Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Schiaccianoci ed altri racconti
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LA NONNA

VII

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VII.

 

Aveva fatto male, lo capiva sentendosi punita dal grande strazio che provava per le cose udite: aveva fatto male a origliare dietro l'uscio del salotto quella mattina che lo zio e la zia venuti insieme, si erano rinchiusi con la nonna e avevano leticato per più di un'ora. La nonna alzava la voce, diceva le cose dure; la zia rispondeva con vivissimo accento di stizza, lo zio con voce calma ma concentrata, quasi roca. Ella non aveva afferrato tutto quel che dicevano, ma parole e frasi staccate, le peggiori frasi, perchè erano appunto quelle che venivano dette con tono più vibrato, e ad esse era intramezzato spessissimo il nome suo o quello della sua mamma; allora la nonna riprendeva gli zii: — Non la nominate, non la nominate più quella infelice! — Ah, come avrebbe baciato la nonna in quel momento!

Le era però rimasto nel cuore un senso di oppressione e di pena sapendosi odiata dallo zio e dalla zia, ai quali ella non aveva fatto niente; e rifletteva, compiangendo la povera nonnina, che per averla accolta in casa, aveva perduta la pace, la tranquillità, come aveva detto all'ultimo allo zio e alla zia quella mattina.

Per ciò quando la nonna l'accarezzava, e le parlava affettuosamente, Ada da quel giorno in poi, non sentiva più la piena dolcezza che prima le inondava il cuore. Le pareva che la nonna facesse uno sforzo nell'accarezzarla, nel rivolgerle affettuosamente la parola; e appena ella notò che la nonna aveva lasciato passare due settimane senza andare a pranzo in casa dello zio e della zia, sentì accrescere la pena che la opprimeva, e non seppe trattenersi dal dirglielo:

Nonna, dimmi una cosa.

Parla, figliolina mia!

Perchè non sei più andata a desinare dallo zio e dalla zia?

Perchè.... quando fa cattivo tempo non esco di casa.

— Ma è stato bel tempo, nonna.

— Le vecchie come me, carina mia, hanno un cattivo tempo tutto particolare; tu non puoi intenderlo.

Nonna, se non ci vai perchè non vuoi condurci me....

— Chi ti dice queste sciocchezze?

— Nessuno; le penso io da me.

— E pensi male, bambina mia.

— Io resterei volentieri in casa, con Giovanna....

— E anch'io resto più volentieri in casa mia. Non si mangia bene noi due soli a tavola?

— Sì; ma prima tu invitavi qualcuno dei cugini o parecchi....

— Non vengono, e perciò non li invito.

Perchè non vengono?

— Forse.... perchè si annoiano con una vecchia come me.

— Non vengono.... perchè ci sono io. Che gli ho fatto di male io, nonnina mia!

Zitta, non piangere. Non voglio più sentirti dire queste brutte cose. I tuoi cugini verranno domani e resteranno tutti a pranzo con noi. Sei contenta ora?

— Oh, tanto, nonna! —

Dal contegno dei cugini, Ada comprese che avevano loro insegnata una lezione e che la recitavano fedelmente. Chi non recitava affatto era Matilde, e con lei Ada s'abbandonava tutta intera. Con gli altri — e ne soffrivasentiva di recitare anche lei, facendo il chiasso senza entusiasmo, compiacendoli freddamente. La nonna intanto era lieta di quelle pace apparente. Stava a sorvegliare i giuochi, raccontava qualche fiaba, mostrava le incisioni dei bei libri del nonno, uccelli, insetti, mammiferi, vedute di città e di marine: faceva ammirare gingilli antichi, belle stoffe vecchie e prometteva di regalare questo e quell'oggetto ora a uno ora a un altro quando sarebbero stati grandi e se sarebbero stati sempre buoni.

Il giorno dopo, la nonna aveva condotto Ada a pranzo in casa dello zio, e Gabriele non si era mostrato sgarbato con lei, anzi egli e Gina le avevano fatto vedere tutti i loro balocchi.

— Ne hai altrettanti anche tu?

— No.

— Noi ne abbiamo già rotti assai più di questi!

Perchè?

— Per gusto! — rispose Gina.

E in casa della zia, Riccardo e Lalla fecero la stessa cosa.

— Tutti questi sono regali della nonna! —

Pareva che Lalla, così parlando volesse farle intendere che lei, Ada, non doveva attendersi di esser trattata allo stesso modo.

Matilde, invece, non sapeva che fare per dimostrarle la gioia che sentiva vedendola nella sua cameretta.

— Questi sono i libri degli anni scorsi; ora non li adopro più, ma li conservo per ricordo. E conservo pure tutti i quaderni dei cómpiti. Vuoi questo santino? È bello; me l'ha regalato la maestra.

Grazie; perchè privartene? — rispose Ada.

— Mi fa piacere vederlo in mano tua.

— Questo mobilino ti piace?

— Sì.

— È giapponese. Come sono carini i cassetti! L'ho comprato io, coi denari d'una strenna. Te lo do.

— No, è troppo; grazie. —

Matildè l'aveva forzata ad accettarlo; ma poco dopo Ada si era pentita di averlo accettato, perchè Lalla vedendoglielo in mano, aveva rimproverato la sorella:

Gattamortaccia! A me non hai voluto mai darlo! —

Glielo avrebbe dato lei, se Matilde non si fosse opposta.

Così, durante un paio di mesi, la povera nonna credette di aver ripreso, e per sempre, il solito tranquillo tenore di vita da lei menata da che il figlio e la figlia erano usciti di casa sua per formare due famiglie a parte. Di tanto in tanto le balenava nella mente il sospetto che le ostilità degli zii e dei cugini contro la sua orfanella covassero sotto la cenere, pronte a scoppiare in fiamma alla prima occasione; ne coglieva gl'indizii in una parola, in un atto ora del figlio, ora della figlia, ora della nuora o del genero, e stava all'erta. Poi, vedendo che non accadeva niente di quel che aveva sospettato, si rimproverava di non aver fiducia nella bontà altrui, e colmava di carezze, di premure, di attenzioni la sua creaturina, come ora la chiamava. Quella bambina le dava l'illusione d'una specie di maternità tardiva, le metteva nel cuore una tenerezza soavissima, intensa, quasi la sua sventurata figliola morta le fosse tornata in casa sotto quelle sembianze, quantunque, in verità, la bambina somigliasse più al babbo che alla manna. Di questa aveva soltanto certe inflessioni di voce e certi gesti caratteristici, ma essi bastavano perchè la nonna si sentisse inumidire gli occhi ogni volta che la voce di Ada prendeva quelle inflessioni, ogni volta che con la testa e con la mano destra faceva quei tali gesti, pei quali la figlia morta pareva le risuscitasse tutt'a un tratto, di nuovo bambina, dinanzi.

Anche Ada cominciava a rassicurarsi. Cresceva a occhiate, riprendeva un po' di colorito nelle guance; la calma interiore le si estendeva per tutta la persona graziosa e gentile.

Il vestitino nero di mesi addietro le diveniva corto di giorno in giorno; la nonna lo notava con piacere. Notava anche con maggior piacere i progressi che la bambina faceva in iscuola, e l'assennatezza e l'attenzione ognora crescente, con cui attendeva alle faccenduole di casa affidate a lei.

Ora la padroncina sei tu — le diceva la nonna. — Devi badare tu a ogni cosa; risparmiare la povera nonna che invecchia ogni giorno più, e si stanca sùbito e si sente confondere la testa quando ha troppo da fare.

— Sì, nonna; insegnami, io farò tutto. —

Aveva cura però di smettere la sua aria seria seria di padroncina di casa, appena arrivavano i cugini: se ne stava un po' da parte, per non dar ombra. E Gabriele, Gina, Riecardo e Lalla ne approfittavano, facevano da veri padroni loro, comandavano loro nei giorni di vacanza che venivano a passare dalla nonna. A lei bastavano l'affetto e la compagnia di Matilde. Si ritiravano assieme nella cameretta di Ada, guardavano i giornali di mode per osservare sopratutto i disegni da ricamo e imitarli. Matilde era bravina in questo genere di lavorini, ed Ada li amava appassionatamente. Qualche volta irrompevano nella cameretta tutti gli altri cugini per curiosità di vedere quel che esse facevano e un po' pel gusto di disturbarle, e Gabriele frugava qua e fra i libri e i quaderni di Ada, nei cassetti, nei cestini.

— Non disordinare ogni cosa, sciattone! — lo rimproverava Matilde.

Ma Ada indulgente, soggiungeva sùbito:

Lascialo fare; riordinerò io, dopo.

Andiamo via! — diceva allora Gabriele. — Questo è il santuario, il tabernacolo; non ci deve entrare altri che loro! —

E vedendolo andar via imbroncito, Ada proponeva sùbito a Matilde:

— Vieni; facciamo un po' di chiasso con loro. —

Un giorno, prima di andare a tavola, la nonna entrò nello stanzone dove i nipotini facevano il diavolo a quattro, rincorrendosi da un angolo all'altro. Al suo apparire, tutti le corsero incontro, le si affollarono attorno. La nonna li guardava ad uno ad uno in faccia, quasi cercasse d'indovinare qualcosa dal solo aspetto.

— Chi è stato il ghiottone o la ghiottona? — poi domandò.

Silenzio. La nonna continuò a scrutarli con lo sguardo, tra seria e sorridente, e ripetè la domanda:

— Chi è stato il ghiottone o la ghiottona? —

Dalla credenza, in sala da pranzo, mancavano tre pasticcini. Poco prima la nonna li aveva contati nel vassoio ed erano dieci; ora ve n'erano soli sette.

— Chi è stato il ghiotto o la ghiotta, si accusidisse la nonna — Non lo domando per castigare qualcuno, ma per sapere la verità. —

Tutti giurarono e rigiurarono.

Allora la nonna prese a interrogarli a uno a uno, fissandoli bene negli occhi, dicendo che avrebbe scoperto la bugia su la punta del naso di chi si ostinava a dirla.

La nonna ebbe un bel mettersi gli occhiali per esaminare i nasini che dovevano rivelarle la verità. Quella volta i nasini non dissero niente. Soltanto Ada le parve un istante un po' turbata; ma la sua risposta fu così franca e così recisa, che la nonna non insistette, e non sospettò di lei.

Intanto, siccome i pasticcini non se li erano certamente mangiati gli angioli, così la nonna per gastigare l'ingordo o l'ingorda che non aveva voluto confessare la sua colpa, gastigò tutti a tavola, mandando i pasticcini in regalo ai bambini della portinaia.

E da quel giorno in poi accadde lo strano fenomeno, che a ogni visita dei nipotini qualcosa mancasse; un gingillo, un pezzo di stoffa, un paio di forbicine molto care alla nonna. Chi li aveva presi? Nessuno. Tutti giuravano e rigiuravano di essere innocenti di quelle sparizioni inesplicabili e delle quali la nonna non riusciva a saper niente, per quanto osservasse i nasini dei sospettati colpevoli, per quanto minacciasse di non voler più bene a colui o a colei che un giorno o l'altro fosse stato scoperto autore o autrice di quella indegnità.

Appena i cuginetti andavano via, Ada si metteva a ricercare da per tutto l'oggetto smarrito.

— È incredibile! — esclamava la nonna. — Non è mai accaduto in casa mia che sparisca qualcosa e non si fosse ritrovata sùbito. —

Matilde non sapeva che pensare della coincidenza d'ogni sparizione con la venuta di loro nipotini in casa della nonna. E la domenica e il giovedì, appena arrivava assieme con gli altri, domandava alla nonna:

Nonna, hai trovato?

La nonna scrollava la testa in segno negativo.

Allora Matilde tirava in disparte Ada:

— Hai cercato bene? Dappertutto?

Figùrati!...

— E non hai trovato niente?

— Niente. —

Quell'impertinentino di Gabriele, arrivando, esclamava:

Nonna, vedremo che cosa sparisce oggi! —

E pareva la canzonasse.

La nonna che era sempre stata regolatissima, precisa, e che teneva molto alle sue abitudini, soffriva veramente della sparizione delle forbicine, ricordo di quando era ragazza; per poco non lo credette un mal augurio. Quelle forbicine le avevano servito per tanti anni; in tutti i lavorini fatti prima pei propri figli, poi pei nipotini. Le pareva quasi che ora non avrebbe saputo lavorar più, quel po' che poteva lavorare, senza vederle luccicare nel cestino e ammirarle con gli occhietti. Erano sottili, acute, di fabbrica inglese; ne aveva raccontato vita e miracoli a Ada proprio il giorno avanti della loro sparizione. E per ciò diceva spesso alla nipotina:

— Almeno vorrei ritrovare le forbicine! Delle altre cose non m'importa! —

Una mattina, appunto ripetendo questa parola, le era parso di scorgere su la faccia e nelle mosse di Ada una lieve ombra di imbarazzo. Chi sa? Una tentazione di bambina! Era possibile. E le domandò a bruciapelo: —

Via, Ada, dimmelo pure, se le hai prese tu le forbicine.

— Oh, nonna!... Oh, nonna! —

La bambina spalancava in viso gli occhi pieni di lagrime e si torceva le manine con tal gesto di desolazione che la nonna non insistette, pentita del sospetto, addolorata di aver offeso quella sua povera creatura, alla quale si sentiva legare ogni giorno più da un sentimento di pietà materna affatto nuovo pel suo cuore.

 


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