Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Verga e D'Annunzio
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I. SCRITTI VERGHIANI

I MALAVOGLIA

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I MALAVOGLIA3

Scritti in francese, a quest'ora I Malavoglia avrebbero reso celebre il nome dell'autore anche in Europa, e toccherebbero, per lo meno, la ventesima edizione. In Italia, intanto, pare che pochi se n'accorgano o vogliano mostrare d'essersene accorti. Ecco, per esempio, io dubito molto che il De Sanctis voglia indursi a fare pei Malavoglia quello che osò per l'Assommoir dello Zola. Eppure mi sembra che pochi dei nostri libri moderni siano meritevoli quanto I Malavoglia che l'acuta analisi del critico napoletano s'eserciti a farne risaltare le bellezze di prim'ordine, profuse con larghezza di gran signore in quelle quattrocento e piú pagine. Il caso non deve sorprenderci. Parecchie ragioni lo producono, e non è inutile cercarle.

Primieramente, l'autore ch'esce quasi all'improvviso dalla sua maniera. Dopo l'Eva, dopo l'Eros, dopo Tigre reale, i lettori del Verga s'erano abituati a quei suoi personaggi del gran mondo, dalle passioni raffinate, dipinti con colori caldissimi, con pennellate nervose, figure nuotanti in un'atmosfera smagliante di luce, le quali seducevano per un cotal partito di crudezze di toni, di mezze tinte, di sfumature che somigliava molto da vicino al fare un po' vaporoso d'Ottavio Feuillet. È vero che un giorno era venuta fuori la Nedda, viva viva, con tutta la rozza realtà della campagna siciliana, con quell'asino che interrompeva un colloquio d'amore fra i castagni dell'Etna; ma pare ch'essa fosse riuscita piccante piú per la novità del soggetto che per il fino magistero dell'arte con cui la natura scoppiava fuori immediata e potente dalle poche pagine della novella.

Infatti, quando il Verga tornò, bene ispirato, a soggetti consimili; quando, come per esercitarsi la mano pel gran quadro, schizzò quei suoi stupendi bozzetti della Vita dei campi, il nostro pubblico non fece al volume l'accoglienza festosa che c'era d'aspettarsi. Il Verga non aveva mai scritto nulla di cosí magistrale come La lupa, Jeli il pastore, Rosso Malpelo. Ma si vede che il grosso del pubblico vi cercava tutt'altro che la sincera evidenza della realtà, e assuefatto a manicaretti pepati di rettorica e di romanticismo, non riusciva a gustare quella semplicità quasi nuda. I lettori si trovavano faccia a faccia colla natura; invece pare amassero meglio vederla a traverso la simpatica personalità dell'autore, con tutti i fiori, i fronzoli e il ciarpame delle forme invecchiate; e si sentivano messi fuori strada.

A proposito di forme, c'era anche la novità di quella che il Verga s'era creduto obbligato d'usare, perché il difficile strumento di questa diabolica lingua italiana che ci tiene, tutti, impacciati, potesse rendere limpidissimamente, con la piú assoluta trasparenza che l'arte della parola consenta, le piú minute particolarità del suo soggetto siciliano. E la felice intuizione d'artista con cui il Verga colava la lingua comune e il dialetto isolano in un cavo straordinariamente lavorato, come disse d'aver voluto fare lo Zola colla lingua francese e il gergo popolare parigino nell'Assommoir, rompeva a un tratto tutte le nostre tradizioni letterarie impastate, anzi che no, di pedanteria, tenaci, piú di quello che paia, anche nei meglio disposti verso le utili e necessarie novità e le arditezze ben riuscite.

Occorrerebbe assai meno di tutto questo per ispiegare facilmente l'accoglienza freddina che ora ricevono I Malavoglia, benché non ci sia neppure da far confronti fra il valore artistico d'essi, e quello di tutti i precedenti lavori del medesimo autore. Ma il ghiaccio si romperà; può prevedersi con sicurezza e senza aver l'aria di voler essere per questo un gran profeta.

Forse sarebbe troppo strano che accadesse diversamente di quel che accade. Il romanzo, da noi, è una pianta che bisogna ancora acclimare. Non ha tradizioni, nasce appena, quando è già grande e glorioso altrove, in Francia e in Inghilterra. In Francia, specialmente, si può seguire passo a passo tutto lo svolgimento di questa modernissima forma dell'arte che ha un colosso, il Balzac, tra i suoi cultori, uno di quei genii che fanno fare all'arte i passi del Giove antico. In Italia, quando avremo nominato i Promessi Sposi, non potremo citare che degli scarsi tentativi lodevoli, forse, meglio per le buone intenzioni che per altro. Anzi gli stessi Promessi Sposi s'abbarbicano soltanto con poche radici nel suolo dell'arte moderna; piú per una meravigliosa esecuzione delle parti secondarie, che per tutto l'insieme. Il quale s'attacca a Walter Scott, secondo una naturalissima necessità di circostanze che nessun ingegno, per grande che sia, potrà vincere mai intieramente.

Questa miseria non impedisce intanto a certi critici di domandare ai nostri scrittori il romanzo schiettamente italiano, senza influenzefrancesi, né inglesi, né d'altra qualsivoglia nazionalità; quasi le forme dell'arte siano una capricciosa creazione dell'individualità degli autori, quasi fosse possibile non tener calcolo di tutti gli svolgimenti che una forma artistica ha subito presso letterature piú precoci o piú fortunate dalla nostra. Certamente è un problema interessantissimo quello che offre la letteratura italiana rispetto al romanzo. Quando troviamo, alle sue origini, il portento del Decamerone, dove tutti i germi dell'arte moderna son già sul punto di aprirsi, non si capisce perché poi quei germi sian rimasti cosí infecondi e perché bisogna fare il gran salto di parecchi secoli per arrivare al Manzoni. Prese una diecina di novelle del Decamerone alle mani, potremmo trovare dei meravigliosi riscontri col Balzac, col Flaubert, collo Zola, tenuto il debito conto della differenza tra un organismo incipiente e un organismo quasi arrivato al suo completo sviluppo. Eppure la novella moderna e il romanzo, cominciano soltanto ora ad attecchire in Italia. E se non vogliamo rifare il già fatto (un'operazione assurda in arte e in ogni altra cosa) ci tocca, per forza, di cominciare dal punto dove questa forma d'arte è oggi arrivata altrove, e adottarne tutti i mezzi per adoperarli, s'intende, su materia nostra e per farla progredire, se n'abbiamo la forza.

Ma le difficoltà sono immense. E certamente non servono a levarle di mezzo i giudizii strambi a proposito dei tentativi che gli scrittori italiani van facendo da una diecina di anni in qua. Ad essi, per contentare certi critici, anche la materia riesce ribelle. I popoli moderni han perduto, in gran parte, il loro vecchio carattere particolare. L'italiano, il francese, l'inglese, il tedesco di certe classi sociali si può anzi dire non esistano piú. La aristocrazia e la borghesia oramai non sono di questa o di quella nazionalità, ma europee. Molti angoli sono smussati; molte differenze, specialmente interiori, furono scancellate affatto; e quelle che ancora rimangono son cosí impercettibili che bisogna armarsi d'una lente d'ingrandimento per riuscire a distinguerle. Talché non è solamente la forma straniera (e dico straniera per modo di dire, l'arte non avendo patria), ma è anche la materia italiana, cosí poco diversa dalla francese, dall'inglese, dalla tedesca, quella che impaccia i nostri passi e ci fa apparire piú imitatori di quanto noi non siamo in realtà. Eppure si sa che nessun autore, neppure i genii, cascano belli e formati dalle nuvole, senza procedere da qualcuno che gli ha preceduti; si sa che la generazione spontanea non è ancora provata in arte piú che non sia provata nella natura. E, pel romanzo, non si tratta d'un organismo elementare o protozoo letterario, ma d'un organismo completo che oggimai si riproduce per fecondazione diretta e trasmette in eredità i suoi caratteri speciali, perfezionandoli, adattandoli, ma non mutandoli a capriccio di questo o di quello.

Il Balzac, il gran padre del romanzo moderno, ha i suoi predecessori ai quali sta, forse, meno attaccato che i suoi successori non istiano a lui. Il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola che hanno fatto e che fanno altro se non svolger meglio, ridurre a maggior perfezione quelle parti della forma del romanzo rimaste nella Comédie humaine in uno stato incipiente o imperfetto? Il naturalismo, i famosi documenti umani non sono una trovata dello Zola. Bisogna non aver letto la prefazione del Balzac al suo immenso monumento per credere che il trasportare nel romanzo il metodo della storia naturale sia una novità strana e pericolosa. Senza dubbio l'elemento scientifico s'infiltra nel romanzo contemporaneo e lo trasforma piú pesantemente, con piú coscienza, nei lavori del Flaubert, dei De Goncourt e dello Zola; ma la vera novità non istà in questo. Né stà nella pretesa di un romanzo sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera arditamente, a sonori colpi di grancassa, per attirar la folla che altrimenti passerebbe via, senza fermarsi, com'egli confessava francamente al De Amicis. Un'opera d'arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria maniera, secondo la sua natura d'opera d'arte. Se il romanzo non dovesse far altro che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparata in azione, come il Berquin faceva una volta della morale in azione, il guadagno non sarebbe né grandebello. Il positivismo, il naturalismo esercitano una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma, e tal'influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest'opera d'arte. Tutto il resto, per l'arte, è una cosa molto secondaria, e dovrebbe esser tale anche nei giudizii che si pronunziano intorno ai lavori rappresentanti, piú o meno efficaci, della nuova formola artistica.

Nel romanzo è accaduto quello che il Vacquerie scriveva tempo fa pel teatro: «De siècle en siècle, le poète a émancipé l'action. Ce n'est pas le premier jour qu'il a osé la quitter; il a fallu qu'elle grandît et que le public grandît avec elle, qu'elle parlât et que le publique entendit; il a hésité; il est parti pas à pas; il se retournait toujours pour la voir. Il a mis deux mille ans à sortir de la scène.» Nei romanzi del Balzac, questo sparire dell'autore avviene ad intervalli. Egli si mescola ogni po' all'azione, spiega, descrive, torna addietro, fa delle lunghe divagazioni prima di lasciar i suoi personaggi a dibattersi soli soli colle loro passioni, col loro carattere, colle potenti influenze del lor tempo e dei luoghi; e l'onnipotenza del suo genio non si mostra mai cosí intera come quando le sue creature rimangon libere, abbandonate ai loro istinti, alla loro tragica fatalità. I suoi successori intervengono assai meno di lui nell'azione o non intervengono affatto. Si può dire che la loro opera d'arte si faccia da sé, piuttosto che la faccian loro. E questo semplicissimo cambiamento ha già prodotto una rivoluzione che il volgo dei lettori difficilmente sarà nel caso d'apprezzare nel suo giusto valore.

I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell'arte. L'evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo nella nostra bislacca letteratura. Lasciateli fare e vedrete. Se avranno poi la consacrazione (e se la meritano) d'una traduzione francese, eserciteranno un'influenza anche in una sfera piú larga e conteranno per qualche cosa nella storia generale dell'arte. Giacché finora nemmeno lo Zola ha toccato una cima cosí alta in quell'impersonalità ch'è l'ideale dell'opera d'arte moderna. C'è voluto, senza dubbio, un'immensa dose di coraggio, per rinunziare cosí arditamente ad ogni piú piccolo artificio, ad ogni minimo orpello rettorico e in faccia a questa nostra Italia che la rettorica allaga nelle arti, nella politica, nella religione, dappertutto. Ma non c'è voluto meno talento per rendere vive quelle povere creature di pescatori, quegli uomini elementari attaccati, come le ostriche, ai neri scogli di lava della riva di Trezza. Padron 'Ntoni, Mena, la Santuzza, lo zio Crocifisso, lo zio Santoro, Piedipapera, ecc., sono creazioni che debbono essere un po' sbalordite di trovarsi a vivere dentro la morta atmosfera della nostra stalattitica letteratura. Se non ci fossero Don Abbondio, Perpetua, Agnese, Renzo, Don Ferrante e Padre Cristoforo, dovrebbero proprio rassegnarsi di restare in famiglia con la Nedda, colla Lupa, con Jeli il pastore, con Rosso Malpelo.

Un romanzo come questo non si riassume. È un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L'interesse che ispira non è quello volgare, triviale del come finirà? ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un'emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale, e che l'autore s'accinge a studiare nelle classi superiori con una serie di romanzi legati insieme dal titolo complessivo: I Vinti.

L'originalità il Verga l'ha trovata dapprima nel suo soggetto, poi nel metodo impersonale portato fino alle sue estreme conseguenze. Quei pescatori sono dei veri pescatori siciliani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d'altri romanzi. Non è improbabile che il Verga si possa sentir accusare di minore originalità quando il suo soggetto lo condurrà fra la borghesia e le alte classi delle grandi città, perché allora le differenze dei caratteri e delle passioni appariranno meno spiccate; ed è bene notarlo fin da ora.

I Malavoglia non sono certamente un lavoro perfetto; l'autore lo sa meglio di noi. Certi eccessi di forma minuta, certe sproporzioni di parti potevano forse evitarsi, senza che l'evidenza della rappresentazione ne soffrisse e con profitto del libro e dei lettori. Ma mi par di vedere il Verga che, dal fondo della sua coscienza d'artista, modestamente mi fa osservare: Forse no.





3 Da Studi di letteratura contemporanea, 2a serie, Catania 1892, pagg. 133 sgg. Cfr. nota precedente.



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