Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO I

PROFILI DI DONNE

V IELA

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V

 

IELA

 

I cavalli scalpitavano impazienti sullo stradale a una sessantina di passi dalla porticina dell'orto dove io stavo ad origliare. Sentivo di quando in quando il rumore delle catenelle che suonavano al loro collo e gli scossoni di tutti gli arnesi, che i poveri animali accompagnavano con una specie di sternuto. Mi pareva impossibile non nitrissero, e li ringraziavo col pensiero della quasi intelligente riserbatezza mostrata in quel punto.

Aspettavo da due ore.

Era nugolo. Il vento stormiva furioso fra gli alberi e mi recava interrottamente all'orecchio rumori sordi, lontani, che somigliavano ad urli, a lamenti, a grida confuse e mi facevano trasalire.

Provavo intanto una fiera compiacenza a quelle emozioni notturne. Passare di un tratto dalla monotona vita di provincia ad una bizzarra avventura che aveva le due grandi attrattive del pericolo e dell'ignoto, per uno già sfinito dalla noia era anche un po' troppo. Sentivo ridestato in fondo al cuore qualcosa rimasta lungo tempo a dormire; respiravo piú liberamente; riconoscevo con soddisfazione che non ero già vecchio a ventisei anni.

Quell'immensa solitudine da cui ero circondato; quella vallata che il vento riempiva dei suoi strani sibili; quelle ombre della notte senza luna che trasformavano l'aspetto degli alberi e dei luoghi in un che di fantastico e di pauroso privo di contorni e di limite; tutto serviva a comporre uno sfondo che si adattava benissimo alla natura della mia impresa ed alla singolare situazione dell'animo mio.

Aspettavo, ripeto, da due ore. Nella casa e nell'orto non si sentiva anima viva.

- Verrà? Non verrà? Che un qualche accidente abbia sconvolto i nostri piani? Ch'ella si sia pentita della sua arditezza nel momento di metterla in atto? -

Appoggiato all'intaglio della porticina dell'orto, ruminavo da un pezzo queste domande e già cominciavo a credere che la signora avesse mutato risoluzione, quando intesi il girar di una chiave nella toppa dell'uscio.

Mi tirai da parte, trattenendo il respiro.

L'uscio si aperse lentamente; una testa affacciossi indistinta nell'ombra e stette un minuto ad ascoltare; indi intesi picchiare sul legno i tre colpi di chiave convenuti.

- Son qua da due ore - dissi a bassa voce, facendomi innanzi.

- Siamo già pronte - rispose una voce di donna; - vo a chiamar la padrona.

- Benissimo! Le parole mi facevan nodo alla gola. Se la persona che doveva da a poco fuggire con me fosse stata la mia dama o la mia amante non avrei potuto essere piú agitato.

Trascorsero cinque minuti che mi parvero un secolo. Non vedevo l'ora di esser lontano di un buon paio di miglia e m'impazientivo d'ogni intoppo. Avevo spinto l'usciolino lasciato aperto, avevo messo il piede nell'orto, mi ero anzi inoltrato sino a mezzo viale, ed ero tornato subito addietro per paura di commettere un'imprudenza. Un lume apparve finalmente dietro le imposte di una finestra e si spense a un tratto. Aguzzai gli occhi nel buio: due ombre disegnaronsi sul bigio delle mura del villino e sulla striscia del viale.

- Per dove? - chiese la signora con voce soffocata. - Per di qua - risposi prendendola per la mano. Ansante, tremante, non poteva camminare spedita. - Coraggio! - le dissi, sentendola singhiozzare.

Mi strinse la mano come per ringraziarmi, e si asciugò gli occhi.

- Il cavallo è dei piú tranquilli - feci io, aiutandola a montare in sella, mentre il mio servitore, piegato un ginocchio a terra, le presentava l'altro onde servirle da gradino. - Cavalcherò al suo fianco; stia tranquilla.

- Grazie! - rispose col solito tono di voce.

E saltò leggiera in sella, come persona abituata a cavalcare.

Lo stradale tirava dritto fra due siepi di fichi d'India. Lo scalpito monotono delle ugne ferrate dei cavalli era il solo rumore che si perdesse confuso fra i sibili acuti del vento.

Era appena un'ora dopo la mezzanotte, e l'aria pungeva, benché si fosse verso la fine dell'aprile.

Stavamo tutti zitti: già, con quel vento, era impossibile il parlare. Ella tossicchiava di quando in quando e fermava un pochino il cavallo; poi riprendeva subito il trotto. Uno dei miei contadini e la cameriera ci seguivano a breve distanza. Il mio servitore e l'altro contadino venivano dietro a cento passi per avvertirci di galoppo a ogni possibile contrattempo.

A quella stess'ora Paolo ballava furiosamente in casa di un parente di lei onde allontanare ogni sospetto.

 

Lo stradale, dopo un buon tratto, dava una svolta. In fondo al gomito ch'esso formava poco piú giú, splendeva un lume.

- Che sarà mai? - chiese la signora arrestando il cavallo.

- È la barriera - risposi, - non abbia paura. Si trova bene sulla sella?

- Benissimo; grazie -.

L'omo urtò colle gambe del cavallo la grossa catena di ferro che sbarrava il passo e fece suonare una campana dentro la baracca di legno. Una voce dall'interno ciangottò non so che parole: indi, allo scarso lume del lanternino attaccato al muro, vedemmo affacciarsi allo sportello dell'uscio una testa barbuta, collo sbadiglio alla bocca e gli occhi nuotanti nel sonno. Pagato il pedaggio, lo sportello si richiuse e la catena cadde a terra. Lo stradale tornò a risuonare del trotto dei nostri cavalli.

Il buio non mi aveva permesso di veder bene in viso la fuggitiva: avevo però udito la sua voce, una voce dolce, carezzevole tanto da potermene accorgere alle poche sillabe pronunciate.

- Era bella? Naturalmente mi figuravo di . Le davo degli occhi cerulei, limpidissimi, e dei capelli biondi. Perché? Non lo sapevo neppur io, ma mi sembrava che a quelle forme svelte, eleganti e un po' virili stessero bene una capigliatura bionda e degli occhi cerulei. Quel che di virile delle forme mi pareva dovesse venir modificato dalle tinte dolci del ceruleo e del biondo. Alcune mosse intravvedute nell'oscurità, prima che montasse a cavallo, me le facevano supporre un carattere mite, affettuoso, uno di quei caratteri che quando amano si danno tutti intieri, un po' per bontà, un po' per fiacchezza. Ma quella sua fuga non mostrava il contrario? Oh! no, non era forse una bionda. Sotto una fronte bruna, contornata da capelli di lucido ebano, saettavano forse due grandi occhi nerissimi...

Io però tornavo a vederla bionda, per lo meno castagna, tendente molto al biondo...

La statura indicava una persona sui venticinque anni. La voce un po' piena, con delle inflessioni di grand'effetto, faceva supporre una donna. Maritata? Vedova? Non volevo entrarci. Quel Paolo era sempre stato l'uomo dalle belle avventure! Questa volta però mi sembrava l'avesse fatta un po' grossa. Basta! Doveva pensarci lui!

Ma come ella lo amava!

Fuggir di casa sua, accompagnata da una persona a lei sconosciuta, andarsi ad esiliare in una campagna lontana, per vivervi fuori d'ogni relazione socievole, sola coll'uomo del suo cuore; o non era questa una gran prova di affetto? E voleva dir nulla quello sfidare il terribile sdegno dei parenti, le inesorabili rigidezze di un paesetto ove il suo nome sarebbe diventato segno ad ogni abbominio, ad ogni vitupero?...

Doveva amarlo perdutamente!... Mi sentivo intenerire.

L'ombre della notte si erano intanto diradate. Il vento era quasi cessato; ma il freddo del mattino mordeva piú vivo. Lo stradale cominciava ad animarsi di carri che montavano in su carichi di ortaggi, per trovarsi al mercato dei paesetti vicini prima dello spuntare del sole. I carrettieri, sdraiati bocconi sul gran mucchio di roba accatastata, fumavano le loro pipe canticchiando, e scotevano di tanto in tanto le redini di corda raccomandate a un pomo della tavoletta di fianco.

La signora vestiva un abito nero con piccole gale arricciate, orlate da un profilo di seta azzurra. Uno scialle egualmente nero, fissato al petto da uno spillo, le copriva le spalle. Il cappellino di paglia scura, con nastro e fiori rossi, che le sormontava la testa era quasi tutto avvolto da un gran velo denso, accortamente abbassato sul viso, il quale m'impediva di accertarmi se le mie supposizioni fossero state, o no, bene azzeccate.

Avevamo da un pezzo preso una scorciatoia a traverso i campi; e non tanto per evitare d'incontrar gente che la riconoscesse, quanto per trovarci a tempo alla piccola stazione di Bicocca. Vi arrivammo infatti che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato un quarto d'ora a passare.

Spossata dal viaggio e piú, forse, dalle emozioni, domandò un bicchier d'acqua. Il capostazione invitolla gentilmente a montare nella stanza di sua moglie: lassú avrebbe anche potuto riposarsi un po' meglio che sulle panche di legno della stanzuccia di aspetto.

Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona alla quale dovevo tener compagnia non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finché il mio amico non avrebbe potuto venire presso lei senza punto farsi scorgere.

Allorché la moglie del capostazione le presentò il bicchier d'acqua, la signora alzò il velo poco piú in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione brunetta tirava un po' al pallido. Dei capelli nerissimi, un viso ovale piuttosto piccolo, un mento gentile, una bocchina stretta come un anello, ma seria per naturale atteggiarsi delle labbra: ecco quello che potei vedere con un'occhiata investigatrice, nell'intervallo di due secondi, tra l'alzata e l'abbassata del velo.

Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve potesse essere; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, che non si lascia discutere, ma s'impone. Però simpatica , molto simpatica, che per me, infine, voleva quasi dire piú di bella. Nel viso di una persona simpatica non par di trovare qualcosa di affine al nostro essere che ci si assimili subito, mentre la persona bella ci rende sorpresi, ammirati, ma ci mantiene come in distanza? Una donna perfettamente bella, a mio modo d'intendere, non può essere amata.

Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la sua vera anima, gli occhi: e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m'abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dati quel collo, quel mento, quella bocca, quel colorito della pelle, quella statura, quei capelli, qual'avrebbe dovuto essere l'intiero volto e, piú specialmente, la espressione degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore tremolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi i miei occhi fissati sulla panchina agghiaiata, sottostante alla finestra.

La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto sur una sedia di paglia, il capo appoggiato ai guanciali, le mani ferme sulle ginocchia, pareva si riposasse dalla fatica del cavalcare e pensasse Dio sa a che!

 

Il servitore e i due contadini rimasero per tornare a casa coi cavalli. Correva poco meno di un giorno di cammino dal posto dove eravamo andati a prendere la fuggitiva, e i poveri animali avevan bisogno di ristoro.

Nel vagone fummo soli, lei, la cameriera ed io. Credetti che quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso... Ma niente affatto! Ella adagiossi in un canto come per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi a scambiare qualche parola colla cameriera, che non eragiovanebella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l'«eccellenza».

Cavai di tasca il portasigari e domandai se la signora soffrisse pel fumo.

- Eccellenza no - rispose la cameriera - e nemmeno io.

- Fumi pure - soggiunse la signora senza rimuoversi dalla posizione in cui si trovava. - Non mancherebbe altro ch'ella avesse anche questa noia! Sarebbe un troppo grande sacrifizio: fumi, fumi, la prego -.

Il Jonio scintillava come un immenso specchio contro il sole. La spiaggia disegnava in quel punto una vasta curva, dolcissima, dove l'onda del mare veniva a morire lentamente quasi per languore amoroso. Giardini ancora bagnati della rugiada del mattino, che profumavan l'aria colla loro zagara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di bel nuovo, tutto mi passava velocemente di fianco con la rapida corsa del treno; ed io guardavo , ma senza distinguere gli oggetti, come se il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. Infatti rimanevo serio, indifferente, intontito, fantasticando a seconda della facile corrente dell'imaginazione e contento di prestarmi ai suoi piú bizzarri capricci.

 

Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli: ripartimmo immediatamente.

- Ed ora che non ci è piú degli importuni da temere - dissi appena chiuso lo sportello - ella può liberarsi della seccatura del velo.

- Ma... ma... - balbettò.

Intanto spinse risoluta le mani dietro il capo e, staccato uno spillo, rimosse via quell'ingombro.

La guardai sorpreso.

L'avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Via! non poteva darsi: sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa di a me noto che produceva quell'effetto; ma non trovavo, per , una spiegazione plausibile.

Era simpatica. Altro! Gli occhi però non corrispondevano preciso con quelli da me imaginati dopo visti il mento e la bocca. Erano neri, vivaci, ma piccoli, dallo sguardo profondo che a un lieve aggrottar delle sopracciglia assumeva un'espressione di indefinibile tristezza. Mi sentivo imbrogliato. Quegli occhi, senza fallo, gli avevo veduti prima di allora; quell'indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo.

Ella mi tolse dalla confusione domandandomi:

- Si arriverà tardi?

- Alla Marza? Domani - risposi, ricomponendomi subito.

- E viaggeremo tutto questo giorno e la notte seguente? - disse un po' meravigliata.

- No, questa sera ci fermeremo in Rosolini: ripartiremo di buon'ora.

- È un bel posto la Marza? - chiese dopo qualche minuto.

- Stupendo - risposi - massime in questa stagione. Vedrà: qualcosa di strano ch'ella non può imaginare.

- Molte piante?

- Nessuna.

- Una campagna rasa, un deserto?

- Presso a poco -.

E mi fissò tra incredula e dispiaciuta.

Le abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione della Marza, che produsse quasi subito l'effetto voluto. Indovinando poi facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi ad essere il primo a parlare di «lui».

- Paolo - dissi - forse non potrà esser prima dell'altra settimana.

- Come? - ella fece, - non verrà fra tre giorni?

- Potendo - ripresi. - Ma bisogna esser cauti... capisce?

- Non correrà pericolo, è vero? - chiese, voltandosi piú direttamente verso di me.

- Oh per questo stia tranquilla!

- Dio mio! Vergine santa! - esclamò ripetutamente, guardando in viso la cameriera, come per persuadersi se quella partecipasse i suoi terrori.

- Voscenza stia zitta - rispose la cameriera, che comprese a volo la muta interrogazione degli occhi. - Non facciamo cattivi auguri. Bedda matri! Si cheti! -

Dopo un quarto d'ora il diaccio di ogni primo incontro era bello e rotto, e ragionavamo tranquillamente di mille cose. Spesso però ella interrompeva il discorso per ritornare col pensiero a Paolo, alla famiglia, a ciò che doveva accadervi in quel momento, alla lettera diretta alla sorella, lasciata sul marmo del comodino della sua stanza, e il volto le si abbuiava, e le pupille le si velavano di lagrime; ma infine faceva uno sforzo, sospirava e riattaccava il discorso.

Verso il tramonto, assai prima di arrivare in Rosolini, si avvolse nello scialle, rannicchiossi nel suo angolo di carrozza e stette cosí, pensosa, cogli occhi socchiusi, senza pronunciare una sillaba, fino al momento che, a sera inoltrata, la carrozza fermossi innanzi il portone dell'albergo.

Ci rimettemmo in viaggio prima che fosse l'alba. Ella scese le scale in fretta, con dei movimenti di freddolosa e, appena entrata in legno,

- Vorrei essere di già arrivata! - esclamò con accento di grande stanchezza.

La carrozza partí di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di chiocchii di frusta e di «ohé! ohé!» del cocchiere.

Avevo dormito poco, interrottamente e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano ben distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d'animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire.

Mentre il piede destro picchiava con dei colpettini irrequieti il fondo zingato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i cristalli, la tinta uniforme della notte, e l'imaginazione vi gettava ad intervalli dei grandi sprazzi di luce. Era un angolo di paesaggio ridente di sole; era una stanzetta ben nota; era una testina di donna che non giungevo a ravvisare; era un tramonto, veduto non ricordavo piú quando; una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; erano cento simili visioni che dipingevansi di tratto in tratto su quel fondo oscuro come per l'istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica posta sul cielo della carrozza; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a osservare senza preoccuparmi d'intendere quali attinenze potessero esistere fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore... Ma forse avevo nel cuore una segreta paura d'intenderle!

Quando l'alba dipinse dei suoi miti colori lo spazio di cielo inquadrato nello sportello della carrozza, accorciai le gambe, mi rizzai sul busto, e vedendo che la signora se ne stava sempre zitta, con un lieve sorriso sulle labbra. - Eccoci a un terzo del cammino! - esclamai dopo aver dato un'occhiata al posto che traversavamo in quel momento.

- Credevo che lei dormisse - disse la signora - e avevo paura di svegliarlo.

- Non ho dormito - risposi - ma intanto ho sognato.

- Desto? - ella fece con un grazioso movimento di sorpresa.

- È il miglior modo di sognare.

- Ah! Non sapevo - replicò la signora. - Mi pareva che si sognasse soltanto dormendo.

- Basta prenderci il verso - risposi. - Io vede? sogno a piacere. Due minuti di raccoglimento, una speciale giacitura del corpo, un particolar modo di fissare la pupilla, ed è bella e fatta: il sogno prende l'aire. Ed ha questo di meglio sul sogno ordinario: posso anche indirizzarlo verso un soggetto determinato, senza timore che perda la sua incoerente natura -.

La signora fece un movimento degli occhi e della bocca come per dire: - Sarà! Ma stento a prestarle fede! -

Durante il silenzio che seguí questo dialogo, io riflettei che trovarsi accanto a una donna simpatica, nel piccolo spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, entro quell'atmosfera riscaldata dal solo calore dei fiati, è una sensazione gradevole, quasi voluttuosa che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la donna che viaggia con noi non ci appartiene, e non si possono avere verso di essa altri sentimenti fuorché la stima e il rispetto.

Ma dopo cotesta breve riflessione, appena mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L'idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Anzi non era tanto il non averla ancora trovata quel che mi desse noia, quanto il veder agitarsi dentro di me, e per effetto di essa, un sentimento indefinito di sentimenti dolcissimi provati una volta, che ora venivan lenti a galla dal piú profondo del cuore.

- Ma che stavo a confondermi? Che m'importava a me di quella benedetta rassomiglianza?

 

Era ciò che mi domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Cozzu di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse dalla sua stanza per far colazione rimpetto al mare, in piena luce di sole.

Però quando apparve sull'uscio non seppi frenare un piccolo grido di sorpresa: era trasfigurata!

Indossava un abito d'indiana colore fior di pomo, brizzolato di minuti tondini rossi, guarnito di un galloncino nero a disegni che davan risalto alla foggia. Il busto le abbracciava strettamente la vita e la faceva parere piú snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti sulla testa da un nastro di velluto celeste, luciccavano di ondeggianti riflessi azzurrognoli attorno alla fronte elevata, e ricadevano sulle spalle increspati e abbondanti.

Mi porse la mano domandandomi scusa dell'essersi fatta aspettare; poi dette una rapida occhiata al mare immenso, tremolante dei mille bagliori del sole, un'altra occhiata alla campagna che scendeva, a sinistra, tutta verde di messi quasi fino alla spiaggia; e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con una viva espressione di piacere:

- Che magnificenza! - esclamò.

E rivolgendosi a me, che stavo immobile a fissarla:

- Non è vero? - soggiunse.

In quel momento io mi sentivo interdetto: respiravo appena. La rassomiglianza, cosí ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all'improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa.

- Che stupido! Come non me n'ero accorto subito? Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito, appena veduta quella donna? Sospettando di avere addosso qualcosa di strano che mi facesse impressione, la signora Emilia osservò, voltandole e rivoltandole, attentamente le sue mani, distese ad una ad una le pieghe del davanti della sua veste, e non scoprendo nulla che giustificasse quel mio fissarla cosí insistente, - O perché mai...? - domandò quasi mortificata, senza finire la frase.

- Scusi, scusí! - mi affrettai a dire. - È proprio un caso incredibile!

- Che cosa? - ella fece, confusa d'intendere assai meno di prima.

- Oh! Nulla - risposi. - Ella somiglia tanto, ma tanto! a una persona di mia conoscenza...

- Non è che questo? - m'interruppe ridendo. - È una fortuna per me.

- Ma cosí identicamente - continuai senza punto badare al complimento, - cosí identicamente che non può nemmeno idearlo!

- Una persona... molto cara... m'imagino! - disse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia.

- Molto! - risposi vivamente.

- Tanto meglio - ella riprese. - Cosí patirà meno la noia di questo esilio della Marza.

- Non mi sarei annoiato lo stesso.

- Grazie! - disse la signora tornando a ridere. - Ma ora son certa che vi rimarrà con piacere.

- Coll'egual piacere di prima.

- Però cotesta sua amica - ella osservò - non sarebbe forse molto contenta se sapesse che ha già stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei tratti.

- Ah! V'era qualcosa che me lo impediva - risposi: - il suo vestito, la sua acconciatura del capo, la...

- E poi forse - m'interruppe con un sorrisetto di celia - questa identità che mi assicura non sarà proprio un'identità.

- , è vero - risposi. - Per esempio, le voci hanno due intonazioni diverse.

- E niente altro?...

- Parmi, , qualcosa... ecco, nell'aria della persona - dissi ingenuamente, ma esitando; - l'altra è piú dimessa, piú seria.

- Cosí? - E prese un atteggiamento di serietà senz'affettazionecaricatura.

- Precisamente, Dio mio!

- Starò seria tutto il giorno, se può farle piacere!

- Oh! ma non creda... - dissi con simulata indifferenza.

Poi, per far divergere il discorso:

- Se qui ci fosse una tenda! - esclamai; - vi si potrebbe qualche volta anche desinare col sole. La sera però, volendo, potremo cenare al chiaro di luna come si fa nei romanzi.

- Ha dormito bene? - quindi le chiesi dopo alcun istanti di silenzio.

- Poco - rispose. - Che vuole? - E fece una mossa del capo e degli occhi, quasi volesse dire: - Sono forse tranquilla?

 

Rimasi per tutta la giornata col capo intronato. Non sapevo capacitarmi che i lineamenti della mia Iela potessero quasi ripetersi in un'altra persona.

Iela! Il mio ideale, il dolce sogno della mia giovinezza! La sola donna che io abbia sempre amata anche amandone delle altre?

Tu sai bene, amico mio, che non posso ancora, dopo tant'anni, pronunciar questo nome senza tremare di commozione! Tu sai che la imagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma che ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con un raccoglimento piú che religioso, con una vera estasi di parecchie ore, durante le quali l'idillio della mia giovinezza ricanta allegramente le sue gentili canzoni.

- Fanciullaggini! Ridicolezze! - tu mi hai spesso ripetuto sentendomene a parlare.

Ed io ti ho sempre risposto

- Può darsi, ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni piú profonde? Da chi conforti piú ineffabili? -

Purificata, idealizzata da un lungo e segreto lavorio, pel quale il carattere, le circostanze della vita e l'indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura della Iela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito il valore di un simbolo. Pavento anch'oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o mi rimarrà indifferente. Ed ecco perché il vederla cosí riprodotta, vivente, nella persona della signora Emilia mi sconturbava tanto e mi rendeva come ingrullito.

Avrei provato verso questa donna gli stessi sentimenti che per la Iela? Gli avrebbe essa modificati? Alterati? Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per tale incontro una mutilazione, che mi metteva i brividi al solo pensarvi?

Tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo.

Eravamo andati a visitare l'antico casamento della Marza, un tratto assai breve di passeggiata. L'atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento accanto, una volta dei frati carmelitani, deviavano di quando in quando la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo farla da cicerone, dovevo dare degli schiarimenti, dovevo appagare le mille curiosità femminili destate da un sasso, da una grondaia, da un gruppo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull'architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva.

- Quella bianca cupola in fondo, cosí staccata sul grigio della pianura?

- È della chiesa di Pachino.

- E quel colle con quel vasto e severo edificio sulla cima?

- Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari.

- E quel tondo nero in mezzo al mare, non molto lontano dalla spiaggia?

- L'isoletta dei Porri -.

La giornata era splendidissima. Un vero sole di primavera; un'aria profumata dagli odori particolari delle messi e delle erbe selvatiche in fiore.

Ma quel sole, quelle messi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un'altra giornata di maggio e una piú bella compagna. La Iela appoggiavasi, sorridente, al collo rustico di un pozzo sulla spianata accanto all'aia. I piccioni domestici beccavano ai suoi piedi i grani di orzo e di frumento ch'ella faceva cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch'esso qualcosa.

- A che pensa? - mi chiese la signora, vedendomi rimanere cosí assorto e poi uscire da tale stato con un profondo sospiro.

- Penso - risposi - che è bene ci siano al mondo delle felicità che non si possono mai possedere!

- Perché? Una felicità che non si possiede è piuttosto un dolore.

- Perché - ripresi - per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul «certe» e sul «sempre»), l'unico mezzo, cara signora, è il non possederle giammai.

- Una donna - ella osservò - non parlerebbe a questo modo.

- Perché? - chiesi alla mia volta.

- Perché nella vita noi siamo molto piú pratiche.

- Questo mi sorprende dopo quanto mi ha detto sui mille romanzi che ha letti.

- È vero, ho letto molto - ella fece con scherzevole serietà; - ma piú creda, ho vissuto! -

Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita che mi aveva confidato la sera innanzi. Sentivo susurrarmi all'orecchio: «Ho sofferto, ho lottato!» E poi in tono piú severo, come l'ultimo resultato della sua triste esperienza: «Non c'è che il possesso che renda felici; tutto il resto è illusione

Ma io protestavo internamente: - Oh! Non è illusione! -

 

Si accorse presto del mio debole, e mi sorrideva in viso maliziosa, quantunque non osasse apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul «mio ideale», com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse del gusto a delicatamente tormentarmi.

- Era molto piú piccola di me? - mi domandò una volta ex abrupto,- mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza.

- Piú gracile assai - risposi a malincuore, non sapendo dove quella interrogazione avrebbe voluto condurmi.

- E, maritata, è rimasta sempre la stessa?

- Sempre. Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' piú pallida e assai piú triste.

- Non è dunque felice?

- Ahimè, poverina! - esclamai.

- La colpa è un po' anche sua! - fece ella sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con un gesto accusatore.

- Dica del caso, delle circostanze: eravamo tanto ragazzi tutti e due!

- Ma un po' l'avrà, credo, consolata... dopo - insinuò con un accento di fina malizia che mi fece trasalire.

- Oh! No! - dissi risoluto, levando alta la fronte. - Quella donna è per me proprio morta. Io non amo che la ragazza, un ricordo, un fantasma! Infatti ciò che rende questo sentimento piú fiero e piú orgoglioso della sua purezza, è l'idea ch'essa lo ignori.

- Che assurdo! - esclamò con vivacità. - Una donna amata può, se vuole, anche fingere di assolutamente ignorare; ma ignorare per davvero...!

- Le assicuro che ignora - insistevo.

E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto esser io solo a sospettarlo.

La signora Emilia divertivasi a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumoletti, lungo la spiaggia; e, attaccata al mio braccio, mi spingeva ridendo a correre per quella stesa mobile, gialliccia che s'inoltra a perdita d'occhio, di lungo e di traverso, come un deserto in miniatura.

Era uno spettacolo affatto nuovo per lei; e le riesciva piú gradito perché le dava l'impressione di una grandissima lontananza da casa sua. Evidentemente ella provava un forte bisogno di dimenticare qualcosa, e le si leggeva negli occhi, benché volesse darlo a comprendere poco.

Vi ritornammo parecchie volte nei giorni appresso, ora ad ammirarvi l'alzata del sole, ora a provarvi il calore meridiano per formarci una idea approssimativa del vero deserto, ora a godervi gli effetti del chiaro di luna.

I raggi lunari, investendo della loro luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davan risalto colle ombre a tutte le disuguaglianze del terreno, e il luogo assumeva cosí un aspetto strano e pauroso che nessuno, di giorno, si sarebbe imaginato. Le onde svogliate del mare, battendo monotonamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su quella solitudine sconfortata. Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura vivente, sperduti, senza speranza di soccorso, entro un oceano di sabbia. La configurazione del terreno contribuiva, celandone i limiti, a far credere immensa quell'estensione di poche miglia.

La signora Emilia lanciava ad ora ad ora per l'aria cheta un allegro scoppio di risa che suonava piú argentino del solito e vi si perdeva senz'eco. Io, quando stavamo zitti, canterellavo una romanza. E intanto andavamo su e giú, facendo il giro dei pantani, gettando delle manate di sabbia fra i giunghi attorno per far levare le anitre, le folaghe ed i gheppi rimpiattati.

Ma io, dico il vero, non mi svagavo di molto.

Nei giorni precedenti mi ero piú volte sorpreso intentissimo a guardare la signora Emilia con un sentimento di dolce compiacenza che non scaturiva soltanto della sua somiglianza colla Iela. Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con naturale stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava a viziarmela.

Pur troppo era vero!

La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con l'uguale freschezza di una volta. No, non vivevo insieme ad essa alla Marza, ma colla mia Iela evocata , per miracolo, da una misteriosa potenza che ne aveva, un pochino, alterato i lineamenti e le gracili forme. Capivo però benissimo come oltre a quei sentimenti se ne fossero sviluppati dei nuovi che legavansi strettamente a quegli altri e quasi servivano a completarli: temevo appunto di questi.

Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in un modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che piú vivamente riflettevano o rammentavano, anche dalla lontana, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce della Iela, mi facevan provare delle scosse, dei tremiti, dei languori che talvolta arrivavano perfino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara imagine che formava da tanti anni il culto piú sacro della mia vita. Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine, delle quali ci parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte come una delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi aveva avviluppato in modo da non poterne piú vincere la malefica azione.

- E poi? - mi chiesi una sera indignato, piantandomi rimpetto alla mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.

E siccome l'ombra non rispondeva,

- Tu sei un vile! - schiaffai sul viso di quell'altro me stesso che mi vedevo coll'imaginazione confuso ed abbiosciato innanzi.

E andavo su e giú tirando buffi di fumo fantastici da un sigaro spento.

- Miserabile! - continuavo - tu carezzi dei desideri che non osi schiettamente confessare nemmeno a te stesso! Già stai per trascinare nel fango il piú puro sentimento che abbia nobilitato la tua vita! Già non sei piú ben sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione! E tornavo a spasseggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.

Queste parole mi facevano montare le fiamme al viso, proprio come se fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato pegli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:

- Andiamo! Via! Tu esageri: non son capace di tanto! Tradir la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere! Volessi pure, quella donna ... Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che m'ero forse potuto illudere, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso. Quella donna non sarebbe stata forte! Lo indovinavo. Da che? Da mille piccoli e quasi impercettibili indizi che sarebbero sfuggiti ad ogni altr'occhio meno interessato del mio.

- E poi? E poi? - ripetevo con insistenza.

E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'imagine della mia Iela avesse un momentino potuto offuscarsi; indegnato che la rassomiglianza mi fosse, mio malgrado, servita da mezzana per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.

- Che debolezza! Che vigliaccheria! -

Oh! No, volevo esser omo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo: dovevo al culto della mia Iela una riparazione di questa fatta!

E andiedi a letto consolato.

 

Avevo noleggiato una barca che venne a prenderci allo spuntare del sole.

Un marinaio dai larghi e corti calzoni rivoltati in su fino all'anguinaglia ci portò in collo di peso, una appresso all'altro, nella barca; poi diede una spinta alla poppa, e la barca, che era mezzo arenata, si cullò tosto mollemente sulle onde dopo aver traballato un pochino pel peso del marinaio saltatovi dentro.

Il mare era una tavola. Dei larghi riflessi verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da strettissimi orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior di onda come tanti solchi di rotaie sur un immenso piazzale.

La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua doveva produrle dei fascini violenti che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, ad un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un piccolo grido (non sapevo ben discernere se di paura o di piacere) e mi diceva ridendo:

- Se si cadesse in mare? - E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto delle onde.

Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in un'insolita serietà e in un raccoglimento che mi faceva star zitto. - Si annoia? - ella mi chiese dopo un buon tratto di silenzio.

- No davvero - risposi.

- Eppure si sospetterebbe che il suo pensiero non sia qui: non dice nemmeno una parola!

- I grandi spettacoli della natura mi rendono muto.

- Oh, non le faccio torto dell'annoiarsi! - ella continuò. - Però mi dispiace che debba annoiarsi per cagion mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi!

- Ma niente affatto. Non merito ch'ella si formi di me una cattiva opinione -.

Approdammo all'isoletta dei Porri, un largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro rimpetto alla spiaggia. La campagna ci si spiegava sotto gli occhi colle sue linee larghe, colle sue mille tinte di verde che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, entro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggiava da ogni lato dell'isoletta con urli sordi, con scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi piú bassi.

- Ecco un posto - ella disse - ove abiterei volontieri, ed ove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgemene.

- Che fantasia! - esclamai ridendo. - E vorrebbe vivervi sola?

- Oh! No - rispose; - dicono che soli non si starebbe bene neppure in paradiso: ma in due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, una ragione bastevole per non farle rimpiangere il mondo!... Sciocchezze, è vero! - soggiunse sospirando. - Bisogna invece contentarsi della dura realtà! Ecco: pel mio cuore di donna, questo misero scoglio potrebbe valere l'intiero universo. Ma pel cuore di un uomo? Com'è triste il pensare che noi, nel cuore dell'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio!

- Oh! Scusi - dissi. - Non è sempre cosí. Vi son delle donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la miglior parte dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne della vita son rotte per sempre.

- Iela! - esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo ove sorpresi un lampo di dolore e d'invidia.

Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi.

Vedendo che io tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano: e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso,

- Come dev'esser felice quella donna! - mi disse. - Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. - Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi... E son già dodici anni!

- Ma quanti dolori! - soggiunse - quante tristezze! - Una felicità troppo cara e che certamente, ahimè! non esisterebbe se invece di essere stati proprio a tempo divisi, ella avesse potuto vivere unito alla sua Iela, o l'avesse posseduta un istante tutta intiera fra le sue braccia!... Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sua sorte? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi, col corpo, concedere all'uomo che non ama, e di darsi nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato!

- Oh no! no! - interruppi indignato. - È un amore di altro genere. Ella non lo intende... non può intenderlo!

E mi rizzai in piedi.

Avevo bisogno di esser scortese...

«La tremenda voluttà di doversi concedere

Queste parole mi eran sonate all'orecchio come una profanazione. Oh! La signora Emilia mesceva la sua bassa sensualità ad un sentimento che non avrebbe appannato il cuore piú puro.

, avevo bisogno di esser scortese! E non solamente per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce che mi s'infiltravano per tutto il corpo come un'onda di latte. Sentivo dolcemente vellicarmi i nervi con un'irritazione delicata, raffinata e temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte innanzi.

Ma fu un momentino.

Mi sedetti subito ammansito: volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata.

- Perdoni - le dissi; - oggi son nervosissimo. Quel ricordo della Iela mi disturba. Osservi: ho le mani fredde, un diaccio! -

E toccavo le sue.

Ella mi guardava ammirando, colle sopracciglia un po' aggrottate, colle labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me come per fissarmi meglio. Era la Iela, preciso la Iela!

Distorsi gli occhi. Se stavo a guardarla ancora, forse non sarei piú stato padrone di me e avrei commesso qualche sciocchezza.

 

Me la prendevo con Paolo che non veniva.

Intanto i giorni passavano apparentemente uniformi, ma il mio cuore era sconvolto. Oramai non lottavo piú, non resistevo; ma ragionavo, ma tentavo scusare agli occhi della coscienza la mia vigliacca debolezza.

Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto della Iela; no, tal ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con la Iela era cosí grande; la passione (perché non dirlo?) che quella mi destava era un cosí vivo riflesso del ricordo di questa, che non avevo il coraggio di giustificare innanzi ai miei occhi neanche la possibilità di un tal caso.

Mi limitavo a concedere che non era poi un gran delitto amar quasi di bel nuovo la Iela in quel suo ritratto vivente; riamarla colla stessa semplicità di cuore, colla stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito verso di lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di una quasi realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore!

La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere colla sua acutezza femminile quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, vi si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dal suo amor proprio di donna cosí fortemente lusingato.

- E Paolo? E la fuga? E la sua passione? -

Ahimè! Nulla di piú vero di quel tristo proverbio: gli assenti hanno torto.

Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al par di me, e lottava e cedeva e transigeva... Chi lo sa? Forse anche provava contro quell'incognita amata delle gelosie di rivale. Non sapeva perdonarle di venire fin ad invasarmi in tal guisa il cuore da contrastarle perfino quel piccolo tributo di simpatia che la donna la piú onesta è lieta di ricevere come un buffo d'incenso alla bellezza o alla bontà! E voleva vendicarsene, voleva avvilire la povera rivale colla stessissima arme della rassomiglianza con cui essa era venuta ad assalirla nel suo piccolo regno!

Spesso le intravvedevo negli occhi qualcosa di piú, come una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lasciava perenne il suo ricordo nel cuore; ma che vi potevano esser dei baci, degli abbracciamenti, da scuotere da cima a fondo tutta l'essenza della vita e assai piú terribilmente, assai piú durevolmente di quelle vaghe fantasie da collegiale che io nella mia inesperienza giudicavo la suprema delle felicità che un uomo potesse raggiungere al mondo. E allora i suoi sguardi lanciavan delle fiamme che venivano a lambirmi il cuore colle loro lingue di fuoco; e la sua bocca sembrava transudasse delle picciolissime stille di un liquore inebbriante che attirava con forza irresistibile le mie labbra per succhiarlo e assaporarlo fino all'ultima gocciolina, fino a ridurre le labbra di lei piú aride di un sasso...

Mi occorreva certamente un gran sforzo per restar ragionevole e savio.

 

Un giorno ella mostrommi il desiderio di voler raccontata tutta intiera, per filo e per segno, la storia della Iela. Non seppi rifiutarmi.

Da prima ero deciso di accennarle soltanto i sommi capi di quel delirio, di quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; piú non seppi che scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro i bei fantasmi della mia giovinezza, quei fantasmi che hanno avuto una cosí grande influenza su tutto il resto della mia vita.

Ella ascoltava intentamente, avidamente, con una agitazione ed una commozione che aumentavano come piú il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo; e: - Basta per oggi - mi disse con affettata indifferenza. - Veggo che si riscalda troppo: non vorrei le nuocesse -.

Si alzò dalla sedia che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente pel piano innanzi, tutto coperto di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli ad ogni piccolo soffio, poi fermossi innanzi ad una statuetta greca che giaceva ancora distesa presso il posto dove l'avevano scavata.

- Ha letto - mi chiese con un tono di voce tranquillo - la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa Dea? -

Seguivo coll'occhio turbato tutti i suoi movimenti. Avevo subito compreso quel brusco interrompermi, quella forzata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di dissimulare di aver capito. Se non davo retta ad un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi precipitavo senz'altro pegli scalini, e correvo a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola...

Quella domanda mi calmò.

- L'iscrizione è monca - risposi. - Pare dovrebbe dire: «Ad Heraz la sacerdotessa (il nome è illeggibile) nella festa di marzo».

- Povera Dea! - esclamò quasi non sapesse che dire. A me intanto parve avesse voluto sottintendere:

- Povera Iela! -

E mi sentii stringere il cuore.

 

La notte presi un'energica risoluzione: decisi di fuggire. Se, per poco, cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami cosí improvvisamente nel petto, non sarebbe stato soltanto il culto ideale della Iela quello che avrebbe naufragato; ma insieme ad esso, la mia dignità di uomo e, soprattutto, la lealtà del mio carattere di amico. Decisi di fuggire, ma all'insaputa dell'Emilia (già nel mio interno avevo soppresso il «signora»); ero certo che, di viso a viso, non avrei piú messo in atto quell'urgentissima risoluzione.

Scrissi, la sera, due paroline di lettera e la situai sul tavolo di mezzo, onde desse subito agli occhi. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza, come tutte le altre, aveva una finestra molto bassa che rispondeva sulla terrazza. Apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla.

Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex feudo, dormiva vestito sulla ticchiena, una specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a insellare una giumenta e presi la carreggiata.

Contavo di recarmi in Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio amico e pregarlo di andar lui, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora; Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era un uomo serio, e in quanto a discrezione potevo dormire fra due guanciali. Doveva, da giovane, essere anche stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse per qualche cosa. La Emilia non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto che pareva aver concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo.

La giumenta andava lentamente: chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovar in fondo al cuore una dose di fortezza bastevole a guarentirmi; ma non la trovavo.

Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza colla Iela, sarei poi rimasto cosí virtuoso? Non dicevo, né no, ma sorridevo sarcasticamente: mi canzonavo da me.

La giumenta, lasciata in pieno suo arbitrio, rallentava il passo: fermava a strappare delle grandi boccate di erbe, e si voltava di qua e di colla testa, quasi per interrogarmi su quel che avrebbe dovuto fare. Ad intervalli io mi riscotevo, le davo una stretta immeritata di sproni, tiravo in su la briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva il trotto.

Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano come un mare ai soffi del venticello mattutino, facendo un rumore secco, stridente colle teghe delle loro spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione dell'aria della campagna, che par fortifichi le fibre ed allarghi i polmoni.

Questa sensazione mi produsse l'effetto di un vero calmante. Senza darmene per inteso, feci rivoltar addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza. Ero vergognoso: non volevo nemmen rammentarmi di aver tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Cozzu di Pietra: erano sempre chiuse. La mia lettera non poteva fortunatamente essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta, che scuoteva la testa costernata di quell'insolito trattamento.

Volevo arrivare senz'esser veduto. Ma ! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra dell'Emilia si aprí, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi potesse venire a cavallo.

- Oh, lei, signor Carlo! - esclamò con sorpresa.

- Buon giorno! - risposi, cercando di dissimulare il turbamento che quell'incontro mi produceva.

- Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera, perbacco!

- Una gran bella cosa! - feci io, accostandomi colla giumenta proprio sotto la finestra, involontariamente curioso di vederla daccosto.

Ella era nel piú bel disordine del mattino, appena levata da letto. I capelli le scendevano tutti scinti arruffatamente pel collo; un leggero scialle a colore le copriva le spalle, aprendosi innanzi il petto e lasciando vedere gli smerli della camicia ampiamente scollata che contornavano la sua fresca carnagione poco piú in giú della gola; la pelle del suo volto aveva ancora quel che di madido che vien dal calore delle coltri; gli occhi erano contornati da certe pesche sfumatamente azzurre, le quali davan risalto al magnifico splendore delle pupille. Accostava quel piccolo scialle alla vita con un atteggiamento che voleva esser pudico ed era procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di una donna uscita allora allora dalla stretta di focosi abbracciamenti, coll'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti.

A tale vista sentii subito fremere nelle mie vene tutte le indomite potenze del sangue: ebbi degli abbagliamenti, delle vertigini. La casta e malinconica figura della Iela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò piú forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate.

- Una gran bella cosa! - ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorandomi intanto cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la licenza della mia imaginazione levava dattorno ogni velo.

- A rivederci! - ella disse, arrossendo di scorgersi cosí avidamente guardata.

E con un movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte dopo avermi fatto un sorriso ed un inchino col capo. Era sparita! Ma io però, rimasto immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i cristalli, come se le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fosser rimaste impresse nell'aria e ve ne mantenessero l'apparenza.

 

Ero già pentito di essere ritornato. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una piccola spinta, e cadevo lanciato nel vuoto. Dei brividi mi correvano per la persona. Oh quel Paolo maledetto!

E la Iela, il mio gentile ideale?

M'ingegnavo di persuadermi ch'esso avesse pur troppo bisogno di questa specie di nuova incarnazione per ridursi completo; la sua forma affatto spirituale prendeva nell'Emilia le agili letizie del corpo; oh! Sarebbe rimasta sempre lei, la mia Iela, ma avrebbe assunto qualcosa che me l'avrebbe resa piú omogenea.

Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa a viso aperto e dire per iscusa: è piú forte di me!

La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole penetravano il corpo di una lassezza piacevolissima, come di voglia di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di ; le mosche verdi volavano impertinenti attorno il viso, con quel loro ronzio prolungato, un vero adagio musicale di ninnananna che cullava i sensi e li legava col suo torpore. Ad ogni muover di passo fra le erbe, i fiori, il timo, la nepitella e il cardospino, migliaia di piccoli insetti si levavano a volo e tornavano, quasi subito, a rannicchiarsi di bel nuovo all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole.

Appoggiata al mio braccio, ella ora percoteva colla punta del suo piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca appoggiata alla spalla per disturbare le carezze delle farfalle sul letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava delle parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa.

La spiaggia formava presso un piccolo seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Un letto di sassi lisci, arrotondati, di diversi colori, poco piú largo di uno stanzino, veniva circondato dalla curva della costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, la quale non accusava certamente la mano dell'uomo.

- Vedrà che magnifica pesca! - ella disse, adagiandosi sur un sasso da me preparatole per sedile.

- Oh! - risposi ridendo; - i pesci saranno lietissimi di esser pescati da una mano cosí gentile -.

E, inescato il suo amo, lanciai il filo nell'onda.

L'onda ci lambiva i piedi; quella piccola diga di sassi ne smorzava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, vedevansi correre i piccoli granchi marini sul fondo arenoso. Le patele solitarie stavansene aggrappate ai sassi col loro grigio gusciolino che si lasciava scorgere appena. L'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda dell'onda, o le arricciava e le formava ad arco per assorbire dai muschi le sue impercettibili prede.

Dopo aver dato un po' la caccia ai granchi marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedetti accanto a lei, sui ciottoli, il piú comodamente che potei.

L'atmosfera era pesante ed immobile. Un silenzio grave regnava intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi aveva dei mormorii voluttuosi di sirena, dei mormorii seduttori.

Nissuno di noi due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i piú riposti movimenti del cuore dell'altro.

Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la sua mano destra poco discosta dalla mia testa (sedevo piú basso di lei). Stetti alcuni minuti a guardarla, come un goloso, coll'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fina e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla colla guancia e colle labbra divenne una tentazione insistente. Mi spingevo in senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e andai proprio a posare la guancia sulla mano di lei... che non si mosse! Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con un lieve strofinio, che mi faceva gustare tutta la delicatezza di quella pelle sotto cui non si sentivano gli ossi. Avevo già perduto ogni coscienza di me stesso. I ciechi istinti animali mi facevano nelle fibre una fanfara di trionfo.

Spinsi gli occhi verso di lei. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, colle labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona dalla eccessiva emozione, cogli occhi lampeggianti di sensualità sconfinata.

- Carlo!... Carlo!... - disse dolcemente, languidamente.

Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci.

Fu un minuto!

- Fortuna che nessuno ci abbia visti! - esclamò l'Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo.

E rise di quel suo riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della commozione profonda che doveva agitarle tutto il corpo; ma una contentezza, un appagamento, uno scoppio di soddisfazione volgare...

Avrei preferito che quella pigra ondata del mare spirante sui sassi si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato. Avrei preferito che mentre io ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse improvvisamente comparso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse lanciato addosso con tutto il furore dell'amico e dell'amante tradito. Ma nulla di questo! L'onda continuava il suo monotono mormorio. Il silenzio meridiano incombeva attorno non turbato nemmeno dal ronzio di un insetto.

Ella non capí niente di quel che avveniva dentro di me.

- Fa troppo caldo! - disse.

- Fa troppo caldo! - ripetei collo stesso tono di voce. E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza gradinata e riuscire sui campi. Giungemmo a casa senza scambiare una parola. Avevo il cuor grosso.

 

Che nottataccia!

Al cader della sera mi si erano ridestate piú violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, pestavo coi piedi, mi strappavo i capelli.

- Perché non spingevo quell'uscio? Perché non entravo ad un tratto nella stanza di lei? Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la camera che dividevano la mia dalle sue stanze. Origliai un gran pezzo all'uscio per persuadermi se fosse sveglia. La sua respirazione calma ed uguale, era il solo rumore che si sentisse. Grattai leggermente all'uscio; nessun movimento. La sua respirazione continuava calma ed uguale. Dal buco della serratura vedevo il lumino da notte agonizzare sur un tavolo in fondo. Ai piedi del letto scorgevansi le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una sedia e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre appena diradate, in quella respirazione ascoltata a traverso l'uscio!

Ritornai vergognoso, disilluso nella mia stanza, e molto tardi cedetti al sonno.

Chi svegliommi la mattina dopo?

La voce di Paolo. Era arrivato improvvisamente per farci una piacevole sorpresa!

- Poltrone! - mi urlava dietro all'uscio. - Come si fa, in campagna, a dormire fino alle dieci?

 

- Sei giunto a proposito - gli dissi dopo la colazione. - Ero sul punto di andar via senza piú aspettarti un minuto.

- Come? Non rimarrai almeno un par di giorni, ora che ci son io? - insistette Paolo.

- No - risposi - è impossibile -.

Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non cosí insistente e calorosa come quelle di lui.

Avevo a stento la forza di guardar Paolo in viso; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore come uno stile. Fui fermo.

Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo,

- Senti - mi disse Paolo - io sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex feudo -.

Infatti rimase sulla terrazza.

Poi volgendosi alla signora Emilia che ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con certi occhi sdegnosi e turbati,

- Ma pregalo te! - le disse. - Forse l'insistenza di una signora lo piegherà -.

La signora Emilia mi si accostò, guardandomi fisso negli occhi, e con accento represso, vibrato,

- Perché mi fuggi? - mormorò impallidendo.

E si morse le labbra.

- Ma se rimango - risposi anch'io a bassa voce - noi commetteremo un'infamia!

- Grullo! - esclamò con inesprimibile gesto di disprezzo, voltandomi bruscamente le spalle.

Quella trista parola mi rese tutta la mia coscienza d'uomo e la mia fierezza di carattere.

Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi appena una volta indietro per rispondere ad un ultimo addio di Paolo.

 

La serata era calma, splendidissima di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva veder il cielo vestirsi gradatamente di un sorriso piú bello; e su quella profonda limpidezza, oh gioia!, tornava ad apparire la soave figura della mia Iela, casta e pietosa come prima e sorridente di perdono.

 

Mineo, 25 marzo 1876.

 

 

 



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