Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
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TOMO II

LE PAESANE

XIX QUACQUARÀ

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XIX

 

QUACQUARÀ

 

Povero don Mario! Appena lo vedevano apparire dalla cantonata della Mercede con quella tuba rossiccia, alta due palmi, a tese strette, col soprabito dalle ali lunghe fino ai piedi e ondeggianti al vento, prima i ragazzi, poi gli adulti, gli sfaccendati di Piazza Buglio e fino i galantuomini del casino cominciavano a fargli, da ogni lato, il canto della quaglia: - Quacquarà! Quacquarà! - perché sapevano che ci s'arrabbiava.

Egli fermavasi alle avvisaglie, guardando attorno, palleggiando la grossa mazza di sorbo, scuotendo il capo minacciosamente; e faceva altri due passi in avanti, fissando le persone per scoprire qualcuno degl'impertinenti che gli perdevano il rispetto, a lui, figlio e nipote di mastri notai, a lui che valeva cento volte piú di tutti quei signori del casino!... Ma era inutile. Da destra, da sinistra, davanti, di dietro, con la voce e col fischio: - Quacquarà! Quacquarà!

- Non vi confondete! Lasciateli dire.

- Se non ne ammazzo qualcuno, non si chetano!

- Volete andare in galera per niente?

- Loro ci mando in galera! -

Diventava rosso come un tacchino, smaniando e gesticolando, con la schiuma alle labbra.

- Se voi non v'arrabbiaste, starebbero zitti.

- Vigliacchi!... Perché non mi vengono di fronte?

- Quacquarà!

- Ah!... Tu, figlio di cento padri!...

Quella volta, se non lo trattenevano in tempo: - Vorreste prendervela con un bambino? - avrebbe rotta la testa al ragazzo del barbiere, che arditamente gli s'era accostato per gridargli sotto il naso: - Quacquarà! - E ce ne volle prima che don Mario si lasciasse trascinare nella farmacia Montemagno, piena di gente che rideva. Allora Vito, il giovane del farmacista, fattosi innanzi serio serio, gli disse:

- Che v'importa se vi dicono: quacquarà? Sareste, per caso, una quaglia? -

Don Mario gli volse un'occhiataccia.

- Infine, non vi chiamano ladro.

- Sono galantuomo e figlio di galantuomo!

- O dunque? Che significa: quacquarà? Niente. E quacquarà sia! -

Il farmacista e le altre persone si contorcevano dalle risa per la serietà di Vito che, con la scusa di fare la predica a don Mario, gli ripeteva: - Quacquarà! Quacquarà! - in faccia, senza che quegli si accorgesse della malizia.

- Io, vede, a chi mi gridasse dietro: quacquarà! gli darei un grano ogni volta. Quacquarà! Quacquarà! Quacquarà! Sgolatevi pure!

- E intanto, facchino, tu me lo ripeti sul muso! - urlò all'ultimo don Mario, levando la mazza.

Ma si mise in mezzo lo speziale, che temeva pei cristalli delle vetrine; e presolo sotto il braccio, lo trasse fuori dalla farmacia, rabbonendolo, dandogli ragione:

- Svoltate da qui; non vi vedrà nessuno.

- Debbo nascondermi?... Pe far piacere ai grulli?... Sono galantuomo e figlio di galantuomo! -

 

Vero, verissimo! I Majori erano sempre stati brave persone, mastri notai di padre in figlio fino al '19, quando era uscito dall'inferno quel gastigo di Dio chiamato codice napoleonico, per la disperazione del notaio Majori, padre di don Mario, che non poté capirci mai niente e dovette smettere dall'ufficio.

- Come? Non piú formule latine?... E gli atti intestati in nome del re?... Che c'entra sua maestà nelle contrattazioni private? -

E volle lavarsene le mani, per isgravio di coscienza. Cosí lo stoppino del gran calamaio di rame s'era inaridito nello studio, e le penne d'oca si erano sgangherate; né ci fu piú nella sua casa quel via vai di prima, quando tutti accorrevano da lui che era l'onestà in persona e non metteva mai su la carta né una parola di piú, né una parola di meno di quel che volevano le parti interessate. E cosí don Mario, che fin allora aveva fatto da scrivano nello studio paterno e sapeva a memoria tutte le formole latine senza intenderne sillaba, s'era trovato disoccupato insieme col fratello don Ignazio, che valeva poco piú di lui. E morto di crepacuore il padre - per quel codice scomunicato senza formole latine, e che voleva intestati gli atti in nome del re - i due fratelli vivacchiarono di quel poco da essi ereditato, ma altieri della loro onesta povertà; ma rigidamente fedeli al passato anche nel vestire; giacché continuarono per un pezzo a indossare gli abiti vecchi, tenuti con gran cura, senza badare che non fossero piú di moda e li rendessero ridicoli.

Don Ignazio però non l'aveva durata a lungo; e quando il suo cappello di castoro gli parve proprio inservibile e il suo soprabito troppo sdrucito, comprò per pochi tarí, da don Saverio il rivenditore, una tuba usata, e poi un vestito, usato anch'esso, ma che aveva migliore apparenza del vecchio soprabito. Don Mario invece tenne duro. E per ciò andava attorno con quella tuba rossiccia, alta due palmi, a tese strette, e portava indosso quel gran soprabito alla foggia di mezzo secolo addietro, lungo fino ai piedi, spelato e rattoppato, ma senza una macchia. Non voleva derogare al passato, lui figlio e nipote di mastri notai! Quella tuba e quel soprabito gli parevano quasi un'insegna di nobiltà e non li avrebbe smessi a qualunque costo.

Poi erano sopravvenuti tempi duri; le cattive annate, il torcicollo epidemico del '37, il colera, la rivoluzione del '48; e i due fratelli avevano passato brutte giornate e peggiori nottate, almanaccando sul modo di procurarsi un bicchiere di vino o un po' d'olio per la minestra.

- Domani andrò dal tale! - diceva don Mario. - Intanto spazziamo la casa -.

Facevano tutto da sé; e mentre don Ignazio tagliuzzava una cipolla da condire in insalata per la cena, don Mario, con indosso la veste da carnera di suo padre, tutta stinta e rammendata, mettevasi a spazzare le stanze come una serva, attentamente; levava la polvere dai tavolini sciancati, dai vecchi seggioloni a bracciuoli e col cuoio sbrandellato nelle spalliere; indi, radunate in una cesta le immondizie, apriva cautamente la porta per accertarsi se mai non vi fosse fuori qualche vicino o qualche passante; e usciva, a tarda notte, per deporre le immondizie dietro il muro d'una casa in rovina, ridotta a letamaio dal vicinato. Nella via, raccoglieva sassi, torsoli di cavolo, bucce di arance e di poponi, per ripulirla, visto che nessuno vi badava, anzi tutti facevano il comodo loro, senza punto curarsi della nettezza. La nettezza!... Era la sua fissazione, in casa e fuori. E spesso don Ignazio, vedendolo tardare, era costretto a richiamarlo in casa:

- Sei lo spazzino pubblico tu?

- La pulizia l'ha ordinata Domineddio! - rispondeva don Mario.

E, lavatesi le mani, si metteva a mangiare quella magra cena di cipolla in insalata e pane, quasi fosse stata un piatto prelibato da leccarsene le dita.

- Questo è l'olio di donna Rosa, e non ce n'è piú! - disse una volta don Ignazio, fra un boccone e l'altro.

- Domani andrò dal cavaliere...

- Suo padre era contadino!...

- Suo nonno andava a giornata!...

- Ora è ricco sfondato!...

- Suo nonno diventò fattore del principe e... sfido!... s'arricchí.

- Andiamo a letto; il lume si spegne -.

Dovevano economizzare fino il lume. Dai letti, al buio, continuavano però la conversazione interrotta, saltando di palo in frasca:

- Hai visto la banda con la uniforme nuova?

- . Massaro Cola ha raccolto quest'anno cento salme di grano...

- Chi sa se sia vero?... Buon pro gli faccia!

- Domani andrò dal cavaliere, per l'olio...

- Non abbiamo piú vino...

- Andrò anche pel vino... Avemmaria!...

- Paternostro!... -

E si addormentavano.

 

La mattina, spazzolato ben bene il vestito spelato e rattoppato e la tuba rossiccia, don Mario si vestiva in fretta e cominciava la giornata con andare alla messa dell'Immacolata, a San Francesco; e cantava le strofette dello stellario tra i confratelli della congregazione, battendo forte con un piede sul pavimento quando tutti gridavano: - A dispetto di Lucifero infernale, viva Maria Immacolata! - Intanto don Mario spesso non sapeva frenarsi dal dire a questo o a quell'altro che gli stava accanto, che gl'immacolatisti, come chiamavano quei confrati, erano quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio.

- Canzonano la Madonna e Domineddio!

- Badate ai fatti vostri!

- Voi siete piú ladro di loro, se li difendete.

- E voi, bestione! -

Gli dicevano sempre cosí: - Bestione! - tutte le volte che gli scappava detta una verità, compatendolo perché era ingenuo e non parlava per malizia. Don Mario non replicava, ma non mutava parere:

- Sono quasi tutti chi ladro, chi intrigante, chi usuraio -.

E stringeva al petto, sotto il soprabito, la bottiglia con cui doveva andare a chiedere un po' d'olio e un po' di vino alle persone caritatevoli, dopo ascoltata la santa messa. Si presentava umile e cerimonioso:

- È in casa il signor cavaliere?

- No; c'è la signora.

- Annunziatemi alla signora -.

Oramai le persone di servizio sapevano che cosa significasse una visita di don Mario, e lo lasciavano nell'anticamera ad aspettare, o gli dicevano, senz'altro:

- Datemi la bottiglia, don Mario -.

E non era raro il caso che, mentre di gli riempivano la bottiglia, egli non stesse piú alle mosse vedendo la sciatteria della stanza. Montava su una seggiola per levar via, con la punta della mazza, i ragnateli della volta; e se trovava a portata della mano una granata - che poteva farci? non sapeva resistere - si metteva a spazzare il pavimento, a spolverare un quadro, a raccattare i pezzettini di carta o di stoffa per terra.

- Che fate, don Mario?

- La pulizia l'ha ordinata Domineddio!... Ringraziate la signora! -

Donna Rosa però, che si divertiva a discorrere con lui, lo faceva entrare ogni volta in salotto e lo invitava a sedersi.

- Che c'è di nuovo, caro don Mario?

- Bene, con la grazia di Dio. Voscenza come sta?

- Come le vecchie, caro don Mario!

- Vecchio è chi muore. Voscenza è cosí caritatevole, che il Signore deve farla campare cent'anni -.

Donna Rosa tirava a lungo il discorso, quasi non avesse capito lo scopo della visita; e don Mario si calcava sotto il soprabito la bottiglia vuota, aspettando l'occasione di presentare la richiesta senza parere importuno. Di tratto in tratto, si levava da sedere:

- Scusi, voscenza... -

E dava una spolverata a un tavolino

 - Scusi, voscenza... -

E si chinava per raccattare un filo di lana o di refe e buttarlo fuori del terrazzino aperto. Pareva che quella polvere, o quel po' di refe o di lana gli avessero dato il mal di stomaco, tanto egli s'era dimenato su la seggiola dopo che se n'era accorto.

- Lasciate andare, don Mario...

- La pulizia l'ha ordinata Domineddio!... Ero venuto...

- Vostro fratello è contento del suo impiego? - lo interruppe, un giorno, donna Rosa.

- Contentissimo.

- Dovreste farvi fare regio pesatore anche voi. Manca tuttavia quello del mulino degli Archi.

- E l'addizione, signora? E l'addizione?... Ignazio sa farla! -

Alzò gli occhi al cielo, sospirando per quella che gli sembrava proprio un'operazione di calcolo sublime.

- Povero Ignazio! Torna cosí stracco dal mulino! Si figuri: quattro miglia di salita, a piedi!... Ero venuto per questo... -

E mostrò la bottiglia.

- Volentieri! -

Chi poteva dirgli di no al buon don Mario? Quando però gli accennavano alla maledetta addizione, neppure il regalo di una bottiglia di vino riusciva a metterlo di buon umore. S'era provato tante volte a fare un'addizione! Il guaio per lui erano le diecine.

- Nove e uno, dieci... Va bene. Ma: lascio zero, e riporto uno! Perché riportare uno, se sono dieci? -

Non c'era stato verso che gli entrasse in testa. Eppure non era uno stupido. Bisognava sentirgli leggere correttamente le vecchie scritture notarili, con tutte quelle strane abbreviazioni latine che i nuovi notai e gli avvocati non sapevano decifrare. È vero che le recitava come un pappagallo, senza capirne jota; ma, intanto guadagnava mezza liretta ogni volta, quando lo richiedevano di questo servigio; e ci entravano un par di litri di vino e mezzo chilo di carne di agnello! Pasqua addirittura, quantunque ora, con l'impiego di don Ignazio, i due fratelli piú non stentassero come prima.

 

Sarebbero stati anzi felici, senza quel quacquarà che faceva arrabbiare don Mario. D'onde l'avevano cavato? Oramai egli non poteva dare un passo fuori di casa, che non se lo sentisse gridare o zufolare da qualche impertinente ineducato.

- Farò uno sproposito, un giorno o l'altro! -

E una mattina andò a ricorrere dal regio giudice, che allora aveva in mano anche la polizia. Fino il giudice rideva!

- Vi dicono: quacquarà? E voi lasciateli dire.

- Li accuso davanti la vostra giustizia - urlò don Mario.

- Ma chi accusate?

- Tutti! -

Troppi. Non si poteva arrestare l'intera popolazione.

- Piuttosto, - rispose il giudice, - smettete di portare cotesto cappello e cotesto soprabito; vedrete che allora non vi diranno piú nulla.

- Poiché un galantuomo non può ottenere giustizia! - brontolò don Mario.

E andò via dignitosamente, risoluto di farsi giustizia con le proprie mani. Male glien'incolse la prima volta che lasciò correre un ceffone a Sputa cristiani, cosí chiamato perché parlando sputava tutti. Sputa cristiani quel giorno non aveva colpa; montò sulle furie e rispose con piú di mezza dozzina di schiaffi sonori. Il povero don Mario, che non se l'aspettava, rimase interdetto:

- Come?... Per un ceffone, me ne sei? - Non rinveniva dallo stupore. Per disgrazia, nella colluttazione, Sputa cristiani gli aveva anche strappato mezzo il vecchio soprabito che si reggeva a stento.

Il giudice tenne in arresto un paio d'ore Sputa cristiani che aveva ecceduto, e aprí una colletta in casino per un vestito nuovo e una tuba da regalare a don Mario. Don Mario non volle lasciarsi mai prendere le misure dal sarto; e il giorno che gli portarono in casa il vestito, tagliato e cucito a occhio e croce, insieme con una tuba nuova, ringraziò pulitamente e rimandò indietro ogni cosa.

- Sei stato uno sciocco! - gli disse il fratello che, tornando dal mulino, lo aveva trovato intento a rammendare il soprabito. - Con questo è impossibile andar fuori.

- Starò in casa! - rispose altieramente. E non fu piú visto attorno.

Passava il tempo seduto su la soglia della porta, discorrendo con le vicine, o aggirandosi per le molte stanze vuote della casa crollante. Da anni ed anni non v'erano state fatte riparazioni di sorta; e le imposte si reggevano appena sui gangheri; due solai erano sprofondati e bisognava passare sui tavoloni, posti a mo' di ponticelli, per andare da una stanza in un'altra; i tetti di parecchie stanze, ridotti la piú parte quasi senza tegole, versavano acqua da tutti i punti, quando pioveva.

- Vendete metà della casa - gli diceva qualche vicino; - è troppo vasta per le due mosche che siete -.

La sera, a cena, ragionando di questo, don Mario e don Ignazio si erano trovati in un bell'imbroglio.

- Vendete! È presto detto. Che vendere?... L'antico studio notarile?

- Oh! - esclamò don Mario, indignato.

È vero che i grossi volumi, rilegati in pelle scura, non si trovavano piú negli scaffali attorno; li aveva presi il governo, quasi fossero stati roba sua, e non dei mastri notai stipulatori di tutti quegli atti. Ma che importava? Gli scaffali, tarlati e sfasciati, ridotti a ripostiglio di piatti, di tegami, di utensili d'ogni sorta, restavano, ai loro occhi, testimoni quasi viventi dell'antico splendore. I due fratelli si erano guardati in viso:

- È possibile?... Vendete! Che vendere? La camera della nonna? -

Camera misteriosa, chiusa da settant'anni, di cui s'era fin perduta la chiave della serratura. Vi era morta la moglie del nonno, una santa; quegli aveva ordinato che, in segno di perpetuo lutto, la stanza rimanesse chiusa per sempre, e cosí era stato fatto. Ogni notte, i topi facevano dentro balli indiavolati... Che importava? Un mastro notaio Majori aveva voluto che nessuno l'aprisse, e nessuno l'aveva più aperta.

- Dobbiamo profanarla noi? -

Si trovavano d'accordo: - Non era possibile! -

- Vendete!... Che vendere? La stanza dei ritratti? -

Stava schierata alle pareti mezza dozzina di tele incorniciate, annerite dagli anni e dal fumo, dalle quali scappavano fuori qua la testa maschia e severa di don Gaspare Majori, del 1592, rosso di capelli, in gran toga scura e con un rotolo di carte in una mano; , gli occhi grigi, i baffi bianchi e il pizzo di don Carlo, del 1690; accanto, la parrucca e il viso tondo e raso di don Paolo, del 1687; piú in , la testa scarna e allungata di don Antonio, incastrata nel bavero enorme, con il collo fasciato da un cravattone bianco e i ciondoli pendenti fuori dalle due tasche del vistoso panciotto, del 1805; don Mario sapeva a memoria vita, morte e miracoli d'ognuno, e don Ignazio pure.

- Dobbiamo scacciarli di casa noi? È possibile?

- No, non è possibile! -

E preferivano di lasciar crollare ogni cosa; quasi studio notarile, camera della nonna, stanza dei ritratti formassero parte integrale del loro corpo; quasi, col vendere anche un solo palmo di quella casa, essi cessassero d'essere di quei Majori mastri notai da parecchi secoli, di padre in figlio! Tutti erano vissuti , avevano tabellionato , di generazione in generazione, fino al padre loro, don Antonio Majori...

- È mai possibile? - ripeterono insieme don Mario e don Ignazio.

E andarono a letto, e spensero il lume.

- Tanto, ne abbiamo per poco! Siamo vecchi, Mario.

- Tu hai due anni piú di me.

... Domani verrà notar Patrizio, per farsi leggere una scrittura antica.

- Cosí compreremo mezzo chilo di carne.

- Saverio il macellaio truffa nel peso. Aprirò tanto d'occhi.

- Ho prestato il mattarello a comare Nina.

... Il vino lo prenderò da Scatà, di quello di Vittoria... Paternostro!...

- ... Avemmaria!... -

E si addormentarono.

 

- Siamo già vecchi!... Ignazio ha ragione - rifletteva Don Mario; e si domandava: - Chi dei due morrà il primo? -

Rimaneva triste, scoraggiato.

- Io sono il minore. Dopo, erediteranno la casa i parenti lontani, se la spartiranno, la venderanno!... Che ce n'importerà?... Ignazio ed io non saremo piú qui. I veri Majori siamo noi. Morti noi, morto il mondo! -

Pure continuava a spazzare quella rovina con lo stesso amore, con la stessa accuratezza d'una volta; levando via i ragnateli dalle mura e dagli angoli; spolverando i pochi mobili tarlati e sfasciati; piantando un chiodo in una spalliera di seggiolone, in un piede di tavolino; incollando un foglio di carta oleata a una finestra dove mancava un vetro; portando fuori, al solito, a tarda notte, le immondezze. Anzi ora, accadendogli d'addormentarsi anche di giorno, per la solitudine e l'inerzia, passava fuori le nottate, spazzando il vicolo pel lungo e pel largo, contento di sentire la meraviglia del vicinato la mattina dopo:

- È passato l'angiolo questa notte pel vicolo. È vero, don Mario? -

Egli sorrideva e non rispondeva; rassegnato alla volontaria prigionia, poiché non poteva piú indossare il vecchio soprabito e la vecchia tuba, sempre , spolverati e senza una frittella, sebbene inservibili.

Un giorno però don Mario perdette a un tratto la pace. Affacciatosi a un abbaino della stanza dei ritratti, aveva guardato laggiú, in fondo alla strada, la bella casa del Reina, dal portone stranamente intagliato, dalle mensole dei terrazzini a foggia di mostri contorti.

- Bel palazzo, anzi reggia! - diceva don Mario, che non ne aveva mai visto uno piú bello. - Intanto, il proprietario come non s'accorge di quei ciuffi di paretaria cresciuti fra gl'intagli sull'arco del portone, e che deturpano l'edifizio? -

La sera, appena don Ignazio, stanco e trafelato, arrivò dal mulino

- Senti - gli disse don Mario; - dovresti andare dal signor Reina. Lascia crescere fra gl'intagli del portone, sotto il terrazzino di centro, certe erbacce!... Fanno stizza a vederle.

- Ebbene?

- Dovresti avvertirlo, almeno quando lo incontri.

- Lo avvertirò -.

Don Ignazio, rifinito dalla via fatta a piedi, aveva ben altro pel capo; voleva cenare e andarsene a letto.

Ma d'allora in poi non ebbe piú requie neppur lui. Ogni sera, all'arrivo dal mulino, non finiva di deporre in un canto il bastone, che don Mario non gli domandasse:

- Hai parlato col signor Reina?

- No.

- Va' a dirglielo ora stesso. Peccato! Quelle erbacce guastano l'architettura!... -

Se le sentiva come un bruscolo negli occhi; non sapeva persuadersi in che maniera il signor Reina potesse sopportare quel sacrilegio. E si affacciava piú volte ogni giorno all'abbaino, montando una scala a piuoli, appoggiata al muro, con pericolo di fiaccarsi il collo, se per caso fosse cascato. Quelle erbacce, Signore, erano sempre ; crescevano, facevano cesti che tremolavano al vento. Se fossero stati cirri allo stomaco, forse egli non ne avrebbe sofferto altrettanto.

- Glielo hai detto al signor Reina?...

- .

- Che ti ha risposto?

- Una parolaccia! -

Quella notte don Mario non poté chiudere occhio. E appena s'accorse che il fratello russava, riacceso il lume, tornò a vestirsi, prese in collo la scala a piuoli, che gli storpiava la spalla, e s'avviò verso la casa del Reina, rasentando il muro dalla parte dell'ombra, per evitare il lume di luna, come ladro che vada a dare la scalata. Per ladro infatti lo presero le guardie di ronda, trovatolo arrampicato lassú, in cima al portone, affannato a strappare le erbacce parassite, a dispetto del proprietario che non se ne curava.

- Che fate costí?

- Strappo quest'erbe.

- Scendete giú.

- Lasciatemi finire...

- Giú, vi dico!... -

E alla brusca intimazione, il povero don Mario dovette scendere, lasciando parecchi ciuffi di paretaria, che avrebbero continuato a deturpare la bella architettura.

- C'è mancato poco non mi conducessero in carcere!... Per aver voluto fare un po' di bene! -

E morí, da a tre mesi, con l'incubo di quelle erbacce che gli pesava sul cuore. Povero don Mario!

 

Roma, giugno 1889

 

 

 



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