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Ah, quel Poldo! Ne faceva di tutti i colori.
Il suo più gran divertimento però era di metter paura alle sorelline e al fratellino minore.
Un giorno si era nascosto sotto un mobile ed era stato lì acquattato, un bel pezzo, finchè essi non vennero in quella stanza dove solevano fare il chiasso, e che sembrava un arsenaletto di giocattoli. I suoi, Poldo li teneva ammucchiati in un angolo e nessuno doveva toccarli.
Le bambine e il fratellino minore erano entrati senza diffidenza, lieti che Poldo non fosse lì a disturbarli, a contrariarli, a farli arrabbiare.
Per cautela avevano messo il segreto all'uscio: poi, schierate le bambole su le seggiole, parte ritte, parte a sedere, parte sdraiate su i lettucci, avevano dato principio al gioco delle visite, del medico, delle passeggiate in carrozza, dei viaggi in ferrovia, per cui Renzo prendeva l'ufficio di cocchiere o di capostazione.
Quando i viaggiatori e le viaggiatrici di cencio arrivavano a Napoli, a Firenze, a Milano, a Parigi, cioè a una delle seggiole destinate a rappresentare queste città, le sorelline diventavano albergatrici e Renzo si tramutava in trattore; giacchè le bambole e i pulcinella e gli arlecchini sentivano sùbito, appena scesi di vettura, grandissimo appetito.
E le tavole erano imbandite, su altre seggiole o sul tavolinetto di centro, non importava se troppo lontane dalla città; l'immaginazione che creava tutto, abbreviava anche le distanze; e i viaggiatori che passavano da Napoli a Firenze, facendo il giro della stanza due o tre volte, non stavano a badare che sarebbero potuti arrivare più presto, e che poi dalla seggiola Firenze, mettiamo, alla trattoria c'era una distanza maggiore che non fra le due seggiole città.
Poldo li aveva lasciati fare, aspettando che Ninetta, Elsa e Renzo, incoraggiate dell'assenza di lui, si servissero anche dei suoi giocattoli, come egli sospettava che avvenisse quando non era presente.
Sì, qualche volta se n'erano giovati, quantunque Poldo li avesse minacciati di guastargli i loro, se si fosse accorto della trasgressione del divieto; ma quel giorno non ci pensavano neppure; erano troppo occupati con le bambole coi pulcinella e gli arlecchini propri e con mezzo esercito di soldatini. Perciò Poldo, seccato del lungo attendere, visto che i bambini erano in grandi faccende pel pranzo dei viaggiatori nell'angolo opposto della stanza, e che il rumore delle loro voci avrebbe impedito di scoprir sùbito la sua burla, messe le mani attorno alla bocca, aveva mandato fuori un urlaccio cupo cupo.
Il terrore dei bambini era stato grande, e più grandi gli strilli!
— Oh, Dio!
— Qualcuno ha urlato dalla via.
— Pareva che fosse proprio qui dentro! —
E si erano rasserenati, e avevano ripreso a giocare.
Questa volta gli strilli erano stati tali, che la mamma aveva dovuto accorrere dal suo salottino, spaventata:
— Aprite! —
Nessuno si voleva muovere dal vano della finestra, per andare a togliere il segreto che impediva alla mamma di entrare.
Poldo, sotto il divano si contorceva dalle risa. E faceva di nuovo:
Guardando verso la direzione d'onde quel grido veniva, Elsa aveva visto due piedi non bene nascosti e li aveva riconosciuti.
— È Poldo! —
Ninetta corse ad aprire l'uscio.
Ma quantunque già sapessero che si trattava d'un cattivo scherzo del fratello e fosse con loro la mamma a rassicurarli, i bambini non erano meno pallidi e meno tremanti di prima.
Udendo la voce della mamma, Poldo si era tirato indietro, facendosi piccino piccino. E la mamma per gastigarlo come si meritava, aveva detto:
— Poldo? Non può essere. L'ho visto di là. Sarà il canino. —
E andata a prendere una catinella, aveva cominciato a buttar acqua con la mano sotto il mobile. Poldo aveva resistito un pochino, coprendosi la faccia; ma gli spruzzi non cessavano, anzi incalzavano più copiosi, più violenti.
Le bambine e Renzo, fatti arditi, si erano chinati a guardare!
La paura era passata; e ridevano, battevano le mani, aiutando la mamma a spruzzare acqua fino a che Poldo non si decise di gridare
— Basta! Sono io! —
E dovette venir fuori tutto grondante, coi capelli appiccicati sul viso, conciato dalla testa ai piedi, e chieder scusa in quello stato e andar sùbito a spogliarsi e a mettersi a letto senza desinare e senza andar la sera al teatro con le sorelline e col fratellino.
Pure egli non aveva perduto il cattivo vezzo; e parecchi mesi dopo aveva pensato e preparato una bella burla dello stesso genere, che gli era costata molta fatica.
Era rimasto in città solo col babbo; la mamma, le sorelline e il fratellino erano andati per otto giorni dalla nonna in campagna. Il babbo, troppo occupato dagli affari, non poteva badare a lui; e lo lasciava in casa con la cameriera e il servitore. Poldo, nei primi giorni di solitudine, si era strizzato il cervello per combinare una burla da far paura alle sorelline e al fratellino appena fossero tornati dalla campagna.
Pensa e ripensa, finalmente aveva trovato; e con che salti e risa si era applaudito da sè, godendo anticipatamente dell'effetto da produrre!
Perchè nessuno se ne accorgesse, aveva scelto il salotto che serviva nelle grandi occasioni, in certe serate che radunavano lì molta gente, e dove ordinariamente si entrava di rado. Aveva trasportato lì uno di quegli arnesi di vimini che servivano a reggere gli abiti della mamma. Dall'armadio aveva tolto una vecchia veste da amazzone, e ve l'aveva adattata su un cinto di pelle alla vita, poi aveva foggiata con cenci una testa, e vi aveva attaccato una maschera, e su la testa, aveva messo un cappellino.
Quando il fantoccio era stato bell'e pronto, lo aveva tirato tra le cortine dell'uscio, aveva riempito di cenci le braccia dell'abito e li aveva appuntati alle cortine, in guisa che il fantoccio pareva proprio una persona che stesse per entrare. Con le finestre socchiuse, nella penombra, l'illusione era perfetta; in certi momenti, stando ad ammirare l'opera propria, Poldo non si era potuto difendere, lui stesso, da un lieve senso di paura.
Quando Ninetta, Elsa e Renzo sarebbero tornati dalla campagna, con un pretesto, egli li avrebbe mandati là.... Ah, che spavento e che strilli dovevano essere! Ed egli poteva dir benissimo che non lo aveva fatto a posta, ma che s'era soltanto divertito a foggiare quel fantoccio mentr'era solo e che aveva dimenticato di guastarlo.
Per disgrazia, Elsa si era ammalata in campagna, e il babbo aveva condotto anche Poldo laggiù, durante le vacanze di Pasqua. La villeggiatura s'era prolungata di qualche settimana finchè la convalescenza non era stata tale da permettere il ritorno in città. E durante gli svaghi della campagna, tra le caccie ai grilli, alle farfalle, alle rannocchie del pantano, e tra cento altri divertimenti di passeggiate, di visite, Poldo aveva davvero dimenticato il pauroso tranello preparato in città.
Tornando, tutti i suoi pensieri erano rivolti a una nidiata di cingallegre, scoperta e presa da lui in un buco delle mura del pollaio e che egli si proponeva di addomesticare e ammaestrare così bene, da sbalordire la gente.
Ma giunto quel giorno, poche ore dopo l'arrivo, la mamma gli ordina di andare a prenderle un oggetto che si trovava appunto nel salotto in fondo.
Poldo, intento a imbeccare le cingallegre, obbedisce a malincuore e per far più presto, va di corsa, con la mente alle cingallegre.
La signora Paoletti udì poco dopo uno strillo prolungato e grida e pianti.
Era Poldo, che alla vista del suo fantoccio, di cui non si ricordava più, aveva avuto tale spavento, ch'era caduto per terra in convulsioni.
Accorrendo, avevano avuto un po' di paura tutti, la signora, la cameriera, i bambini. Chi s'aspettava di trovare là quella figura, che pareva proprio viva, con le braccia appoggiate alle tende, in amazzone e cappellino?
Così Poldo era stato più di otto giorni a letto, con febbri e delirio; e quando aveva potuto rammentarsi, aveva sùbito confessato ogni cosa, chiedendo perdono alla mamma e a tutti.
Aveva appreso a proprie spese quanto sia pericoloso far certe burle, che poi non sono burle, perchè possono produrre gravi conseguenze.
— Me la son meritata! — soleva dire ricordando.