Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Verga e D'Annunzio
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I. SCRITTI VERGHIANI

PER L'ARTE

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PER L'ARTE5

Confesso ingenuamente che non mi ci raccapezzo piú. Che cosa si vuole? Pare non lo sappiano, precisamente, nemmeno quelli che urlano piú forte, tanta è la confusione delle idee.

– Voi altri produttori – mi diceva uno qualche anno fa – avete il gran torto di badar troppo alla critica e al pubblico. Il vostro ufficio dovrebb'essere uno solo: produrre e bene.

Ma come si fa?

Quando il libro esce fuori a cercar la ventura di un buon successo, è impossibile restar indifferenti, non tendere un orecchio a quel che si dice intorno ad esso da amici e avversari. Col suo lavoro, l'artista ha voluto produrre una ripercussione delle sue sensazioni, dei suoi sentimenti, delle sue idee. È riuscito? o no? Mi par naturalissimo che egli cerchi di saperlo. Allora si accorge che il problema artistico (dell'arte della parola scritta) è, in Italia, immensamente piú complicato che altrove. Infatti è un problema nuovo.

– Come un problema nuovo? – mi par di sentirmi interrompereVorreste darci ad intendere che siate voialtri i primi ad occuparvi di arte in Italia? Non furono dunque scritti dei romanzi, delle novelle, delle commedie, delle tragedie, delle liriche assai prima che i vostri romanzi, le vostre novelle, i vostri drammi e le vostre liriche venissero fuori?

Precisamente no, nel modo che intendiamo noi, fatte due sole eccezioni pei Promessi Sposi del Manzoni e per le poesie del Leopardi. Forse il D'Azeglio e il Guerrazzi badavan molto all'arte quando scrivevano i loro romanzi storici? Forse il Niccolini pensava, soprattutto, all'arte quando scriveva le sue tragedie? Forse i nostri poeti pensavano unicamente all'arte quando ripetevano in diversi toni: va fuori, stranier? No; congiuravano, battagliavano, agivano da patriotti; facevano, forse, (ve lo concedo volentieri) qualcosa di piú proficuo dell'arte; ma dell'arte, dell'arte pura e semplice, no davvero. Vinta la necessità politica, che n'è rimasto di tanti lavori? Né una pagina, né una scena, né una strofa; dobbiamo avere il coraggio di affermarlo ad alta voce. Aprite la Battaglia di Benevento, l'Assedio di Firenze e, dopo lo sforzo di leggerne mezzo capitolo, vi sentirete cascar le braccia. Aprite l'Antonio Foscarini, il Giovanni da Procida, l'Arnaldo da Brescia e, dopo la gran fatica di declamarne una o due scene, non anderete piú avanti.

– Ah, vedremo poi che mai rimarrà del vostro famoso realismo! Una cosa , certamente: le sgrammaticature e i versi zoppi.

– Nemmeno questi, aggiungo io, ma un grande insegnamento: l'amore, il rispetto, il culto disinteressato dell'arte. Vi par poco? Come vedete, non siamo superbi. Voi altri però siete ingiusti. Ci accusate continuamente di far le scimmie ai francesi. Secondo voi, i nostri romanzi, le nostre novelle sono calcate sulla falsa riga dello Zola e compagnia bella. No, signori. La vostra accusa è vera fino a un certo punto, ed è un'accusa che ci torna a lode; possiamo farcene un merito. Prima di metterci a scrivere guardammo attorno, davanti, addietro a noi. Che vedemmo? Vedemmo il romanzo moderno già grande, già colossale in Francia, col Balzac, e neppur in germe in Italia. Sotto il piedistallo del monumento che il Balzac si è rizzato da sé aere perennis, vedemmo una schiera di scrittori di primo ordine che ha lavorato a ripulire, a migliorare, a perfezionare la forma lasciata a mezzo dal maestro: il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola, il Daudet, e dicemmo risolutamente: bisogna addentellarsi con costoro! Ci mettemmo subito all'opera.

Un'opera infernale.

Pel nostro lavoro avevamo bisogno di una prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno, e i nostri maestri non sapevano consigliarci altro: studiate i trecentisti! Avevamo bisogno d'un dialogo spigliato, vigoroso, drammatico, e i nostri maestri ci rispondevano: studiate i comici del cinquecento!

Parlavano sul serio.

Noi li guardammo nel bianco degli occhi e facemmo una spallucciata. Fu forza decidersi a cercare qualcosa da noi, a tentare, a ritentare; quella prosa moderna, quel dialogo moderno bisognava, insomma, inventarlo di sana pianta. I toscani, che avrebbero potuto darci il gran soccorso della loro lingua viva, non facevano nulla; covavano Dino Compagni e la Crusca e in questo affare sudavano a goccioloni. Dovevamo rimanere colle mani in mano, aspettando la prosa nuova di da venire? E ne abbiamo imbastita una pur che sia, mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale, come tutte le cose messe su in fretta. I futuri vocabolaristi non la citeranno (eppure, chi sa? Fénélon disse: c'est dommage que Molière ne sache pas écrire, e Molière oggi è un classico); ma gli scrittori che verranno dietro a noi ci accenderanno qualche cero, se non per altro, per l'esempio di aver parlato scrivendo. Se voi sapeste che travaglio c'è costata questa prosa ora da voi fulminata con tanto disdegno! E se voi sapeste come ne siamo scontenti! Ma è meglio che nulla.

Mettetevi una mano sulla coscienza; ne conoscete un'altra che le stia a paro, per movimento, per calore, per colorito? Abbiate la bontà di mostrarcela. Con tutti i suoi difetti, con tutte le sue improprietà, con tutti i suoi francesismi, con tutti i suoi provincialismi, almeno essa è organica, è viva, è moderna. Se ha un saporetto acre, non è per ciò repugnante; se si mostra un po' in disordine, è per effetto dei nervi irritati. Infine, è sincera.

– Oh! Oh! E la prosa del Leopardi?

Senza dubbio, è ammirabile: un marmo greco; ma , convenitene, la sensazione fredda del marmo. Ci occorreva ben altro per descrivere le nostre sensazioni complesse, le nostre moderne passioni. Non siamo mica greci noi; siamo italiani di dopo il sessanta, e tali vogliamo apparire nell'opera d'arte, romanzo o novella. Lasciatemi continuare.

I nostri predecessori, i nostri maestri stranieri, quando noi ci mettevamo all'opera, avean già fatto molto anche per quel che riguarda l'osservazione, il contenuto dell'opera d'arte. Da gente abile, sperimentata, rotta al mestiere, si erano sbrancati qua e , non avevano, si può dire, lasciato un pollice del cuore umano, da dissodare, da lavorare; avean messo tutto sossopra. Sul punto di imitarli, ci trovammo da questo lato in un grande imbroglio. La civiltà, questa inesorabile livellatrice, ci faceva apparire piú imitatori di quel che non eravamo in realtà. Un torinese, un milanese, un fiorentino, un napolitano, un palermitano dell'alta classe e della borghesia differiva, esteriormente e interiormente, cosí poco da un parigino delle stesse classi che il coglierne la vera caratteristica presentava una difficoltà quasi insuperabile, almeno a prima vista. Allora, per ripiego, rivolgemmo la nostra attenzione agli strati piú bassi della società dove il livellamento non è ancora arrivato a render sensibili i suoi effetti; e vi demmo il romanzo, la novella provinciale (piú questa che quello) per farci la mano, per addestrarci a dipinger dal vero, per provarci a rendere il colore, il sapore delle cose, le sensazioni precise, i sentimenti particolari, la vita d'una cittaduzza, di un paesetto, d'una famiglia... Ingrati che siete! Non ce ne avete saputo grado. Non ci avete presi sul serio. Le vostre idee intorno all'arte non sono andate progredendo col progredir delle nostre. Arrestandovi alla buccia, incaponiti in quella fisima della nostra imitazione dei francesi, non vi siete nemmeno accorti che la novella italiana – questa novella che vi indispone, che v'irrita, che non volete piú leggere perché è corta quanto un motto da anello come diceva il Moro dello Shakespeare – non vi siete nemmeno accorti, ripeto, che la novella italiana è già riuscita ad essere un prodotto originale, una felice applicazione di quei canoni d'arte altrove adoperati piú specialmente nel romanzo; qualcosa insomma da poter figurare benissimo in confronto delle tante ricchezze di arte di quel genere che le altre nazioni posseggon da un pezzo. Che possiamo noi farci, se non volete accorgervene? Continueremo a lavorare, colla certezza che, presto o tardi, ve ne avvedrete.

Ahimé!... Questo diluvio di novelle dovrà dunque durare ancora?

– Noi strabiliamo! Si è riusciti a far qualcosa di buono – lo riconoscono gli stessi stranieri che se ne intendono, se non per altro perché hanno esercitato questo mestiere tanto tempo prima di noi – ed ecco che voi ci dite: auf! ne abbiamo fin sopra i capelli

– Ma noi vogliamo dei romanzi, delle opere di polso...

– Ah! noi vorremmo darvi un capolavoro al mese o, almeno, uno ogni sei mesi...

– Ci contenteremmo di uno ogni tre anni.

Grazie: siete discreti!

– Ma voi altri romanzieri italiani avete il fiato corto. Messo fuori un volume mediocre, vi par di aver fatto le dodici fatiche di Ercole e vi riposate, per degli anni; o state a ponzare, a ponzare. Il Carducci ve l'ha detto chiaro e tondo: l'ingegno italiano non ha reni e ha le tentazioni inutili e poco pulite dell'impotenza. La fantasia italiana è un utero ammalato... Il romanzo e il teatro sono per noi due baie peggio che quella di Assab... La poesia tira il gambetto... Gli credete al Carducci?

– Lo rispettiamo e lo ammiriamo; e, se non sapessimo di farlo andare in collera, vorremmo dirgli, per esempio che la poesia, in Italia, non è sul punto di tirare il gambetto mentre vive chi ha saputo scrivere l'ode Alle Fonti del Clitummo, per citarne una sola. Lo rispettiamo e l'ammiriamo, anche quando il suo sdegno generoso gli impedisce di osservar freddamente e giudicar con rettitudine. Il Carducci, per mostrarsi giusto, non dovrebbe far altro che voltarsi addietro e guardare il cammino che egli ha percorso prima di salire all'altezza dov'ora siede, solitario, come tutti i grandi ingegni. Egli è andato tentoni un gran pezzo, e soltanto da poco tempo in qua si è rivelato un vero poeta moderno. Che lavoro di assimilazione non gli è toccato di fare! Hugo, Heine, Musset, i parnassiani, gli ha dovuti digerire tutti, uno appresso all'altro, convinto che le forme poetiche avean già prodotto, fuori d'Italia, una rifioritura novella e bisognava tenerne conto. Perché dovrebbe dispiacergli che altri, in una diversa branca d'arte, faccia ora lo stesso? E non vedete com'egli già ceda, come già pieghi anche nella prosa? Confrontate uno dei suoi primi lavori con uno degli ultimi delle Confessioni e battaglie, la polemica pel Ça ira. Qui è un uomo in carne e in ossa, un grande scrittore che parla; appena appena uno scrittore. Volete che ve la dica chiara e tonda anch'io? In questa sua recente prosa, tutta muscoli e nervi, acciaiata, penetrante come una lama di coltello, splendida di fascettature come un diamante di purissima acqua, la nostra prosetta arruffata, scorretta, ma sincera, ma viva... , , la nostra prosetta credo che c'entri per qualche cosa. Egli ci ha inteso balbettare e, dallo sdegno, ha buttato la sua zimarra a foggia classica e ci ha detto: grulli, ecco come dovreste parlare!

Egli ha ragione, dovremmo parlare quasi a quel modo... Ma abbiamo forse avuto il tempo di prender dei bagni di filologia? Abbiamo dovuto contentarci del poco, del press'a poco. Eppure, con mezzi insufficientissimi, possiamo francamente gloriarci di aver già fatto qualcosina di discreto. Leggete qui, attentamente.

Sull'imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d'onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell'ora, parevano le anime del Purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anch'essa.

Le comari, mentre tornavano dall'osteria coll'orciolino dell'olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l'aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un'occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro.

La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e stringeva al petto la bimba come se volessero rubargliela.

Finalmente il piú duro o il piú compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: – Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! – I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all'osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.

Requiem eternam, – biasicava sotto voce lo zio Santoro, – quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron 'Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.

La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava: – Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!

Dinanzi al ballatoio della sua casa c'era un gruppo di vicine che l'aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.

– Che disgrazia! – dicevano sulla via. – E la barca era carica! Piú di quarant'onze di lupini.

Rovistate pure tutti i nostri scrittori da trecent'anni in qua, i piú puri, i piú classici; e trovatemi, se vi riesce, due pagine che possano reggere al confronto di queste qui per evidenza, per colorito, per giustezza d'intonazione e di sentimento, per potenza d'arte. Io, francamente, ve li regalo tutti, in un mazzo, certo di comperare a buon mercato queste pagine di un barbaro che non sa – come va dicendo qualcuno – non che la lingua, neppur la grammatica! Come se lo scrivere un romanzo e una novella fosse soltanto un affare di stile e di grammatica! Ne conosciamo parecchi che maneggiano la lingua e lo stile con invidiabile bravura e, se scrivono un articolo di giornale o un discorso, incantano e fanno venir l'acquolina in bocca ai poveri diavoli che non sono da tanto. Ma i poveri diavoli si consolano qualche poco scorgendo che quello strumento non par piú lo stesso (e neppure il suonatore) allorché il virtuoso, cosí, come per chiasso, tenta di suonare la musica che quei poveri diavoli suonano efficacemente coi loro strumentacci dozzinali. Lo Stradivarius, in quell'occasione, non giova a nulla. Il virtuoso, che filava cosí bene le sue melodie, non arriva a prendere l'intonazione giusta con quella musica che fa dei salmi di quinta e di sesta come un diavolo scatenato. Nell'accuratissima interpretazione di lui le note ci son tutte fino a una, il tempo è inarcato bene, ma, ma... manca un che, ddu certu non so chi dell'abate Meli. E i poveri diavoli che stanno a sentirlo, di tratto in tratto, pur ammirandolo molto, vorrebbero gridargli: o faccia una bella stonatura, in nome di Dio! È quel che ci vuole. – E non glielo dicono per non parere presuntuosi.

– Ma cosí vi fate i paladini della sciatteria dello stile, della licenza grammaticale, della prosodia zoppicante...

– Niente affatto! Se dietro l'esempio, mal compreso, del Verga, una turba di scolaretti si è messa allegramente a proclamare la Comune dalla sintassi, non c'è da farne gran cosa. Il Carducci (e dev'esserne arrabbiatissimo) ha dato la stura alla inondazione della metrica barbara; lo Stecchetti alla pioggia di fango dei sonettucci pornografici. Se il Rapisardi non ci ha covato una nidiata di poeti epico-didattico-materialisti, nemici personali di Dio e del Diavolo, dovete unicamente attribuirlo alla circostanza che dieci, dodici canti in verso sciolto, colle relative liriche intramezzate qua e , non si buttano giú in poco tempo; e gli imitatori sono scanzafatica, altrimenti non prenderebbero quel comodissimo mestiere. Ed è per cosí poco che voi vi indegnate, che voi ingrossate la voce e predicate il finimondo? Guardate qui. Questa trentina di volumetti stampati a Pisa dal 1748 al 1799, sono il Parnaso degli italiani viventi. De Rossi, Bondi, Pignotti, Antinori, Anquillesi, Diodata Salluzzo, Cerretti... Chi ne sa oggi piú nulla? E mezzo secolo fa eran cosí celebri da meritarsi una ristampa nel Parnaso degli italiani viventi insieme col Monti e col Parini!...

Non mi fate divagare.

Noi abbiamo avuto forse il torto di far un gran salto e pretendere che il pubblico lo facesse dietro a noi. Dal romanzo storico-politico, siam sbalzati, di lancio, al romanzo di costumi contemporanei; dalla forma tutta personale (dovremmo forse dire semplicemente: da un pretesto di forma) alla vera forma dove l'opera d'arte non vuol essere altro o, almeno, vuol essere innanzi tutto un'opera d'arte; e n'è nato un putiferio. La gente avrebbe dovuto discutere d'arte... e si è messa a strillar per la morale. Chi gliela maculava la sua morale? Avrebbe dovuto esaminare se noi facevamo bene ad assimilarci tutte le nuove ricchezze di forma del romanzo moderno, dovunque esse si trovavano, e ci ha sputato in faccia che non ci crede capaci di fare, impotenti lucidatori di disegni altrui, neppure uno sgorbio di nostro. Avrebbe dovuto incoraggiarci nell'arduissimo tentativo di ridurre a materia d'arte la vita italiana, ritraendola direttamente dal vero, e non co' soliti cieli di carta turchina o colle solite campagne di verde inglese brizzolato di rosso e di giallo per simulare i crisantemi e i rosolacci, e non colle contadinelle di terra cotta e le signore vestite di cencio, dalla testina di cartone verniciato; e invece ha risposto col voltarsi in , turandosi il naso col fazzoletto... Che si aspettavano dunque? Si aspettavano delle cose divertenti, da toccargli la corda sensibile; insomma non volevano annoiarsi (è la parola sacramentale) in compagnia di certa gentaglia.

La critica, quella che giudica e manda secondo che avvinghia, vorrebbe intanto una cosina da nulla, dei capolavori: – Diavolo? Perché non facciamo dei capolavori? – Sicuro; ce lo domandiamo anche noi: perché non facciamo dei capolavori?

Ma, santo Iddio, se incominciamo appena ora! Ma se non abbiamo neppure il tempo di apprendere bene il mestiere, di scioglierci la mano!

Dei capolavori? Si fa presto a dirlo. Dovreste piuttosto osservare che vent'anni fa l'Italia non aveva neanche questo pochino che noi, a furia di sforzi, abbiamo potuto apprestarle. Dal latte e miele del Carcano al pane nero del Verga la distanza è incredibile.

– Ma noi cotesto pane nero non possiamo mandarlo giú. Dateci della briosche, se ne avete. Volete che ci spezziamo i denti con quelle pagnotte piú dure dei sassi?... E poi, noi siamo pubblico, noi siamo lettori; non abbiamo molto tempo da perdere, e già ne perdiamo un buon poco stando a sentire le vostre eterne quistioni di realismo e non realismo, di naturalismo, di sperimentalismo, di arte personale o impersonale... Una musica da gatti! Non siete di accordo fra voialtri critici e scrittori, e vorreste che noi vi si dèsse retta?

– Qui avete centomila ragioni!

– Per esempio: i vostri documenti umani...

– Ah, non me ne parlate!

Se un romanzo, una novella vi fa esclamare: Questo è impossibile! Questo non è vero! state sicuri che, novantanove volte fra cento, la colpa è tutta dello scrittore. I romanzi piú impossibili sono quelli che accadono ogni giorno sotto i nostri occhi, attorno a noi, in alto e in basso.

Non ci sarà mai né un romanziere naturalista, né un novelliere verista il quale abbia tanto coraggio da inventar nulla che rassomigli, da lontano, alle continue e terribili assurdità della vita reale. E se il romanziere e il novelliere rispondono alla vostra esclamazione col mettervi dinanzi i documenti, per provarvi cosí che essi han narrato un fatto vero, replicate che la difesa diventa peggior dell'accusa. Vorrà dire che essi non hanno saputo indovinare il segreto processo di quel fatto vero, che nella loro narrazione s'incontrano delle discontinuità, e quindi l'azione, i personaggi non sian riusciti organici, viventi! Vorrà anche dire: è solamente artista colui che ripete, nella forma letteraria, il segreto processo della natura.

Ho qui un documento che dovrà far gola al Verga se gli capiterà sotto gli occhi. Viene da una cancelleria criminale e mi piace pubblicarlo intero, nel suo barbarico stile:

«Da molto tempo Carmelo Maugeri di anni 42, campagnuolo da Biancavilla, viveva in illecita tresca con Giuseppa Puglisi, fu Pasquale, di anni 62 (all'epoca del processo. Dal processo si rileva che la Puglisi non volle mai sposare il suo amante). La Puglisi aveva una sorella nubile e per una di quelle inesplicabili anomalie dell'amore (l'osservazione è del cancelliere o del pretore) aveva costretto il suo amante a sposarla, imponendo però che i novelli sposi dovessero convivere con lei e far vita comune; cosí durava per conseguenza la unione amorosa con il Maugeri.

«E durò finché l'infelice moglie morí (sic).

«Morta costei, continuava la tresca, quando la Puglisi volle che il marito impalmasse la pur troppo bella e buona ragazza Maria Greco. La dispotica Puglisi impose la stessa legge della convivenza sotto lo stesso tetto ed in unica economia.

«La Puglisi, giova saperlo, era ricca, e il Maugeri era da lei tenuto come figlio di famiglia, tanto da esser costretto a domandarle un soldo. Dessa comandava e reggeva la casa.

«Ma la sua gioventú e le sue attrattive carnali erano fuggite coll'età; non le restava che la imponenza antica e la piú efficace molla pel Puglisi, i beni. E trovandosi a fronte della fresca moglie del suo drudo, ella, dispotica ed impetuosa, fu invasa da furente gelosia. Ne nacque a poco a poco odio contro la giovane rivale che dessa non cessava di chiamare p... b... dai sette ganzi, ecc. La gravava di ogni bene (?) la denunciava al marito anche inventando de' fatti, spingendolo a bastonarla e a seviziarla di continuo.

«La Greco fu gravida, e allora crebbero le smanie gelose della Puglisi, si moltiplicarono le ingiurie, le minacce di morte.

« – Non ti farò partorire questo bastardo; te lo farò uscire morto: pagherò dieci once a chi toglierà davanti questa b... –

«E ingegnavasi a farla bastonare dal marito, che scrupolosamente ubbidiva.

«Un giorno, in campagna, in un di lei fondo, la Greco raccolse taluni fichi d'India che la Puglisi voleva riserbati. Questa la denunciò il marito, che inferocito, piglia di peso la Greco, la capovolge e la tuffa nell'acqua del fiumicello per farvela soffocare. Un testimone ne impedisce la morte.

«Si separarono i coniugi, non potendo piú sopportare la povera Greco quella vita di tortura. Ma il marito finge di mutar vita; le si riunisce.

«Incominciarono le sevizie, le sporche ingiurie e i sacrifizi di quella povera vittima. Quindi i suoi timori di essere un giorno o l'altro assassinata o avvelenata.

«E ne aveva ragione. Un giorno un latitante perché colpito da mandato di cattura, certo Sebastiano Guerrera, le narrò che gli adulteri gli avevano dato mandato, con promessa di once cinquanta, di ammazzare la Greco.

«Ma costui non avvezzo al sangue erasi negato.

«Il 26 gennaio (1872) la Puglisi finse una malattia, ma stava a letto vestita e teneva al capezzale un farmaco che non prendeva; anzi il 27 lo fece gettar via. Un cognato propalava la malattia, invitava gente e parenti a visitarla e si fermava tutto quel giorno a casa.

«Venuta la sera, la casa era gremita di gente: Rosa Sciacca, Pino Gentile ed altri. Il Maugeri finge di voler dare a bere agli amici, e manda la moglie a comperare il vino. Si offerse la Sciacca, ma il Maugeri non volle permetterlo.

«La moglie ubbidí, ma vide uscendo un'ombra che si nascose al suo apparire. Comperò il vino, ma ritornando a casa, in sul limitare è colpita da un nembo di proiettili, e cade a terra profferendo: ahi, mi ammazzaru!

«Esce il marito, e gli amici; costoro piangono; ma il marito non ha una lagrima, non un lamento, non una imprecazione contro l'assassino.

«L'opinione pubblica lo accusa autore dell'assassinio; ma quando il Sindaco lo fa arrestare, la moribonda lo dice innocente; ed interrogata dalle amiche del perché, manifesta loro di temere, che appena guarita avrebbe sofferto, se avesselo accusato, maggiori tormenti. Da a poche ore la Greco cessò di vivere

Cavatemi ora da questo documento un'opera d'arte, un romanzo, una novella. Qui c'è già tutto; caratteri, azione, tragica catastrofe... e non c'è ancora nulla!

Quella vecchia è un problema psicologico che, nella realtà, voi dovete accettare, perché è cosí e vi sopraffà inevitabilmente colla forza bruta del fatto. Ma appena passeravvi pel capo di rifonder cotesta creatura umana nella forma dell'arte, essa non riuscirà piú accettabile e non vi sopraffarà, se voi non avrete indovinato l'intimo processo di quel suo problema e non lo avrete rifatto organicamente tal quale.

Organicamente significa che non basta indovinarlo, penetrarlo, scioglierlo nel crogiuolo dell'analisi; questa è un'operazione preparatoria; non dobbiamo mai dimenticare che arte vuol dir forma.

L'analisi può darci benissimo un essere astratto, quasi chimicamente suddiviso in tutti i suoi integrali elementi; per esempio:

Eredità

10

Ambiente

15

Circostanze individuali

40

Forza maggiore

30

Elementi diversi

5

 

——

 

Totale 100

Ma è ancora nulla, finché l'immaginazione non interviene e non vi soffia su il suo gran spiraculum vitae. Allora soltanto non avrete piú campo di fare distinzioni di sorta; il miracolo è riuscito. Quegli elementi disgregati son diventati forma, organismo vivente per l'eternità, legalmente iscritto nello stato civile dell'arte, insomma, quel che dovevano essere: un'opera d'arte.

I documenti umani intesi in tal modo – e mi pare che sia il vero – se non scadon di pregio, non hanno però la straordinaria importanza che gli si è voluto accordare in quest'ultimi tempi, mettendoli tra i primi criteri da giudicare un'opera d'arte. Forse avviene per questo che molti li abbiano a noia. Anche a me cominciano a dar fastidio, ma per un'altra ragione: essi servon di pretesto a una sciocca accusa contro i romanzieri moderni.

– Quale accusa?

Mancano di fantasia, mancano d'immaginazione. – Quante volte non l'ho sentito ripetere! Due mesi fa, leggendo L'autopsie du Docteur Z***, un volume di novelle di Edoardo Rod, pensavo appunto a questo.

Quell'autopsia del Dottor Z*** è singolarissima. L'idea n'è stata presa da una dozzina di versi del De Vigny che l'autore, coscienzioso, ha messo come epigrafe al suo lavoro.

Pour moi qui ne sais rien et vais du doute au rêve
Je crois qu'aprés la mort, quand l'union s'achève,
L'âme retrouve alors la vue et la clarté,
Et que, jugeant son œuvre avec sérénité,
Comprenant sans obstacle et s'expliquant sans peine,
Comme ses sœers du ciel elle est puissante et reine,
Se mesure au vrai poids, connait visiblement
Que le souffle était faux par le faux instrument,
N'était ni glorieux ni vil, n'étant pas libre;
Que le corps seulement empêchait l'équilibre;
Et, calme elle reprend, dans l'idéal bonheur,
La sainte égalité des esprits du Seigneur.

La novella fa un commento vivo, drammatico, interessantissimo a questi versi un po' freddini. Il Dottor Z***, un gran fisiologo pel quale il sistema nervoso aveva oramai ben pochi misteri da farsi strappare, non solamente era convinto che la vita del cervello continuasse, dopo la morte, per un tempo variabile dai sette ai dieci giorni (quando la malattia non l'attaccasse direttamente) ma avea anche inventato una specie di fotofono, con cui seguiva a notare i movimenti e le impressioni di quella vita cerebrale già in via di spegnersi.

Trattato da matto e da ciarlatano dai suoi colleghi (la cosa accade sovente, anche fuor delle novelle) il Dottor Z*** bruciò tutte le sue osservazioni scientifiche, e distrusse lo strumento da lui stesso costruito. Però una trentina di pagine di quelle osservazioni erano da lui state, tempo addietro, comunicate all'autore. Il fotofono cerebrale applicato al cadavere di un armatore olandese suicida aveva dato in quel caso i piú meravigliosi resultati. E cosí noi possiamo conoscere le sensazioni e le idee di quel morto, durante la continuazione della sua vita cerebrale; e cosí a un tratto, nella novella, la fantasia si confonde talmente colla realtà, che non pare di leggere un'opera d'arte, ma una cosa vera; e ci corrono i brividi addosso.

Allora mi tornò in mente il romanzo dello stesso autore, pubblicato alcuni mesi prima, La femme d'Henri Vanneau, studio della vita d'uno di quei mezzi artisti che vanno, dalla provincia, a morir d'impotenza a Parigi. E dicevo fra me: chi sa quanti, nel leggere quella narrazione sobria, spesso efficace, quantunque in alcuni punti incompleta, di fatti e sentimenti quasi volgari, chi sa quanti avran terminato il volume esclamando: Dio! come mancano d'immaginazione questi romanzieri naturalisti!

Che il volgo dei lettori dica questo, anche dinanzi a un lavoro dello Zola o del Verga, passi pure. Ma che delle persone colte, le quali dovrebbero sapere che cosa siano l'immaginazione e la fantasia, rimpiangano il nodo, l'imbroglio, la favola, la machinechiamatela come diavolo voi volete – dei romanzi di trenta anni fa; che delle persone di talento si lamentino di veder perdere a poco a poco il segreto di costruire l'ossatura di un romanzo come ai bei tempi di Dumas il vecchio e di Eugenio Sue, e ripetano anch'essi a carico degli scrittori moderni: mancano di fantasia! mancano d'immaginazione! – mi pare, scusate, una enormità inconcepibile.

Dunque essi credono sul serio che lo Zola, il Verga e tutti gli altri non facciano che accozzare, riordinare alla meglio le loro osservazioni personali dirette, insomma una specie d'ignobile processo verbale di cui spesso leggiamo anticipatamente i sunti, i frammenti, gli accenni nella spicciola cronaca cittadina dei giornali quotidiani?

Dunque essi credono sul serio che per la rappresentazione cosí portentosamente viva dell'Assommoir e dei Malavoglia gli autori non abbiano dovuto adoperare, per lo meno, tanto sforzo di fantasia e d'immaginazione quanto il Dumas nel suo Mille e una notte francese da lui intitolato il Conte di Montecristo, Eugenio Sue nelle complicate avventure dei suoi Misteri di Parigi?

Dunque essi prendono gli scrittori cosí detti naturalisti o veristi proprio sulla parola, e pensano che i malaugurati documenti umani (la materia prima, la materia greggia delle nuove opere d'arte) siano assolutamente tutto, e che debba esser bastato allo Zola lo studiare e il prender delle note intorno all'alcoolismo degli operai parigini, e al Verga il vivere per qualche mese, durante la villeggiatura, fra i pescatori di Aci Trezza, perché tutti e due abbian potuto poi scrivere la storia della Gervasia e del Coupeau, e i casi di Padron 'Ntoni e di tutta la famiglia dei Malavoglia?

Andiamo, via! Non la mando giú!

Certamente il carattere di un'opera d'arte modernarestringiamoci alla novella e al romanzo – non è piú quello di prima. L'opera d'arte – può darsi che sia anche una decadenza – è diventata seria: troppo seria! dicono i maligni. Infatti non è divertente. Il romanziere ruba il mestiere al psicologo, al fisiologo, al professore di scienze sociali. Non già che predichi, che dimostri, che voglia far la lezione; ma egli scortica vivi vivi i suoi personaggi; ma egli pianta il bisturi in quelle carni palpitanti con la stessa spietata indifferenza di un anatomico. Almeno io non vorrei vedere il sangue sul coltello e sulle mani dell'operatore, mi diceva un giorno una signora gentile quanto colta, a proposito di un nuovo romanzo. La signora su questo punto aveva ragione. Però ella non pretendeva che il romanzo moderno tornasse all'antico: non pretendeva che, prima d'ogni cosa, divertisse, e fosse una bella fiaba grande pei bambini grandi.

Questa benedetta o maledetta riflessione moderna, questa smania di positivismo di studi, di osservazioni di collezione di fatti, noi non possiamo cavarcela di dosso. È il nostro sangue, è il nostro spirito; chi non la prova può dirsi un uomo di parecchi secoli addietro smarritosi per caso in mezzo a noi. Ed è naturale quindi che dal nostro sangue e dal nostro spirito la riflessione positiva passi a rivelarsi anche nell'opera d'arte, nel modo, s'intende, e colla misura compatibile e con un'opera d'arte. Questa trasformazione non è un bizzarro capriccio degli scrittori: è l'effetto di un'evoluzione che nessuno al mondo è nel caso di arrestare o d'impedire. Ve lo dicano quelle buone persone che vi si son provate, in politica, in religione, come in arte, e son rimaste deluse. Sarà sempre da vedere se gli artisti abbiano sbagliato il modo, o ecceduto nella misura.

Vuol forse dire intanto che l'opera d'arte moderna non sia piú un'opera d'arte? No. La fantasia, l'immaginazione rimangono, come prima, i sostanziali elementi d'essa; se non che si combinano un po' diversamente.

Il romanziere, il novelliere guarda di qua e di , osserva, prende nota. Se non poggia un piede sopra un fatto vero, non si crede punto sicuro, e non si avventura a metter l'altro innanzi. Il Vergaparliamo di cose nostre, non guasta – quando gli vien l'idea di foggiare in forma artistica i suoi contadini, non si limita soltanto a raccogliere delle generalità, ma circoscrive il suo terreno. Non gli basta che quei suoi personaggi siano italiani – il contadino italiano è un'astrattezza – egli va piú in , vuole che siano siciliani: molto di piú e di piú concreto. Credete voi che n'abbia assai? Nemmeno per sogno. Ha bisogno che siano proprio d'una provincia, d'una città, d'un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano. Allora soltanto si ferma.

– Che ce n'importa?

– Ma importa a lui, alla sua coscienza d'artista moderno: importa a tutti noi che vogliamo esser moderni, del nostro tempo, al pari di lui.

– E allora? Se i vostri romanzieri moderni han bisogno di tanti amminnicoli che gli antichi, i loro grandi predecessori, non immaginavano dovessero essere, un giorno, cosí indispensabili; se non inventan nulla, come voi volete che non ci si lamenti del loro difetto di fantasia, d'immaginazione? Qui vi casca l'asino.

Inventano, creano, signori belli! Tutto quel materiale accumulato è roba morta. Voi, io, il piú stupido dei contadini, di codesta roba morta ne abbiamo tutti in testa forse assai piú di qualche gran romanziere, e potremmo dargli elementi per ben cinquanta volumi. Che è per questo? Noi non li scriveremo mai; e se tenteremo di scriverli, faremo tutto quel che ci parrà, ma non già un'opera d'arte, se non avremo la fantasia, l'immaginazione che dovrà dar vita nuova alla materia raccolta.

Quando il materiale è pronto, il romanziere moderno fa precisamente come lo scienziato moderno. Questi è poeta, è creatore, è romanziere, anche lui. La natura gli porge dei fatti; ma egli non saprebbe che farsene se non sapesse anche di potere arrivare a cavarle di mano la cosa piú importante: il vivo processo di quei fatti. Allora lo scienziato cerca, tenta di compenetrarsi con quei fatti, si sforza, sto per dire, di diventar Natura; e a furia d'immaginazionedomandatelo ai grandi fisiologicombina, rifà un processo che la Natura, gelosa dei suoi segreti, vorrebbe tenergli nascosto; e quando riesce – non vi paia una bestemmia – si mette quasi pari con Dio.

Il romanziere moderno è uno scienziato, aggiungiamolo subito, dimezzato. Lo scienziato, appena creato o scoperto un processo (val tutt'una) è piú fortunato di quello: può riprodurne il fatto a piacere, quante volte gli garba, e può servirsi di tal processo per scopi piú belli e piú ragionevoli che non siano quelli della Natura. Il suo fatto avviene fuori di lui; è il suo schiavo.

Il romanziere moderno, invece, dopo che ha scoperto o creato un processo (ripetiamolo: val tutt'una) non può verificare il fatto, non può riprodurlo a suo piacere. È un'inferiorità naturale, invincibile: non sappiamo che farci. Ma voi vi lamentate contro ragione, perché egli si serve, precisamente, come facevano i suoi predecessori, degli stessissimi elementi dell'opera d'arte. Per rappresentare, per far del vivo ci vogliono sempre quelle due divine facoltà: la fantasia, l'immaginazione, che potrebbe anche darsi siano un'identica cosa.

Vi dirò anzi che il romanziere moderno ne adopera oggi in maggior quantità che non quelli del passato. Come potete affermare di no, se egli ha rinunziato volontariamente a tutti i mezzucci di effetto della vostra vecchia rettorica? Trovatemi venti righe di descrizione oziosa nelle cose del Verga, e vi darò causa vinta.

Se quel suo dialogo narrato, se quella sua narrazione parlata dal personaggio, che dànno tanto sui nervi all'amico Scarfoglio (mi permetta di dirglielo l'amico mio, egli questa volta è andato fuor di carreggiata per troppa foga); se quella semplicità di mezzi ottiene un effetto di colorito, di rilievo, di movimento, di vita vera, come nessun romanziere di trent'anni fa se l'è mai sognato, da che diavolo dunque provien questo? Dalla fantasia, dall'immaginazione! Sissignori! E da null'altro. Ed ego autem dico vobis: v'è cento volte piú ricchezza, piú sfoggio d'immaginazione in mezzo volume dei Malavoglia, che non in tutti i Montecristo, i Tre Moschettieri, i Misteri di Parigi e simili libri presi insieme.

Peccato! Chi se n'accorge? Dev'essere adoperata proprio male perché, infine, un'opera d'arte che non desti nessun'emozione, nessun interesse, non è piú un'opera d'arte.

Emozione! Interesse! Bei paroloni. L'emozione di chi? L'interesse di chi?

– Oh bella! Di noi altri lettori...

– Ma esistono, per lo meno, una ventina di specie di lettori! Quello ch'entusiasma l'una, lascia indifferentissima l'altra.

Prendete la media...

– Che medie d'Egitto! Un'emozione è affare di nervi. E i nervi bisogna educarli, bisogna abituarli, se si vuole che non rimangano sordi a certe delicate impressioni. Persuadetevene: non sono i lettori che fanno i libri; sono i libri che fanno i lettori. Intendo dire che tra il gusto della folla e quello dei veri scrittori c'è sempre, da principio, un urto, una contraddizione, un vero conflitto. Si va avanti a questo modo, a furia di spinte, di strappi, di gomitate; chi è piú forte la vince: e il vostro gusto intanto si modifica, si raffina e le forme dell'arte anche. Se s'impantanassero tutti e due sarebbe bella e finita. L'arte morrebbe di malaria. L'emozione! L'interesse! O volgetevi addietro: quarant'anni fa l'Angiola Maria faceva versare fiumi di lagrime; oggi quel libro vi casca di mano, vi fa sbadigliare...

– Ci cascate di mano, ci fate sbadigliare anche voialtri. Non canzonate!

– Ma per un'altra ragione. Già, da qualche tempo in qua, sbadigliate molto meno; presto o tardi, non sbadiglierete piú. Avrete fatto l'occhio a quel disegno, a quel colore che ora vi sconvolgono i nervi; avrete fatto l'orecchio a quella combinazione di suoni che ora vi sembra una stonatura di casa del diavolo; avrete preso gusto a quella tal forma d'arte che ora vi riesce ostica al palato; e un bel giorno, che è che non è, vi troverete talmente cambiati da non riconoscervi da voi stessi.

– A darvi retta, cosí i grandi scrittori dei secoli passati non dovrebbero oggi trovar piú un cane che si degnasse di leggerli. Il Boccaccio, per esempio...

– Oh Dio! Sarà sempre il Boccaccio e sarà letto eternamente e l'ammirazione per quel suo Prencipe Galeotto diventerà ancora piú grande nell'avvenire. Però vorrei vedere che viso voi fareste se uno dei nostri novellieri contemporanei si lasciasse prendere dalla tentazione di presentarvi un volume di novella alla boccaccesca, e non pel capriccio di fare un pastiche, come il Balzac coi suoi Contes drolatiques, ma sul serio, per tornare all'antico, per riannodarsi alla tradizione nazionale, come predica certa gente... vorrei vedervi che viso!

Magari anzi!

– È perché voi confondete due cose ben diverse: l'arte e l'artista. Se l'artista, colla potenza del suo genio, fissa una delle tante forme dell'arte, se produce un capolavoro immortale, di quelli che sguscian fuori ad intervalli di secoli, non significa mica che la forma rimanga cristallizzata, imprigionata eternamente nell'opera sua.

La Forma (coll'effe maiuscolo) ha piú genio, è piú divina di tutti i divini genii del mondo presi insieme; cresce, si sviluppa, fiorisce; e quando è pronta per un nuovo frutto, cerca e trova il fortunato individuo che le occorre, come ne avea trovati degli altri, uno, dieci secoli avanti – essa non ha punto fretta – e gli si concede, in un fecondo abbraccio spirituale, e gli lascia gettar nel bronzo, scolpir nel marmo, dipinger sulla tela, costringer nelle note musicali o nelle pagine d'un libro quel momento dell'alta sua vita ideale; poi via, da capo, finché ce ne sarà, indefinitamente, usque ad mortem; giacché la morte è legge universale e neppur le forme del pensiero vi si sottraggono. Per questo, se il Boccaccio potesse tornare al mondo, con tutto il suo gran Prencipe Galeotto, avrebbe molto, ma molto da imparare da un novellierucolo di primo pelo, senza che intanto potesse dirsi che il novellierucolo di primo pelo valga un sol pelo del Boccaccio. Per questo non dovremmo parervi mezzi grulli se vi dicessimo che voi vi spericolate irragionevolmente perché la formola dell'arte impersonale non ha ancora trovato il suo Boccaccio. Fidate nella divina onnipotenza della Forma (coll'effe maiuscolo) e il nuovo Boccaccio arriverà... se dee arrivare. Arriverà anche che i lettori dell'avvenire giudicheranno troppo timidi, troppo attaccati alle gonne dell'immaginazione, troppo preoccupati della emozione e dell'interesse i poveri diavoli che ora ci fan l'effetto di esser divertenti come un funerale. Arriverà...

Lasciamo le profezie!...

Lasciamole. Ma smettiamo pure la presente confusione d'idee che non può giovare a nessuno. Quando noi vediamo un uomo del talento e della cultura del Bonghi affermare dall'alto di una colonna di un giornale letterario: La scienza è una gran cosa: è intellettualmente e praticamente gran cosa, poiché la mente dell'uomo penetra per suo mezzo la natura, e la mano dell'uomo per suo mezzo la doma; allarga intorno all'uomo il campo dell'azione sua. Ma la letteratura è cosa ancora piú grande: in essa l'uomo parla di sé a sé; esplica, innalza, moltiplica se stesso; ragiona con sé di quanto l'eleva, l'umilia, lo rapisce, gli ripugna; chiede che cosa mai egli sia quaggiú, o sia stato o debba essere; sublima, spiega, comunica l'emozioni sue; rivela ogni altezza, ogni abbiezione sua; fa luce dentro il cor suo; e vi conferma gl'ideali, che gli sono tutta e la sola spinta al ben fare, anche quando per disperazione li bestemmia; noi rimanghiamo a bocca aperta, stupefatti che un tale pensatore possa mettere il sentimento e l'immaginazione molto piú in su della riflessione scientifica e addossare all'opera d'arte una funzione ch'essa non ha.

E quando sentiamo un grande artista come il Carducci, dopo di averci paragonati ai cagnetti piccini che vedendo un cagnone alzar la cianca dietro una cantonata vogliono far lo stesso e il cagnone si volta e con un ringhio e una stretta di denti li scaraventa in mezzo alla strada a guair nella polvere, venir a conchiudere che se noi non abbiamo né romanzo, né teatro, né pittura, né scultura, né musica, non è poi un gran male, perché non per ciò invidierà Bacco le viti ai colli almeno del mezzogiorno... non perciò Pallade fiorirà meno di olivi i miti inverni sui colli che riguardano il divino Tirreno; e finir col rallegrarsi che i nostri nepoti metteranno in pezzi le nostre brutte statue di marmo e ne faranno calce per fabbricar cose buone per tutti; metteranno in pezzi quelle di bronzo e ne faranno soldi e casseruole, imprecando alla rea memoria dei loro padri che per alzare quei brutti monumenti facevano o lasciavano morir di appetito e di pellagra i loro fratelli, noi rimanghiamo egualmente a bocca aperta, strabiliati, dubitando non fossimo, per caso, tanto ignoranti da non sapere che Omero abbia salvato, coll'Iliade, dallo sfacelo la Grecia, e Dante e l'Ariosto l'Italia dalle abbiezioni del medio evo e del cinquecento, e Raffaello e Michelangelo, colla Trasfigurazione e coi sepolcri medicei, posto argine alle invasioni straniere e alla corruttela paesana, e Rossini, col Barbiere e col Guglielmo Tell, ricacciati di delle Alpi li tedeschi turchi!

– Insomma, secondo voialtri, un'opera d'arte...

Dovrebbe essere, innanzi tutto, un'opera d'arte, e...

– Se vi figurate d'aver inventato la polvere con tale aforismo!

– Oh! Non siamo cosí sciocchi. Ma convien proprio dire che le idee piú semplici siano le piú difficili ad esser capite.

Come spiegheremmo altrimenti questa nostra gran confusione di lingue? E vi perdiamo tutti la testa. Io, per parte mia, non mi ci raccapezzo piú...





5 Da Per l'arte, Catania, 1885, pagg. I sgg.



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