Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
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TOMO II

LE PAESANE

IV LA MULA

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IV

 

LA MULA

 

Don Michele levatosi, secondo il solito alle sette albe, metteva la casa a rumore. Aveva tirato pei piedi la servotta che dormiva, nello stanzino accanto alla cucina, ravvoltolata in una misera coperta di lana sul suo giaciglio senza lenzuola; e, di cima alla scala, aveva dato una voce al ragazzo coricato su la ticchiena della stalla:

- l'orzo alla mula e cava l'acqua dalla cisterna! Ier sera quell'infamaccia non si degnò di bere. Già sei tu, cane, che me l'hai viziata! -

Poi, sbattendo sul pavimento gli stivaloni da campagna, dalle suole imbullettate e da' tacchi ferrati, era tornato in camera.

Donna Carmela, intirizzita, con gli occhi ammammolati e i capelli arruffati, finiva di infilarsi le sottane.

- Insomma? Ci vuol forse un secolo per indossare due stracci?... Io, dunque, sono fatto d'una pasta diversa? Ed ecco quest'altra marmotta!... Non ti son parse sufficienti dieci ore di sonno? -

Prèsia, la servotta, si stirava tutta, sbadigliava, niente persuasa che le sue poche ore di sonno potessero passare per dieci; e domandò che cosa doveva fare.

- Non lo sai? Sangue di...! Volete farmi disperare! La semente del grano dovrò andare a buttarla al diavolo forse quest'altr'anno?

- È già all'ordine - rispose donna Carmela.

Don Michele stette zitto, aggirandosi per la camera, brontolando parole mozze, scostando una sedia, appendendo una chiave al suo chiodo, stizzito che la semente fosse all'ordine e cosí gli mancasse un pretesto di sbraitare. Ne trovò subito un altro:

- Il fiasco è preparato?

- No. M'è parso meglio riempirvelo di vin fresco questa mattina.

- Ma se non vi movete! Se dormite ritte! Come se in campagna dovessi andarci domani! -

E mentre donna Carmela e Prèsia scendevano in cantina per riempire il fiasco dal caratello di don Michele, come lo chiamavano, perché quel vino di due anni serviva per lui solo, don Michele scendeva giú in istalla. La mula non voleva bere; e il ragazzo, sapendo che le mani e gli stivaloni del padrone gli lasciavano il segno per un paio di giorni quando la mula non voleva bere, s'era messo a piangere:

- Sono io forse che le dico di non bere?... Ehíi!... Ehíi!... -

E la stimolava col fischio.

La mula annusava l'acqua svogliatamente, agitando le orecchie stracche stracche; e intingendo nel catino la punta delle labbra, scuoteva la testa, sbuffava, faceva versacci col muso all'aria, mostrando i denti.

Don Michele diè una pedata al ragazzo e gli strappò di mano la fune della cavezza.

- T'ingegni, eh? di farmi patire quarant'onze di mula! Non mi tengo per don Michele, finché non ti avrò scorticato vivo con le mie proprie mani! E accarezzava la mula, palpandole la pancia, accomodandole il ciuffo sulla fronte, passandole la mano sulla schiena.

- Che hai, bella bellina? Perché non vuoi bere? Ehíi! Ehíi, bella! -

Ma la mula si tirava indietro, sorda alle carezze e al fischio del padrone.

Appena s'accorse che qualcosa le colava dalle narici e che aveva gli occhi cisposi, don Michele cominciò a sacrare peggio d'un turco, e a invocare nello stesso tempo, le anime del Purgatorio, la Madonna e sant'Alòi protettore dei cavalli, degli asini e dei muli.

- È cimurro, di quello che leva di mezzo un animale in quattro o sei giorni. Cristo, tu ce l'hai proprio con me! Vuoi divertirti a portarmi via quarant'onze di mula. Ah, fecero bene a inchiodarti in croce! Se mi fossi trovato fra i giudei, io li avrei aiutati a calcarti meglio quei chiodi! -

Alle bestemmie, donna Carmela e Prèsia erano accorse; quella con l'imbuto, questa col lume in una mano e il fiasco nell'altra.

- Vergine santa, che disgrazia! Oh, che disgrazia! -

Donna Carmela si picchiava il capo, mentre don Michele, stralunato, con le mani ciondoloni e le gambe larghe, guardava la mula che, attaccata alla mangiatoia, nemmeno fiutava l'orzo o la paglia, e voltava la testa verso di lui, quasi domandasse aiuto, poverina, con quelle orecchie stracche stracche e quegli occhi dolenti.

- Quarant'onze di mula! Un tegolo su la testa! Quest'anno, dovrò chieder l'elemosina con una canna in mano... e...

- Perché bestemmiate?

- So assai se son turco o cristiano! Non vedete il mantice di quei fianchi? -

Donna Carmela, con le lagrime agli occhi, batteva i denti: - Per compire l'inferno di casa nostra, mancava proprio questa disgrazia! Il Signore si è scordato di me in questo mondo! Devo soffrire altri guai -.

Don Michele, sentendole battere i denti, si voltò come un arrabbiato:

- Che avete?

- Niente, forse la febbre. Badate alla mula -.

La povera donna non poteva star ritta e si appoggiava al muro, tenendo le mani sotto il grembiule, cosí raggricciata da parere una vecchina; e aveva appena trent'anni. Don Michele continuava a guardare la mula, quasi avesse voluto risanarla con gli occhi e col fiato; alla moglie disse soltanto

- Cercate d'ammalarvi pure voi! Cosí la festa sarà completa -.

Donna Carmela, che aveva fatto il callo alle gentilezze del marito, replicò:

- Badate alla mula -.

 

Il ragazzo era andato a chiamare mastro Filippo il fabbro ferraio, e lo zi' Decu, che di quelle cose se n'intendeva meglio di mastro Filippo e anche meglio del dottore. Questi ne ammazzava parecchi de' suoi malati; lo zi' Decu invece, dove metteva le mani lui, non c'era pericolo che un animale cascasse a gambe all'aria. Don Michele però aveva fatto chiamare anche mastro Filippo, perché quattr'occhi veggono meglio di due.

Il consulto fu lungo. Mastro Filippo, visto lo zi' Decu, faceva l'indiano, per imbarazzare il rivale:

- Può darsi che sia cimurro; non voglio oppormi.

- È cimurro e di quello! Qui ci vuole un setone coi fiocchi altrimenti, don Michele, potete disporvi a far conciare questo cuoio; la mula è ita!

Don Michele tornava a prendersela coi santi e con la Madonna, e non si accorgeva della moglie che tremava in un canto, pallida, col naso affilato come una moribonda.

- Ah, Signore, Signore! Sia fatta la vostra santa volontà! -

Eran dodici anni che la poveretta faceva, a quel modo, la santa volontà di Dio; senza un giorno lieto e tranquillo, con quell'uomo che non aveva mai avuto una buona parola per lei, e che la teneva quasi senza scarpe ai piedi, quantunque ella gli avesse portato piú di ottocent'onze di dote!

E tutta la giornata stette e in cucina a preparare beveroni di crusca insieme con Prèsia, o a fare suffumigi di nepitella sotto la froge della mula, mentre don Michele, tenendola per la cavezza accanto alla mangiatoia, le parlava come a una cristiana; e la mula alzava la testa e lo guardava quasi capisse quei discorsi.

La povera donna si sentiva rotte schiena e gambe dal salire e scendere le scale della cucina e della stalla. Non si sedette neppure a tavola, intanto che don Michele ingoiava in fretta e in furia due uova fritte nel tegame e un'insalata di peperoni, senza nemmeno domandarle se ne volesse. No, ella non avrebbe potuto mettere fra i denti neanco uno spicchio di fava; la bocca dello stomaco le si era serrata. Quell'odor di nepitella che invadeva la casa le dava nausea; e don Michele inoltre, mangiando, continuava a ragionare del setone da applicare al petto della mula; e pareva v'intingesse il pane.

- Ci vogliono per lo meno tre lire! Ma il segno si vedrà sempre, se pure sant'Alòi lo benedice -.

Di chiamare il medico per la moglie non se ne discorreva neppure. Anzi, in quegli otto giorni, vedendola andare attorno come un cadavere uscito dalla sepoltura, fra il via vai che c'era in casa pel cimurro della mula, le aveva replicato piú volte:

- Cercate di ammalarvi anche voi; cosí la festa sarà completa! -

E la voce pareva minacciasse.

Per non fargli fare altri peccati, ella si rassegnava a sentirsi morire in piedi, e dava assistenza nella stalla, fra il puzzo di setone e di nepitella che le mozzava il fiato. E la notte, appena don Michele, che dormiva vestito, si levava per visitare e assistere la povera bestia, ella gli andava dietro, mezza discinta; e bisognava si appoggiasse al muro per non cadere, tanto stentava a reggersi in piedi.

La mattina che non ebbe piú forza di levarsi, don Michele cominciò a urlare:

- Lo fate apposta! Godete della mia rovina! Siete sempre stata una buona a niente e per ciò la casa è al tracollo! E Cristo, di lassú, vede la mula e non vede voi, non vede!

- State zitto - gli disse la poveretta. - Questa volta il Signore vi ascolterà! -

Don Michele fece un'alzata di spalla e andò presso la mula, ch'era diventata uno scheletro e si strascinava tra la vita e la morte. Quarant'onze di mula! E ora nessuno l'avrebbe pagata neppur due soldi!

Quando Prèsia ebbe il coraggio di venire a dirgli che mentre lui si confondeva con la mula, la povera signora moriva, don Michele rispose:

- Va a farti friggere tu e la tua signora!

Prèsia insistette:

- Se passa don Antonio, gli dirò di salire.

- Zitta! -

E fece atto di volerle dare con la fune della cavezza.

Prèsia alzò la voce:

- Già la povera signora morrà prima della mula; e voi l'avrete su la coscienza! Neppure una cagna si lascia in abbandono a questa maniera!

- Zitta!!

- Ma Dio ve ne chiederà conto nell'altra vita! Per questo ora Dio non vi aiuta!

- Zitta!!!

- La mula morrà; il Signore è giusto! Ma voi meritereste anche peggio! -

Don Michele fece le viste di non sentirla, e col capo della fune strofinava la fronte della mula che teneva giú la testa e pareva volesse baciare la terra. Quando la gna' Rosa, una vicina, venne a dirgli: - C'è il dottore - Don Michele diventò una bestia; e cominciò a a rovesciar giú dal cielo angioli, santi, serafini, e Gesú e la Madonna...

- Anima dannata! -

La gna Rosa scappò via, facendosi il segno della santa croce:

- È proprio miracolo, se la casa non subissa dalle fondamenta! -

Don Michele trovò don Antonio che aveva già scritto qualcosa su d'un pezzettino di carta.

- Ma è la prima mattina ch'ella resta a letto! -

E non sapeva capacitarsi che sua moglie stesse cosí male da doverle far somministrare, subito subito, i sacramenti della chiesa.

Quando giunse il prete che portava il Santissimo e l'estrema unzione, don Michele andò a mettersi in ginocchio a piè del letto, coi gomiti appoggiati sul piano della sedia e il capo fra le mani.

- Non c'è figliuoli, e la roba torna alla parentela - dicevano tra loro le comari del vicinato, mentre il sacerdote ungeva con l'olio santo gli occhi e le labbra dell'ammalata.

Don Michele, che appunto pensava a questo, mandava fuori sospironi.

- Fa come il coccodrillo, che prima ammazza l'uomo e poi lo piange! -

E tutti dicevano:

- Ha fatto penare dodici anni quella santa creatura. Finalmente, se la leva di torno! -

 

La povera donna era stesa sul letto, col capo affondato nei guanciali, gli occhi infossati, il naso filigginoso e un affanno che la faceva smaniare. Appena il viatico andò via, ella fe' cenno al marito e, con voce mezza spenta, gli disse all'orecchio

- Siete contento ora? Dio vi guardi e mantenga! -

Don Michele scoppiò in pianto:

- Perché mi dite cosí? Non vi ho voluto sempre bene? Ora rimango in mezzo a una strada; devo rendere la dote. E se muore anche la mula, è meglio impiccarmi! Ci ho già pensato. Faccio un nodo scorsoio alla fune della cavezza e attacco l'altro capo a una trave del tetto.

- Scellerato! Ne sareste capace! -

La poveretta lo rimproverava dolcemente, guardandolo con occhi compassionevoli, pieni di pietà e di perdono. Ma colui continuava, e le lagrime gli lavavano la faccia:

- , ! Se accade la disgrazia, com'è vero che c'è Dio, subito m'impicco!... Ma la bella Madre dei malati farà il miracolo!... Se no, prima che i vostri parenti vengano a spogliarmi la casa per riprendere la dote, un nodo scorsoio alla fune della cavezza... Cosí rimarranno piú contenti!

- E vi dannerete, scellerato? - ella disse con un fil di voce, alzando a stento una mano.

Don Michele pareva volesse sbattere la testa ai muri dalla desolazione. Allora donna Carmela, vista Prèsia che, sudicia e scarmigliata, si asciugava gli occhi col grembiule, la chiamò e le disse una parola che dovette replicare perché Prèsia mostrò di aver capito male.

Piú tardi, anche il notaio e i quattro testimoni credettero, sulle prime, aver capito male, sentendo dalla sua stessa bocca ch'ella voleva lasciare la propria roba al marito, con l'obbligo di quattro messe nei quattro venerdí di marzo e una il giorno dei morti, tutti gli anni, finché campava.

Mentre il notaio scriveva il testamento, don Michele, che diceva di non poter reggere a tanto strazio, era andato giú in istalla; e accarezzava la mula, e le lavava le froge con acqua di nepitella.

- Se non ci badassi io, questa povera bestia morrebbe di stenti; chi se ne cura? Povera bestia! Lo sai che ora la padrona non scenderà piú a portarti con le sue mani la misurina dell'orzo?

La mula, per l'acqua di nepitella che le entrava nelle narici, scuoteva la testa e pareva rispondesse che piú non le importava di nessuno e di niente.

Don Michele, quando non stava in istalla, sedeva da piè del letto, con le braccia in croce e la testa bassa, tutto compunto; e sua moglie non miglioravapeggiorava, sempre con quell'affanno che la faceva smaniare.

- Se la bella Madre dei malati non vuol farle il miracolo, perché la lascia qui, a penare, questa santa creatura? È uno strazio! Dovrebbe portarsela in paradiso.

- Già! Ora che la signora ha fatto testamento, la Madonna dovrebbe portarsela in paradiso -.

E Prèsia andò a rifugiarsi in cucina; certe cose non poteva stare a sentirle; ribolliva tutta dentro, e si mordeva la lingua che non sapeva piú tenere in freno.

 

Il dottore faceva due visite al giorno; non dava però nessuna speranza né di meglio, né di peggio.

Non cosí lo zi' Decu, che una mattina disse chiaro e tondo che la mula non sarebbe arrivata fino a sera:

- Mandatela a buttare ai cani dietro il Castello; e fatela andare coi propri piedi, invece di pagare due manovali per trascinarvela. -

Don Michele non se ne dava pace:

- Quarant'onze di mula!... Ah, in casa mia c'è la maledizione di Dio! Voglio farla ribenedire da cima a fondo! Costei, che ha fatto testamento e ha avuto tutti i sacramenti della chiesa, costei campa! E la mula che pareva dovesse guarire, se la mangeranno i cani dietro il Castello! Ah, c'è qualcuno lassú che l'ha con me a dirittura! -

 

Mineo, 20 gennaio 1882.

 

 

 



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