Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Rassegnazione
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RASSEGNAZIONE

VIII.

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VIII.

 

Il Bissi era venuto da me più volte nei primi giorni del lutto. Si sedeva in un canto, silenzioso, assorto nelle sue fantasie letterarie, quasi volesse farmi capire che soltanto l'arte purifica, eleva, trasportandoci in un'atmosfera dove i casi della vita, lieti o tristi, non hanno più nessuna importanza o hanno soltanto quella che loro proviene dalla possibilità di trasformarli in elementi di creazione. Poi non si era fatto più vivo.

Una mattina lo vidi ricomparire.

- Vengo a congedarmi - disse. - Parto per Desenzano.

- A che farvi? - risposi.

- Indovina.

- Risparmiami la fatica d'indovinare.

- Ho ottenuto un impiego nelle Dogane. Bisogna vivere, mio caro!

Lo guardai, incredulo.

- Questa notizia ti stupisce? - egli soggiunse.

- Ormai non mi stupisco più di niente!

- Fra una bolletta e l'altra, se mi rimarrà tempo....

Voleva mostrarsi tranquillo, ma aveva il pianto nella voce.

- E tu che farai? - mi domandò, quasi per sviare il discorso.

Non seppi che cosa rispondere. Allora egli riprese:

- È per mia madre. La poveretta ha fatto troppi sacrifizi per la mia educazione; bisogna che non abbia una vecchiaia di miseria e di stenti. L'arte, quale io la intendo, non pane in Italia e, forse, neppure altrove. Se fossi solo, lotterei; il mio stomaco non è esigente. Ma non mi sento in diritto di costringere a combattere chi non ha il mio stesso ideale. Se tu vedessi come la santa donna è felice di sapere che almeno ora avremo qualche cosa di sicuro!... Non rinunzio al mio avvenire; sarebbe assai peggio che rinunziare alla vita. Mi riserbo. Darò le giornate alle bollette, le nottate all'arte.... Mi scriverai di tanto in tanto, è vero?

E, vedendo che io restavo pensieroso e muto, continuò:

- Molti altri si sono trovati in più tristi circostanze di me, e non si sono persi di coraggio. Ancora non ho potuto far niente da autorizzarmi ad assumere l'aria di persona delusa. E poi.... chi lo sa?... Può darsi che io m'inganni intorno al valore delle mie forze. Se valgo davvero qualche cosa, vincerò, riuscirò; soltanto gli inetti non riescono. Cioè, riescono qualche volta; ma vuol dire che hanno altre qualità. Ho questa convinzione. Guarda Lostini. Arriverà, ne sono certo, a farsi un bel posto al sole. Ha l'improntitudine, la vanità.... e un certo ingegnaccio. Sa dare gomitate per spingersi innanzi tra la folla, e non si cura se gli urtati protestano anche con male parole; finge di non udirle e tira via. Io, per paura di pestare, nella ressa, i calli a un vicino, preferisco di restare immobile, di attendere che mi sia sgombrato il passo. Il torto è mio. Dovrei pestare i calli e, tutt'al più, dire: scusi! Lostini non dice neppure: scusi; ed ha la forza di non sdegnarsi se li pestano a lui. Gli par naturale che tra la folla avvenga così. Ed è pratico. E poi.... anche un'altra cosa. Credi tu che metta conto oggi di darsi interamente all'arte?

- Senti, - gli risposi, - se tu pensassi davvero questo, significherebbe che sei più scoraggiato che non vuoi sembrare.

- Lo penso, altrimenti non lo direi. Mi sono però espresso male. Volevo dire che oggi non mette conto di pensare all'arte per gli altri. Essa è divenuta un oggetto di lusso, da oggetto di prima necessità che era una volta. E del lusso si può far senza o, piuttosto, per tale scopo basta l'arte antica, la vera, la pura, la inimitabile. Che cosa produciamo noi oggi? Abilissime contraffazioni e le spacciamo per cose nuove. Quel po' che vi mettiamo di nuovo è un elemento estraneo all'arte, il pensiero, la riflessione; e non sappiamo o forse non possiamo più conservare una certa misura. Poco, è insufficiente pel bisogno del nostro spirito; molto, è dannoso all'arte, perchè la snatura, e non è molto a bastanza. La nostra disgrazia è di essere arrivati troppo tardi. Ciò non ostante, qualche cosa c'è ancora da fare; ma le difficoltà materiali e morali sono incredibili. Gesù ha detto che l'uomo non vive di solo pane. Ma non ha affermato che possa vivere di solo spirito. Quando rifletto che la mia opera d'arte è come non avvenuta prima che trovi un editore o uno stampatore, e che può rimanere ignorata, se l'editore non sa fare il suo mestiere e se i giornali non spingono il pubblico a comprarla, mi viene nausea di lavorare....

- Ma l'arte oggi fin milioni!

- Ah! vorrei però sapere che rimarrà di cotest'arte.

- Precisamente quel che è rimasto dell'antica; il meglio. La zavorra va sempre a fondo.

- Basta!... Questo non è discorso da congedo. Attendendo che possa mettere insieme anche io il mio milioncino, mi contenterò per ora delle cento cinquanta lire di stipendio. Per l'ufficio di riempire bollette il compenso è anche troppo.

- Perchè non hai cercato qualche cosa di meglio?

- Ho avuto un santo protettore. Anche i santi sono come le botti: dànno il vino che hanno.

Rideva, con qualche stento. Poi tornò a domandarmi:

- E tu che farai?

Neppure questa volta gli risposi. Pensavo che quel caro e valente giovane forse aveva bisogno di qualche aiuto e orgogliosamente non me lo chiedeva. Non mi aveva chiesto mai nulla, quantunque la nostra intimità fosse stata grande. Cercavo il miglior modo di fargli una profferta, senza offendere il suo amor proprio.

- Partirai subito? - gli domandai.

- Appena avrò raggranellato certa piccola somma. Vendiamo i mobili.

- Mille lire ti basterebbero?

- Chi me le ?

- Uno che ti vuol bene e che ha fiducia in te.

- Grazie!... Ma potrei mai rendertele?... Grazie!... Non le accetto. Ricaveremo dalla vendita quattro, cinquecento lire; sono sufficienti.

- Fammi fare un'opera buona; non ne ho fatta nessuna finora. Immagina che io sia un editore; ti prendo un volume, il tuo primo volume, e ti anticipo mille lire.

- E se non lo scriverò?

- Ne scriverai parecchi.

Era divenuto rosso in viso, non saprei dire se per gioia o per modestia. Non gli diedi tempo di riflettere, di ringraziarmi; dissi:

- Che farò io?... Mi sento come travolto fra le macerie di un vasto edificio improvvisamente rovinatomi addosso. Hai inteso parlare di persone vissute due o tre giorni sotto le rovine delle loro case nei grandi tremuoti? Tratte fuori miracolosamente incolumi, avevano perduto la nozione del tempo trascorso in quell'orribile stato. Tra esse e me la differenza consiste in questo: esse credevano che i giorni fossero stati ore; a me sembra che le ore siano state, non giorni, ma anni. E non so se qualcuno arriverà in tempo a sottrarmi al mio orrendo destino!

- Che ti manca?

- L'essenziale.... Non ne parliamo!

Gli fui gratissimo della sincerità del suo silenzio. Un altro, per gratitudine, non avrebbe mancato di adularmi. Bissi abbassò la testa e rispose soltanto:

- Bisogna prendere la vita com'è. Tempo fa io solevo dire: O essere alla testa del futuro movimento letterario.... o darsi un colpo di pistola! - Sciocchezze da vanitoso.... In ogni modo sarò sempre in tempo.

E questo fu pronunziato così seriamente e con tale accento, che mi sentii scorrere un brivido per le ossa, quasi egli mi avesse detto: - Tu che speri? Sei nel caso di fare come farò io, occorrendo; ma non ti basta l'animo!

Forse si avvide dell'impressione prodottami dalle sue parole e volle attenuarla.

- Ma prima ci penserò due volte, - soggiunse. - Finchè vive mia madre, ho il dovere di vivere. È per lei.... Grazie, Dario!... E se sarai editore sfortunato, ricordati che lo hai voluto tu!

Questo distacco mi lasciò più triste. E durante una settimana, assieme col senso di soffocamento sotto le macerie di un vasto edifizio crollatomi addosso, mi tenne nel solito stato di sonnambolico sbalordimento. Andavo, venivo, deliberato di dare un assesto definitivo agli affari lasciati in tronco da mio padre; ma mi sembrava di agire automaticamente per impulso esteriore di mia madre e dell'amico indicatomi da mio padre come persona di fiducia. Le questioni da risolvere non erano poche, di facile riuscita. Mia madre e il signor Bardi discutevano, deliberavano; io assentivo, perchè mi si chiedeva di dire anch'io il mio parere. Non vedevo l'ora di uscirne.

E mia madre s'illudeva; ma io ero avvilito davanti a me stesso, come se fossi venuto meno a una parola data. Mi figuravo che tutti dovessero ridermi in faccia o additarmi con scherno: - Ecco un genio fallito! - E non valeva a rendermi rassegnato il pensare che avevo accennato soltanto a mia madre l'ambizioso sogno di grandezza che ancora mi tumultuava nell'anima, quasi stentasse a dileguarsi.

Mi immergevo in letture difficili. Libri lasciati sdegnosamente da parte mi attiravano con la lusinga che dovessero ispirarmi ripugnanza. Così presi a leggere parecchi dialoghi di Platone tradotti dal Bonghi; e, invece, ne rimasi ammirato e mi vergognai di avere appena tagliato quei volumi quando mi erano stati mandati dal libraio. Inoltre, mi parve segno di maturità di mente l'essermi lasciato allettare dalle lettere di dedica fitte di pensiero, dalle introduzioni piene di tanta dottrina. Dei dialoghi avevo rispetto per sentita dire, e un po' per averne scorso qualcuno, il «Convito» e il «Fedone», più per curiosità che per altro; ora mi stupivano con la loro freschezza drammatica.

Platone mi fece ricordare del vecchio prete napoletano che mio padre mi aveva dato per professore di filosofia - era intimo amico della sua famiglia - e che allora mi era parso mente bislacca per la strana maniera d'insegnare. Era venuto, cinque o sei mesi, due volte la settimana, in casa mia, con la pipa, già ripiena di tabacco, in fondo a una delle immense tasche che gli pendevano dalla cintura sotto la zimarra. Ripeteva ogni volta ironicamente:

- La filosofia è fumo. Non le disdice la pipa.... che serve anche per allontanare qualche signora, caso mai volesse venire a disturbarci.

Intanto che l'accendeva, tra una boccata di fumo e l'altra, annunziava l'argomento della lezione. Lezione per modo di dire. Hegeliano dalla cima dei capelli fino alle ugne dei piedi, al lirismo dell'Essere e del Non - essere, inframmetteva terribili sfuriate contro il Comte, lo Stuart - Mill, il Darwin e tutti quanti i positivisti. Li attaccava violentemente, li apostrofava quasi fossero , davanti a lui; li metteva in gastigo, ginocchioni in mezzo al mio studio, col berretto di carta e le orecchie di asino su la testa. E, nello stesso tempo, diceva cose profonde, con tale chiarezza di frasi incisive, ma immaginose, da far credere che filosofia potesse pure significare: poesia. Infatti, secondo lui, la «Fenomenologia dello Spirito» del maestro era il più maraviglioso poema che l'ingegno umano abbia saputo creare.

Mi divertiva, ma non mi convinceva. E, dopo un'ora e talvolta due, di corsa a tutta briglia pel mondo delle astrattezze, pel vero mondo reale - egli diceva - mi guardava in viso ed esclamava ridendo:

- Non ne mastichiamo, è vero? Non importa. Hegel è onnipotente; è fuoco; dove tocca brucia e lascia il segno. Domani te ne avvedrai, come diceva il pievano Arlotto, quando aspergeva le sue pecorelle con l'olio invece di acqua santa. Che cosa vorresti essere? Poeta?... Ah, figliuolo mio!... Romanziere? Ah, figliuolo mio!... Drammaturgo? Ah, figliuolo mio!... Hai sbagliato secolo.

E ricaricava la pipa.

Me lo ripetè tante volte che un giorno gli risposi impertinentemente:

- E lei ha sbagliato uscio!

Ora, ripensandoci, riconoscevo quanto avesse ragione quel vecchio prete che vestiva la zimarra, portava il tricorno, ma più non diceva messa e più non recitava l'uffizio. - Domani te ne avvedrai! - Sì: il mio orgoglio, quel sogno di grandezza che mi aveva fatto e mi faceva tanto soffrire, proveniva da lui, dalle teoriche del suo Maestro fermentatemi nella mente senza che io me ne avvedessi, commiste e confuse con tante altre idee di opposta natura.

Povero vecchio! Se sapesse il gran male che mi ha recato, certamente senza sua colpa. Egli aveva trovato modo di vivere, con lo spirito, in quella che per lui era la vera realtà; e col corpo, in questa nostra misera realtà apparente. Amava il vino, la buona tavola abbondante, tutti i piaceri dei sensi, con ampia conciliazione, a cui forse serviva di tramite la pipa corta, di radica. Dalla materia, il fumo del tabacco lo trasportava via nell'ideale. È morto d'indigestione.

Lo avevo dimenticato. Quel suo ritornello: - Figliuolo mio, hai sbagliato secolo! - me lo aveva reso antipatico. E quel suo: - Domani te ne avvedrai!

Me ne avvedevo, infatti, dopo sei o sette anni; e in quali circostanze!

Ogni volta che io sognavo, mi piaceva indagare da quali impressioni recenti o remote il mio sogno fosse stato prodotto. E quando giungevo a scoprirle, la maraviglia che sentivo per la strana creazione incosciente spariva a un tratto. Quando non arrivavo a rinvenire nessun elemento del mio sogno, in guisa che esso mi appariva come qualcosa di reale, fuori di me, quasi visione di cose di un altro mondo, la maraviglia e il piacere rimanevano intatti.

Il giorno in cui si presentò alla memoria la figura del vecchio prete hegeliano, io provai la stessa delusione che pei sogni di cui giungevo a scoprire gli elementi. Rimasi stupìto accorgendomi della influenza delle sue idee su la mia vita, e sentii un acuto dolore, quasi una mano spietata ma benefica mi avesse strappato, in quel punto, un pezzo di carne viva dal cuore. E mi parve di esser tornato in pace con me stesso e con gli altri.

 

 

 


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