! dimmi a chi
Parli di me così?
Sì, nelle odi, nelle anacreontiche, nelle canzoni, nei poemi tentati e prudentemente lasciati lì, c'è sempre il riflesso della sua gentile e mite persona, nella forma mite e gentile; ma nulla che accenni a vera e profonda emozione lirica o a splendore di colorito.
Talché io mi compiaccio di ritornare alla mia simpatia, all'uomo; e pesco nel libro della signora Romani due aneddoti nuovi.
Al Bellini mancava ancora nel 1827 un po' di disinvoltura; aveva, dice la signora Romani, l'apparenza d'uno studente di provincia ed era trascurato nei vestiti. Il Romani, accurato, attillato, soleva canzonarlo per questo.
Dopo la prova generale del Pirata, il Romani lo tira da parte e gli domanda:
— È con cotesto vestito da collegiale che tu monterai sullo sgabello a dirigere l'orchestra, domani?
— Sì — risponde il Bellini, facendo una spallucciata: — oramai è troppo tardi per ordinarne uno nuovo.
— Provati questo — replica il Romani, cavandosi il suo.
Il vestito gli stava a pennello. La sera dopo, il Bellini si presentava al pubblico della Scala dentro i panni del suo amico...
Un'altra volta il Romani, pregato e ripregato, erasi indotto ad andare a Parma per assistere alle prove di un'opera belliniana. Una sera, nell'uscire dal teatro, egli si vede accostato da un signore di modi gentili che lo prega di uniformarsi alle leggi del paese, tagliandosi i baffi perché negli Stati ducali nessun forestiero poteva portare i baffi al di là del terzo giorno.
Il Romani cavò di tasca l'orologio e disse:
— Sono ancora in tempo! Parto immediatamente!
E sarebbe partito davvero, se il conte Sanvitale non correva dalla duchessa Maria Luigia e non otteneva un vero decreto che permetteva al sig. Felice Romani, Letterato e Poeta, nativo di Genova, domiciliato a Milano, di portare barba e baffi nei suoi ducali stati.