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Col cencetto nero del lutto che la massaia gli aveva messo attorno al collo della camicia, con lo sbalordimento che gli si leggeva ancora negli occhi e in tutta l'aria della persona parecchi giorni dopo la disgrazia, Scurpiddu non sembrava più lui.
Tutte le mattine andava via coi tacchini e con Paola; ma arrivato nel luogo del pascolo, si sdraiava per terra quasi sentisse una stanchezza interiore, un senso di abbandono. Non pensava a niente di preciso. Strappava a filo a filo le erbucce a portata di mano, ne osservava le foglioline, i fiorellini, gli steli, ma senza curiosità, così, per fare qualche cosa, per distrarsi, pareva. Non prestava attenzione a nulla; buttava via un filo d'erba, ne strappava un altro, poi un altro: certe volte stritolava le foglie delle erbe con due dita, ne faceva pallottoline, le lanciava per aria, e rimaneva assorto.
Paola veniva a posàrglisi addosso, lo stuzzicava col becco, volava via, tornava, si allontanava con lunghe volate. Egli la lasciava fare, indifferente la seguiva con lo sguardo, e all'ultimo la richiamava per lisciarle le piume, con carezze lente, quasi svogliate. E durante quella specie di dormiveglia che lo teneva sdraiato là su l'erba, a intervalli, gli riappariva davanti agli occhi la triste scena di quel cataletto con su la cassa della morta, portato via da quegli uomini, e dietro, a cavallo di due mule, il prete e il sagrestano... La sua povera mamma, che se n'andava, come se n'era andata una volta, ma questa volta per sempre!... Gli pareva di sognare.
E gli pareva anche, di giorno in giorno, che quella visione si allontanasse e stesse per dileguarsi. E si sentiva di nuovo solo solo, rassegnato alla sua sorte, proprio come due anni addietro, quando da Palagonìa aveva preso la strada delle colline senza sapere dove andasse e perché andasse, e massaio Turi lo aveva incontrato sul ciglione dell'Arcura e gli aveva detto:
Infatti, una mattina, lo zi' Girolamo che menava i buoi al beveratorio, udendo il Tiù! Tiù! di uno zùfolo lassù tra i mandorli di Rossignolo, sorrise scotendo la testa:
- Scurpiddu riprende a sonare. Così è la vita! I morti se ne vanno, e chi resta deve pensare ai fatti suoi.
E i fatti suoi per Scurpiddu erano gli otto pulcini che venivano su vispi e grassi e si erano già rivestiti di piume. A governarli per ora pensava la massaia, con farina di ceci abbrustoliti intrisa con l'acqua, e foglie di lattuga e prezzemolo tagliuzzate finemente.
- Come sono cresciuti! Quasi si confondono con quelli dell'altra covata.
- Non dubitare, - rispose la massaia ridendo. - Metteremo loro il segno per distinguerli.
E soggiunse:
- Sei fortunato! Guarda: due dei miei hanno il torcicollo, e sarà difficile che càmpino.
I due pulcini, quasi avessero il capogiro, roteavano su sé stessi, col collo contorto e la testa per aria.
- Paiono ubbriachi! - disse Scurpiddu.
I suoi, che tra le piume avevano ancora un po' di lanugine, diluviavano come tanti affamati. Erano tre maschi e cinque femmine. Li osservava amorosamente mentre mangiavano attorno al piatto insieme con gli altri. E se uno di essi faceva il prepotente per allontanare dal posto qualcuno dell'altra covata, dando colpi di becco a destra e a sinistra, Scurpiddu rideva:
- Vorrebbe ingoiarsi tutto lui!
Per distinguere le covate e far contento Scurpiddu, la massaia aveva cucito a uno stinco di tutti i pulcini di lui un pezzetto di stoffa a colore. Ora soltanto egli li reputava proprio cosa sua: e gli sapeva mill'anni di vederli cresciuti da poterli condurre in branco con gli altri a pascolare pel prato, su le alture, e addestrarli a marciare.
E ruminava lunghi càlcoli. Le femmine avrebbero poi fatto le uova: egli avrebbe messo una, due covate... Ed eccolo con un branco di tacchini di sua proprietà!
- Solamente...
E si arrestava confuso pensando che non aveva terreni dove condurli a pascolare, né pollaio dove accovacciarli.
- Vah! Ne venderò un paio e dirò a massaio Turi: - Pago l'affitto del pascolo e del pollaio... dieci lire, quindici, quanto volete!
Si sentiva le tasche ripiene di soldi e spendeva e spandeva come un riccone. - Dieci...Quindici lire! Quanto volete?
In quel momento però tutta la sua ricchezza erano i dieci soldi regalàtigli dagli amici. Involtàtili in un pezzetto di carta, li aveva nascosti in un buco della parete del suo stambugio, e se n'era scordato. Facendo e rifacendo quei suoi càlcoli, gli erano tornati in mente, e mèssili nella tasca, li portava con sé, sempre avvolti con la carta. In quella tasca, oltre allo zùfolo e al coltellino col manico di ferro, Scurpiddu teneva risposti una scatoletta di latta da fiammiferi, trovata mesi addietro per terra vicino al beveratoio; refe, spago, ritagli di stoffe, e una ventina di conchiglie scavate in un sedimento di terreno argilloso dell'Arcura, di forme diverse e di varia grandezza.
Nei momenti in cui non sapeva che fare, si era messo a cavarle fuori col coltellino e a ripulirle.
Parecchie di esse, simili a un cornino, le aveva regalate al Soldato perché se ne servisse da bocchini pel sigaro; parevano fatte a posta per questo. Quelle a foggia di lumaca, con bizzarri disegni, con giri dentellati, con sporgenze acute come spine, e l'interno iridato, quasi di madreperla, le conservava, senza scopo, unicamente perché erano cosettine bizzarre.
Aveva trovato una volta, a fior di terra, anche due monete antiche, due soldi vecchi, egli diceva. Ma avendole mostrate a Don Pietro, questi gli disse:
- Che te ne fai? Dàmmele. E Scurpiddu gliele diede. Il Soldato e gli altri contadini, mentre Don Pietro celebrava la messa, si erano divertiti a far credere a Scurpiddu che quelle monete valevano per lo meno dieci lire l'una, e che il prete sarebbe andato a venderle in Catania, dove quelle cose del tempo dei Saraceni erano apprezzate e ricercate; e dicendo del tempo dei Saraceni intendevano parlare d'una grande antichità.
Scurpiddu alzava le spalle, voleva mostrare di non credere a quel che gli soffiavano nell'orecchio; intanto si pentiva del regalo fatto, e si maravigliava che un prete che celebrava la messa fosse ladro! Lui che sapeva di poter vendere dieci lire l'una quelle monete, non avrebbe dovuto dirgli: - Che te ne fai? Dàmmele. - E quando il prete dall'altare si voltava per ripetere, aprendo le braccia: - Dominus vobiscum – Scurpiddu brontolò dentro di sé:
- Dovreste ridarmi le monete piuttosto!
Dopo la messa, si era aggirato attorno al prete, per trovar l'occasione di dirglielo, aspettando anzi che Don Pietro lo avesse capito anche senza che lui gliel'accennasse. Ma Don Pietro sorbiva lentamente il caffè rimasto nella tazza in cui aveva intinto i biscotti preparàtagli dalla massaia, e di tutto parlava fuorché delle monete.
- Dobbiamo pensare alla cresima di questo ragazzo, massaia.
- Ora che viene il nuovo vescovo, sissignore.
- E poi alla confessione e alla prima comunione.
- Ha tanti peccatacci addosso! È vero, Scurpiddu?
- Io? Che peccati, massaia? Esclamò Scurpiddu stupito.
- Vieni qua, - disse Don Pietro. – Lo sai tu cosa sono i peccati?
- Primo: dire bugie – continuava Don Pietro - Secondo: rubare, prendere di nascosto roba non sua..., capisci? Bisogna renderla, se no, c'è l'inferno che ci inghiotte.
- E dunque... - disse Scurpiddu, esitando. - Dice il Soldato che valgono dieci lire l'una. Sono mie le ho trovate io!
Don Pietro e la massaia scoppiarono a ridere.
- Anche più di dieci lire l'una! - soggiunse Don Pietro, scherzando. - Ma io non te le ho prese le monete; me le hai regalate.
- Io? - protestò Scurpiddu. - Sono mie; le ho trovate io!
E l'intonazione voleva significare:
- Rendètemele!
All'ultimo, vedendolo quasi con le lagrime agli occhi, Don Pietro aveva dovuto rendèrgliele; e per ciò si trovavano insieme con gli altri oggetti e coi dieci soldi in fondo della tasca.
Quando se la metteva a tracolla, col pane e il companàtico della colazione, prima di condur via i tacchini, spesso il Soldato tentava di frugargliela.
- Vediamo il tesoro, Scurpiddu!
E siccome il ragazzo si scansava, stizzito, il Soldato gli ripeteva, sapendo di farlo arrabbiare:
- Ora che è proprietario, Scurpiddu non dà confidenza a nessuno!... Ehi!... Proprietario!