Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO III

LA VOLUTTÀ DI CREARE

VI IL BUSTO

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VI

 

IL BUSTO

 

- E che direste - esclamò il dottor Maggioli - se io vi raccontassi per quale sciocca circostanza sono stato, trent'anni fa, sul punto d'impazzire?

- Voi, cosí savio, cosí impassibile? - lo interruppe l'abate Venini.

- Se non savio e impassibile - riprese il dottore sorridendo - certamente molto equilibrato di nervi e di immaginazione. Eppure... Questo significa che le circostanze non hanno valore per loro stesse, ma assumono maggiore o minore importanza secondo certi stati del nostro organismo dei quali la scienza non sa ancora rendersi conto. Ho visto un uomo coraggiosissimo tremar di paura come un bambino; ho conosciuto un pusillanime che ha compiuto un atto di eroismo di cui nessuno lo avrebbe mai creduto capace. Passato quel momento, l'uno è tornato intrepido sfidatore di pericoli qual era sempre stato; l'altro, un poltrone che si atterriva fin della sua ombra. E nessuno ha saputo spiegare per quali ragioni, in un istante, le loro parti si siano invertite.

- Ah, io avrei voluto vedervi da Orlando furioso!

- Furioso a dirittura, cara baronessa, - riprese il dottor Maggioli. - Non posso ricordarlo senza sentirmi correre acuti brividi per tutta la persona.

- Su, fate abbrividirei anche noi! - disse la baronessa Lanari.

- Probabilmente voialtri riderete. Io stesso debbo fare talvolta uno sforzo per persuadermi che l'accaduto di trent'anni fa non è stato un sogno bizzarro o un'allucinazione. Mi domando: è mai possibile che io sia arrivato fino al punto...? Ma appena mi si ripresenta alla immaginazione la figura sbalordita dell'unico testimone di quell'incredibile stranezza - chiamiamola pure cosí - e torna a risonarmi nell'orecchio il suo grido: «Oh Dio! Che hai fatto! Perché? Perché?» chino la testa pensieroso, riflettendo che misera cosa è il nostro organismo intellettuale, se cagioni tanto insignificanti possono, tutt'a un tratto, quasi annientarlo.

- Mi meraviglio che un dottore parli in questo modo - disse l'abate Venini. - Io ho creduto finora, che il nostro organismo, cosí semplice e cosí delicato, abbia invece una forza di resistenza veramente straordinaria.

- E appunto qui consiste il suo mistero! Urti, colpi violentissimi, spesso non vi producono nessuna notevole impressione; e quel che in confronto di essi potrebbe dirsi un soffio, una lieve spinta, vi fa avverare, come nel caso di cui parlerò, un grave disastro.

- Ma voi non siete impazzito!

- Ero già su la via, altrimenti l'atto da me commesso sarebbe proprio inesplicabile. Ho reagito in tempo; ecco tutto.

- Insomma, che cosa avete fatto? - domandò la baronessa resa impaziente dalla curiosità.

- Ho distrutto un capolavoro, o per parlare con precisione, un'opera d'arte che certamente, stava per riuscire un capolavoro.

- Perché?

- Perché?... Il mio amico Doneglia, scultore valentissimo che sarebbe salito in gran fama se fosse stato meno modesto e meno incontentabile, mi tormentava da parecchi anni: «Voglio fare il tuo ritratto

«Se io fossi meno bruttorispondevo. «Sarai bellissimo nel marmo o nel bronzo» insisteva.

- Si era fitto in mente che io avessi una testa da filosofo greco con quella lunga barba che m'ero lasciato crescere allora e i capelli folti e arruffati di cui piú non c'è quasi vestigio. A me però sembrava troppo onore per la mia barba e pei miei capelli l'essere immortalati da un grande artista come lui. Pensavo ch'egli avrebbe impiegato meglio il suo ingegno e il suo tempo terminando quel suo centauretto che ruzzava tra l'erba e pareva uscito dalle mani di uno scultore ateniese dei tempi di Fidia, quantunque lasciato non finito con la scusa che il ragazzo servitogli da modello era morto ed egli non aveva piú trovato chi potesse sostituirlo. Glielo ripetevo ogni volta che tornava a tentarmi.

«Ebbene - mi rispose un giorno - ti do la mia parola d'onore che finirò il centauretto, se prima mi lascerai cavare il capriccio di fare il tuo busto

Era premio troppo grande da non vincere tutti i miei scrupoli. E misi la pretesa mia testa da filosofo greco a sua disposizione.

Cosí vidi di giorno in giorno, sotto il nervoso pollice del mio amico e sotto l'abilissima opera della sua stecca, uscir fuori dall'informe cumulo di creta ammassata sul cavalletto la mia figura cosí viva e parlante, che la guardavo con stupore quasi mi fossi sdoppiato, o quasi qualche cosa di me si fosse trasfuso in quell'immagine dalle cui labbra mi attendevo di sentir scappare da un momento all'altro il suono della mia voce, come già c'era il lieve bonario sorriso che, a detta del mio amico, formava la caratteristica della mia fisonomia.

I doveri di medico non mi permettevano di accordargli frequenti e lunghe pose. Spesso passavano due, tre settimane senza che io mettessi piede nel suo studio.

«Oh, Dio! Ti sei un po' ingrassato! - o pure: - Oh, Dio! Sei alquanto dimagrito

Come avvenissero questi cambiamenti piccoli ma percettibili, giacché egli li notava subito, non saprei dire.

«Non lo faccio a posta» rispondevo scusandomi.

Ne ero dispiacente perché gli inopportuni cambiamenti ritardavano molto l'esecuzione del busto. L'incontentabile artista doveva togliere qualche cosettina qua, supplirla ; e quel po' di creta, tolta o aggiunta in un posto, determinava altre aggiunte o soppressioni, delle quali egli cercava di spiegarmi l'intima ragione per indurmi a pazientare nel martirio della posa. Ogni volta allora, riprendendo la seduta, mi sembrava ch'egli scancellasse l'impronta della straordinaria rassomiglianza, ma alla fine, sul punto di accomiatarmi, mi maravigliavo che la rassomiglianza e l'alito di vita animatore del busto fossero col paziente lavoro divenuti piú evidenti.

Un giorno gli dissi scherzando:

«Non mi accadrà, spero, come alla amata di quel pittore di cui si parla in una novella del Poe. Io non morrò perché la mia vita si sarà trasfusa tutta nel ritratto quando esso sarà finito».

Rispose con un brontolio. Passava e ripassava il dito su la fronte del busto, ed io mi accorsi che egli si sforzava di spingere un po' in dentro qualche cosa di duro che la creta copriva appena.

«C'è un sassolinodomandai.

«No, il cranio vien fuori... Ho messo qui un cranio per meglio modellare la testa».

«Un cranio? Proprio un cranio

«Ti stupisce

Non potei nascondergli che il sapere incastrato nella testa del mio busto il cranio di un morto ignoto mi produceva repugnante impressione. «Molti scultori fanno cosí» egli mi disse.

Rimessomi a posare, mi sentivo impacciato. Fanciullaggine! Ora lo comprendo; ma quel cranio che, vivente, aveva contenuto un cervello pensante diversamente dal mio, mi faceva fantasticare stranissime cose. Mi pareva che l'impronta di vita del mio ritratto dovesse ridestare le funzioni intellettive della vuota cassa cerebrale, e produrre un turbamento che poteva oltrepassare l'opera d'arte e influire su l'originale, su me che mi vedevo rivivere in essa. Mi pareva anche di sentirmi un che di estraneo dentro la testa, quasi quel cranio non fosse solamente incastrato nella creta, ma si fosse sostituito al mio, o almeno tentasse di sostituirsi al mio, come per opera di magia.

Fanciullaggine! ripeto. E tale la giudicavo da principio. Infatti, nelle sedute dei giorni appresso, scherzando, dissi all'amico scultore:

«Chi sa che diamine pensa il mio ritratto con quel cranio altrui! Vi sarà rimasta qualche impressione dei pensieri avvenuti una volta, e forse la forma esteriore può produrre il miracolo di metterli in moto. È una cosa macabra».

Intanto, durante le sedute di posa mi affondavo sempre piú in questa fissazione. Un crescente malessere mi invadeva. Non osavo piú di scherzare intorno a quel cranio. La preoccupazione dello spirito alterava l'espressione della mia fisonomia, facendomi corrugare la fronte, e togliendo alle mie labbra la caratteristica del lieve, bonario sorriso che lo scultore era riuscito a rendere, con molto stento, nell'opera sua.

«Che cosa hai? - mi domandava. - Muoviti, parla; non prendere quest'aria mutriona che ti disdice

Ed io non avevo il coraggio di confessargli che tutto proveniva dal maledetto cranio di cui egli aveva avuto la funebre idea di servirsi per modellare piú facilmente la testa del busto. Ormai quel senso di malessere non era piú momentaneo, durante soltanto le poche ore di posa; lo portavo via con me tutta la giornata, e, la notte, mi impediva di addormentarmi subito appena entrato in letto, come solevo, quantunque le visite e le occupazioni giornaliere mi facessero rientrare a casa non meno stanco di prima. Non mi sentivo piú io, ma un po' quell'altro che doveva pensare dentro la testa del busto sotto l'involucro di creta che lo copriva. Ed era una smania acuta, una sofferenza tormentatrice a cui non riuscivo di sottrarmi. Mi sembrava ridicolo che mi fossi ridotto fino a questo estremo; mi davo dell'imbecille e peggio; ma nello stesso tempo provavo una vivissima attrazione verso il busto che di giorno in giorno diveniva sempre piú rassomigliante e piú vivo con l'amorosa, assidua carezza del pollice dell'artista, dal quale vedevo affinare maravigliosamente la modellatura. Per parecchi giorni di seguito ero andato a posare.

«Poche altre sedute - mi diceva il Doneglia - e poi sarai libero».

Egli, l'incontentabile, cominciava ad essere soddisfatto dell'opera sua. Ma io vedevo aumentare, con una specie di terrore, l'espressione di persona proprio viva che il busto aveva già assunto in quelle ultime sedute. Mi voltavo a ogni istante per guardarlo, irrequieto, con la sensazione di una dolorosa pressura al cranio mio e del busto, quasi fossero divenuti un cranio solo; con la sensazione di una lotta, di un contrasto di pensieri opposti che vi tumultuassero dentro per prendere gli uni sopravvento su gli altri. E mi mordevo le labbra, e increspavo le mani conficcandomi le ugne nelle carni, facendo grandi sforzi per non far scorgere all'artista la mia interna angoscia.

Egli dava gli ultimi tocchi di stecca agli occhi, facendovi la pupilla, dove quasi sprizzava una luce che animava il busto straordinariamente; e lavorava intento, con estrema delicatezza, mentre io sentivo piú e piú invasarmi dall'idea che stessi per perdere la mia personalità ed essere interamente asservito a quell'altro...

«No! No!» gridai, slanciandomi addosso al busto e rovesciandolo con le due mani dal cavalletto.

«Oh, Dio! Che hai fatto! Perché? Perché?»

Ma io non badavo al desolato grido dell'artista che vedeva distrutta l'opera sua; e coi piedi deformavo la testa rimasta intatta nella caduta, facendone schizzar fuori quel cranio con le occhiaie, con la dentiera e il buco triangolare delle narici imbrattati di creta che sembrava carne imputridita e rimastavi appiccicata nello sfacelo; poi, con la punta di un piede lo facevo ruzzolare in un angolo.

«Perché? Perché?»

«Perché?- risposi, rinvenendo dal furore che mi aveva improvvisamente assalito. - Mi sentivo impazzire. Oh, quel cranio! Perdonami! Mi sentivo impazzire».

Capivo l'enormità a cui ero trasceso, e la contristata figura dell'artista, che guardava stupito la distruzione da me operata, mi faceva pietà. Ma io rivivevo, io provavo l'immensa gioia della liberazione dall'incubo che per poco non mi aveva fatto perdere la ragione; e stringendo affettuosamente le mani del mio povero amico, gli mormoravo:

«Perdonami!... Pensa ora al tuo centauretto; non castigarmi col lasciarlo non finito

È un gran rimorso. Il Doneglia non ha piú ripreso la gentile statuina, e la moderna scultura italiana non può contare, per mia colpa, un capolavoro di piú.


 

 

 


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