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Parlavano del «Re vergine» e delle sue manie musicali. Merlini, wagnerista fanatico, gl'invidiava le rappresentazioni dei capolavori del maestro nel teatro di Monaco, delle quali re Luigi era stato spettatore unico, nella sala buia col palcoscenico inondato di luce - meravigliosa visione, spiritualizzata dall'onda orchestrale scaturente dal «golfo mistico», come il maestro lo chiamava - e non finiva di entusiasmarsi.
- Ho provato qualcosa di meglio, - disse Ludovico. - Stammi a sentire. Anni fa, viaggiavo solo, con l'animo terribilmente turbato. Una persona a me cara trovavasi in pericolo di morte; accorrevo in fretta al suo capezzale e temevo di non giungere in tempo. Figurati il mio stato! Il legno correva, sobbalzando per la strada ineguale e polverosa, ma non cosí celeremente come il mio cuore avrebbe voluto. Dove la strada saliva ripida e i cavalli rallentavano il passo, sentivo una pena, un tormento indicibile, quasi lo facessero a posta.
Il vetturino, vedendomi affacciare smaniosamente allo sportello, si scusava: «Siamo in salita; non posso ammazzare i poveri animali». Aveva ragione; quei poveri animali, già trafelati ed ansanti, dovevano correre, correre ancora, per molte ore. Poi, si tornava a volare. La strada era deserta; la serata bellissima. Gli ultimi crepuscoli sorridevano, tra dorati e rosei, sulle montagne lontane, e davano un'intonazione dolcemente serena alle campagne circostanti, mare di messi ondeggiante al venticello vespertino. Quel vasto silenzio campestre e quella pace immensa mi facevano rabbia. La vita si espandeva lí attorno con sí forte rigoglio, e con un tal senso di piena felicità, quasi in dolce assaporamento di se stessa, che io sentivo piú profonda nell'animo la desolazione della solitaria agonia di quella cara persona. E avrei voluto essere accanto a lei per consolarla negli estremi momenti ed esserne poi confortato! L'assistere alla morte di persone amate, diventa conforto ricordando.
Non volli piú guardare uno spettacolo che irrideva il mio grave dolore; chiusi gli occhi, e mi rannicchiai in fondo al legno, fantasticando, rimuginando, tornando a combinare miracoli di guarigione, che io medesimo riconoscevo affatto impossibili. Quando riapersi gli occhi, era già notte. La luna, rossiccia e apparentemente ingrandita, si levava dietro le montagne con maestosa lentezza fra le poche nuvole che filettavano l'orizzonte, su la cupa taciturnità della pianura fuggente a perdita d'occhio; l'aria era frizzante. Il vetturino cantava uno di quegli stornelli malinconici, monotoni, che paiono piangere di qualche cosa. Strana coincidenza! Esso mi richiamava in mente un'altra sera, un altro viaggio... Oh! Un sogno di sorrisi, di carezze, di baci, mentre il vetturino cantava, come ora, un monotono stornello, consimile, che pareva piangesse di qualche cosa. Non potendo dir: «Zitto!» a questo qui, tirai su i vetri del legno. Il canto m'arrivava all'orecchio egualmente, quantunque assai smorzato. Allora, per vincere la straziante impressione che mi pareva di malaugurio, presi a canticchiare anch'io. Che cosa? Non lo ricordo; reminiscenze musicali senza dubbio, le prime capitatemi alla memoria... Ed ecco quel che mi accadde; non lo dimenticherò piú, vivessi cent'anni.
La monotona melodia dello stornello già mi sembrava lontana, lontana, quasi m'arrivasse all'orecchio a traverso il gran silenzio notturno, trasportata dal vento; e mi eccitava grado grado, mi inebbriava talmente la fantasia, mi commoveva a tal punto che, poco dopo, non canticchiavo piú reminiscenze, ma facevo un'improvvisazione. Non sorridere. Io che non conosco una nota musicale, sí, improvvisavo musica nuova, bella, meravigliosa... N'ero stupito io medesimo, e l'ascoltavo quasi venisse cantata da un altro.
Cantata? Non è esatto; dovrei dire suonata e cantata a vicenda. Le mie labbra imitavano i vari strumenti di un'orchestra nelle loro riprese, nei loro intrecci; e poi la voce cantava, per ceder di nuovo ai violini, al flauto, ai bassi il lor posto negli accordi. Provavo l'assoluta illusione di quegli strumenti, la piena delizia di quel magnifico concerto, organico intreccio di voci e di suoni. E durante il godimento dell'incredibile sensazione, riflettevo che dovrebbe accadere la stessa cosa nella mente d'un maestro quando comincia a svilupparvisi la creazione musicale. Che ciò avvenisse nel mio cervello, ora non mi meravigliava piú. Orecchiante, m'ero dato nei concerti di musica classica una specie d'educazione; orecchiante, ero arrivato a gustare le astruse bellezze dei quartetti beethoveniani, delle sinfonie dei vecchi e nuovi maestri, dove l'idealità artistica ha raggiunto la piú alta manifestazione... Quelle sensazioni, assopite da tanto tempo, si ridestavano, forse, nello stato d'eccitamento nervoso in cui allora mi trovavo? E si mescolavano, si confondevano, si coordinavano, fino a diventare una specie d'organismo nuovo, da facilmente ingannarmi? No, te lo assicuro.
Avevo dimenticato ogni cosa: la cara persona agonizzante, la lentezza della corsa, l'impazienza di giungere. Quell'inattesa creazione m'assorbiva interamente; e l'essere attore cantante, orchestra e spettatore nello stesso punto, mi produceva qualcosa di cosí straordinario, di cosí ineffabile, che non avrei voluto, a ogni costo, sentirlo cessare.
Che cantavano quelle voci diverse? Che rispondevano quegli istrumenti? L'impressione, dapprima, era stata confusa, indefinita. Le voci cantavano ma non pronunziavano parole: soprano, contralto, tenore, baritono, basso, cori, erano quasi varietà di strumenti; giacché c'erano pure i cori, mirabilmente fusi con le altre voci e con l'orchestra... Allucinazione assurda, ma evidente quanto la stessa realtà; non puoi fartene un'idea.
A poco a poco però l'allucinazione divenne piú chiara, piú determinata, precisa. E vidi il teatro, o meglio la cicloide del palcoscenico, il sipario, i lumi della ribalta, i professori dell'orchestra ognuno al suo posto, con gli strumenti in mano e i leggii davanti; vidi la sedia vuota del direttore... e andai a sedermici, quasi facessi la cosa piú naturale del mondo. Scoppiò allora la sinfonia con alto grido polifonico, tormentosa, straziante, fra i lamenti dei violini e dell'oboe, i singhiozzi dei clarini e del flauto, gli schianti dei corni e degli oficleidi, i rulli insistenti del tamburo e i sordi colpi dei timballi e della gran cassa; frase grandiosa, terrificante, che si arrestò a un tratto. L'ho tutta qui, negli orecchi, quasi l'abbia sentita poco fa e non parecchi anni addietro. Potrei trascriverla, se sapessi...
- Peccato! - lo interruppe, ironicamente incredulo, il Merlini.
- Peccato davvero! - riprese Ludovico. - Sarebbe documento d'una rarissima esaltazione nervosa, di uno stato psicologico degno d'essere studiato. Ti giuro che non mi è mai accaduto di provare una commozione cosí sincera e cosí forte, come nell'assistere a quella rappresentazione certamente assai piú bella di tutte le solitarie rappresentazioni godute da Luigi di Baviera dal suo palco reale.
Egli, infine, assisteva all'opera d'un altro, rappresentata e interpretata da altri; semplice spettatore. Per poco che tu ed io avessimo dei milioni a nostra disposizione - fossero anche tolti in prestito dalla cassa di usurai compiacenti - potremmo cavarci lo stesso gusto e provare ugual godimento. Tutto l'oro del mondo però non potrebbe metterti nella circostanza di riprodurre un'allucinazione pari alla mia. Io stesso, per quanto mi ci sia provato, non son riuscito. Te lo confesso: sono stato cosí stupido da tentarlo parecchie volte, e alla fine ho riso di me...
Ma allora, oh, allora non ridevo! Fremevo, tremavo, mi sentivo venir meno dalla dolcezza, secondo le peripezie del fantastico dramma; perché, sí, c'era il dramma, c'erano i versi, tutto!
All'alzarsi del sipario, la scena rappresentava una camera gotica. In fondo, un bambino dormiva placidamente nella culla. La bellissima giovane, vestita a bruno, pallida e sofferente, che vi stava accosto, cantava una ninna-nanna; e l'orchestra ricamava su quella dolce melodia le cose piú soavi e piú tenere che orecchio umano avesse mai udite. Quella tradita, implorava che il suo bambino, fatto grande, non provasse il sentimento dell'amore, per non tradire anche lui, alla sua volta, come suo padre aveva tradito... Che singhiozzi, che lagrime in quella preghiera dal ritmo cullante! E che fremiti, che sprazzi di luce, che bagliori musicali, quando l'orchestra preannunziò la apparizione della fata protettrice della famiglia, la quale veniva per assicurare la madre derelitta dello adempimento del suo voto! Infatti il bambino, sotto la vigile protezione di quella fata, cresceva forte, valoroso, amante di imprese guerresche, ma tetragono contro l'amore. Accadeva però che la fata, standogli sempre vicina per proteggerlo, s'innamorava di lui. Egli aveva qualche coscienza della protettrice malia, e se ne adontava e apertamente mostrava all'innamorata dea di volerle resistere, insofferente di violenze, anche se provenienti dall'alto... Sublime duetto!... La passione strappava a colei smanianti, deliranti parole d'affetto contro le altiere risposte del bello e forte cavaliere... Invano. Ella, che lo aveva protetto contro l'amore, non riusciva ora, benché fata, a ispirargli amore per lei; e nella stretta finale del duetto, mentre il giovane protestava, maledicendo, contro la fatalità di quella protezione non chiesta, ella malediceva la propria immortalità che le impediva d'essere amata come una semplice umana creatura. E con lei maledicevano i violini, i flauti, le arpe; e con lui le trombe, i corni, i claroni; maledicevano fra pianti e singhiozzi, quasi anime viventi...
Io avevo le lagrime agli occhi, sopraffatto da alta pietà per quei due cosí diversi, e che cosí diversamente soffrivano.
La seconda parte cominciava con un gran preludio sinfonico. Alzatosi di nuovo il sipario, appariva una specie di Olimpo scandinavo, e il preludio trasmutavasi in un coro di tutte le divinità maschili e femminili, qualcosa d'immensamente sereno, vera rivelazione musicale dell'immortalità, dell'eterna giovinezza, dell'eterno sorriso degli esseri primordiali, creatori di ogni cosa esistente... Ed ecco la fata, che veniva a chiedere al gran padre degli dei il giuramento fatale, contro cui neppure la volontà del gran padre degli dei poteva valere. L'orchestra ansava nella trepidante aspettativa di quel giuro, che scoppiava di lí a poco come un fulmine. La fatalità era segnata!... - Rendimi mortale! - ella chiedeva...
Repentinamente la sua aureola si oscurava; la sua mutata spiritualità sentiva la pesantezza del corpo. E mentr'ella precipitava giú dal cielo in terra, nel cielo, quasi nulla di sinistro fosse accaduto, riprendeva l'immenso coro sereno dell'immortale felicità, dell'eterna giovinezza, dell'eterno sorriso degli esseri primordiali, creatori d'ogni cosa esistente...
- Giuro!... Rendimi mortale! - soggiunse Ludovico, tentando d'imitar con la voce l'espressione musicale di queste parole. - Cosa terribilmente grande!... Senti, son ghiaccio al solo ricordarlo!...
- Non ti burli di me? - disse Merlini.
- Non ho inventato nulla; è pura verità.
- Che mistero il cervello umano! Può darsi che tu sii stato pazzo in quei momenti.
- Pazzo di dolore? Forse - conchiuse Ludovico. - Infatti, quando l'allucinazione finí, e mi accorsi della carrozza che correva, correva, sobbalzando sempre, avevo il volto irrigato di lagrime, e mormoravo il nome di colei che, agonizzante, forse disperava di rivedermi! Albeggiava -.