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II. SCRITTI DANNUNZIANI LA CITTA MORTA | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Poiché le rappresentazioni di essa in Italia sono ritardate, si dice, fino a giugno, tentiamo di darcene intanto una rappresentazione ideale.
Abbiamo il volume sotto gli occhi. L'immaginazione è assai piú compiacente della realtà. Un'attrice, un attore hanno sempre qualcosa di piú e qualcosa di meno nell'aspetto, nella voce, nel gesto con cui dovrebbero far vivere sul palcoscenico un personaggio. Particolari che sembrano insignificanti attenuano grandemente il godimento estetico in teatro, quando non gli nuocciono a dirittura. Tentiamo dunque di darci della tragedia dannunziana una rappresentazione ideale, cioè conforme all'idea voluta attuare dal poeta.
Fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di conoscere le intenzioni di lui per mezzo delle interviste dei suoi ammiratori ed amici. Intorno alle intenzioni di chi si accinge a fare un'opera d'arte è imprudente discutere. Bisogna dire soltanto: – Va bene; mettetele in atto; ne ragioneremo poi.
Non già che non si possano talvolta discutere le intenzioni, quando, per esempio, sono evidentemente assurde. Ma siccome dal detto al fatto, secondo il proverbio, corre gran tratto, cosí mi par meglio rassegnarsi ad attendere. Le intenzioni, lungo il cammino, inciampano in difficoltà di esecuzione che ne modificano le crudezze, ne infrenano gli eccessi. Quel che di raramente buono c'è in esse, si trasfonde intero nell'opera d'arte; il po' di strambo, di cattivo che non vien potuto eliminare non risulta poi tale da danneggiarla fortemente.
Infondere nell'anemico organismo della drammatica moderna tutta la maestà, tutta l'idealità ieratica della tragedia greca, fino a sconvolgere i mezzi materiali di cui si serve il teatro attuale, e le abitudini del pubblico a un certo modo di rappresentazione; far sorgere in Albano, in vista del lago, fra gli ulivi, un teatro di foggia antica dove i capolavori della musa tragica greca e i capolavori della musa tragica contemporanea, o, piú modestamente, i lavori, i tentativi di essa si alternerebbero davanti a un pubblico capace di intenderne le bellezze e di apprezzarne le arditezze, non erano, secondo me, intenzioni cosí strane, cosí assolutamente impossibili da permettere di condannarle anticipatamente.
Le riproduzioni dei drammi di Eschilo e di Sofocle, avrebbero potuto riuscire cosa assai diversa dalle recitazioni scolastiche fatte ogni anno dagli studenti inglesi e tedeschi al cospetto di professori e di dotti, pei quali non hanno misteri le piú riposte meraviglie del testo originale. Un pubblico speciale avrebbe potuto, per qualche ora, darsi il gusto di rivivere un'altra vita intellettuale, e ottenere direttamente quelle grandiose impressioni che formarono la delizia del popolo piú artistico che mai sia stato al mondo.
In quanto ai lavori nuovi, imitazioni, derivazioni dagli antichi esemplari, perché diffidarne prima di averli sott'occhio? Ferve negli scrittori e nel pubblico l'ansiosa ricerca di qualcosa di meglio, di piú elevato, di piú raro che non somministrino le commedie e le pochades da le quali sono a stento alimentate le fiacche rappresentazioni dei nostri teatri. Parecchi tentativi hanno avuto la fortuna di vincere gli ostacoli di un'educazione estetica molto scarsa, e quelli, anche piú ardui, delle vecchie abitudini. Buon numero di convenzioni teatrali, che già s'imponevano come dommi, sono state eliminate; concetti che sembravano repugnanti alla forma drammatica sono apparsi sul palco scenico, dando vita a personaggi, a caratteri, a passioni, a catastrofi che hanno allargato i confini, dentro cui si era aggirata finora questa forma d'arte.
Perché altri tentativi non avrebbero potuto farsi, cavando fuori nuove conseguenze da vecchie premesse, facendo germogliare semi rimasti addormentati, operando innesti fecondi, procurando anche ibridismi che trasporterebbero nel dominio dell'arte scenica i miracoli ottenuti dalla instancabile pazienza dei fioricultori?
– Anche il simbolismo?
A priori, io non oso dire di no. Tutto sta nel modo e nella misura.
Per parecchi secoli, l'arte drammatica si è servita del tipo; poi, per logica evoluzione, ha messo fuori l'individuo; prima, per esempio, con caratteristiche generali, l'avaro, il geloso; poi, un tal geloso, un tal avaro, Otello, il notaio Guerin. Presentare ora personaggi, caratteri, situazioni che, sorpassando il significato individuale, aprirebbero alla intelligenza e alla fantasia degli spettatori orizzonti piú larghi, e darebbero anche sensazioni piú profonde, piú complicate di quelle che sogliono scaturire da individui, da caratteri, da passioni, da situazioni determinate, perché mai, dico, dovrebbe sembrare a priori impossibile?
Questo però presuppone che un artista, intraprendendo un'opera d'arte, conosca innanzi tutto la intima essenza di quella forma e i limiti ad essa imposti dalla sua natura; presuppone che egli sappia che l'essenza d'una forma d'arte è superiore a qualunque potenza d'ingegno, e che neppure il genio sconvolge o inverte le funzioni vitali di essa, anzi le sente e le incarna piú compiutamente di ogni altro; cosí compiutamente talvolta, da esaurire tutte le possibilità d'una forma e chiuderne il ciclo di evoluzione.
La tragedia con personaggi moderni non è precisamente una novità. Invece di tragedia è stata chiamata dramma. Non è una novità il tentativo di trasportare in un soggetto moderno il Fato degli antichi greci. Zaccaria Werner l'ha fatto nel 1810, col suo Ventiquattro febbraio, di cui ci ha dato, se non sbaglio, la traduzione e uno studio critico il Mazzini. Questo non significa che non si possa ritentare con altro modo, con altra misura. Del Fato dei greci non abbiamo idee esatte; filosofi ed eruditi non sono punto di accordo intorno al vero significato di questa concezione religiosa. Pel D'Annunzio, per esempio, l'interpretazione del Fato consisterebbe nell'influenza dell'ambiente, nella violenza che la passione esercita su la ragione, nelle determinazioni prodotte nel cuore e nella intelligenza dagli studi particolari a un individuo.
Siamo lontani dal Fato greco, molto lontani da Edipo destinato ad essere uccisore del padre, marito della madre e per questi involontari delitti condannato ad errare cieco e miserabile pel mondo, fino a che non troverà requie nel bosco delle Furie e non diventerà genio benefico per la città di Atene. Non importa. Il pregio dell'indeterminatezza di certi concetti consiste appunto nelle diverse interpretazioni che essi permettono all'artista per scopi artistici. L'essenziale è che questi scopi artistici siano raggiunti.
Dicevo dunque che fino a pochi mesi fa dovevamo contentarci di conoscere le intenzioni di Gabriele d'Annunzio. Ora che abbiamo sotto gli occhi l'opera bell'e compiuta, cerchiamo di renderci conto se alle intenzioni ha corrisposto il fatto.
* * *
Siamo avvertiti dal titolo che non dobbiamo attenderci niente di reale, o poco assai. La città morta è Micene ricca d'oro, nell'Argolide sitibonda, come dicono le scolie con perdonabile pedanteria. Bisogna dimenticare che gli scavi di Micene furono fatti, tra il '73 e il '78, dal mecklemburghese Schliemann e dalla sua Signora, e non stupirsi se gli scavi del lavoro di fantasia dànno risultati alquanto diversi da quelli descritti dal vero scopritore delle tombe degli Atridi. Non si tratta di una ricostruzione, ma d'una creazione che toglie in prestito dalla realtà i particolari che gli fanno piú comodo. Il poeta ha diritto di agire cosí.
Le dramatis personae (dire personaggi è parso una volgarità?) sono indicate con semplici nomi, quasi per spogliarle di ogni bassa caratteristica. Forse notare, invece di Alessandro, Leonardo, Anna, Bianca-Maria, notare soltanto: Un Uomo, Un altr'uomo, Una donna, Una Vergine, Una Vecchia sarebbe stato meglio; lo dico senza malizia, giacché il poeta vuol raggiungere l'idealizzazione dei personaggi anche con questi espedienti. Nelle rappresentazioni di Parigi ha vestito le donne con larghe tuniche greche, e gli uomini... da biciclisti, come ci ha fatto sapere il Sarcey, se pure questa non è stata un'irriverente grossolanità del critico francese.
Tutti i personaggi sono oppressi dall'ossessione archeologica. Per Leonardo, la cosa è naturalissima; è invasato dall'idea di scoprire le tombe degli Atridi. Si capisce pure che un poeta come Alessandro, che ha voluto accompagnare l'amico nella difficile e nobile impresa, viva con l'immaginazione nel mondo mitologico di Omero e di Sofocle.
Sembra un po' strano che le due donne, Anna e Bianca-Maria, non leggano altro all'infuori dell'Antigone durante la monotonia delle lunghe giornate d'ozio; e che Anna, la cieca, racconti alla nutrice la favola della ninfa Io; eppure reca meraviglia che il poeta abbia ceduto un momento alle lusinghe della verosimiglianza facendo addormentare la vecchia a quel racconto.
Sarebbe ridicolo avere un attimo di curiosità intorno alla condizione dei personaggi. Anna è divenuta cieca dopo il matrimonio? O Alessandro, vinto da un impulso di generosissimo affetto, l'ha sposata proprio per quei begli occhi limpidi, ma muti alla luce? Immaginate quel che vi pare. Tanto piú che la stessa Anna sembra di scordarsi di essere cieca quando dice, parlando di Zacinto: Io non conosco l'isola; ma una sera, nel mio primo viaggio la vidi di lontano e mi pareva l'Isola dei Beati. Queste minuzie non hanno niente che fare con l'azione, col dramma intimo che i personaggi ci vogliono raccontare, adoperando un linguaggio adatto all'ambiente, tra quei tesori di arte antica che ricompaiono al sole dopo migliaia di secoli – avori, vesti, diademi, maschere del Re dei Re, di Clitemnestra, di Cassandra, ogni cosa di oro massiccio – tra i versi di Omero, di Eschilo e Sofocle che suonano a ogni istante su le labbra di tutti.
In una rappresentazione ideale noi possiamo prestare docile orecchio ai periodi ondulanti, spiegantisi con lenta maestà, scandentisi al pari dei greci trimetri, degli anapesti, dei tetrametri-trocaici, dei giambici eschilei e sofoclei. È vero che dobbiamo foggiarci uno special modo di recitazione simile a melopea, che di tratto in tratto, si esalti fino a divenire melodia; ma nella nostra condizione è lecito permetterci tutto.
I personaggi si sono sollevati molto in alto, in una regione dove possono sentire e pensare a modo loro, fuori d'ogni volgarità, fuori anche dell'umanità, ed esprimersi in conseguenza. Sono nel dramma, cioè nella tragedia, e nello stesso tempo quasi estranei a quel che accade dentro di loro e attorno a loro.
Anna, la cieca, sente, indovina che Bianca Maria le toglie il cuore del marito, eppure compatisce, perdona e pensa di eliminare l'ostacolo all'unione dei due cuori: se stessa.
Bianca-Maria è appena turbata dall'impuro amore che le è germogliato nel petto.
Alessandro, il poeta, fa serenamente olocausto della moglie al suo nuovo amore per Bianca-Maria; e quando la vergine gli domanda: – Che volete fare di me, della creatura che amo, che amate? Dite! – egli risponde: – Lasciate che il destino si compia.
Leonardo è preso da folle passione per la sorella; e venendo a cognizione ch'ella ama, riamata, Alessandro, pensa soltanto a purificare per sempre quella creatura, annegandola nelle acque della fonte Perseia. E allora si sente tutto puro anche lui!
– Se ella ora si levasse, potrebbe camminare su l'anima mia come su neve immacolata... S'ella rivivesse, tutti i miei pensieri per lei sarebbero come i gigli, come gigli.
Lo stesso Alessandro, il poeta innamorato, davanti al cadavere dell'amata non ha uno scatto; soltanto, con gesto imperioso, dice all'assassino, no, al purificatore: – Non la toccare! Non la toccare! – E l'altro, indietreggiando, risponde: – Non la tocco... Ella è tua, ella è tua!
Anna, la cieca, finalmente, inciampando nel cadavere dell'amica, ha un grido: – Ah! Vedo! Vedo!
E noi dobbiamo rimanere nell'ideale e ignorare precisamente in che modo ella veda.
* * *
Senza dubbio, c'è in tutto questo, nel concetto e nella forma, una continua cura di sfuggire il comune, sfuggire la logica della passione e delle circostanze. Nessun artificio teatrale è messo in opera per ottenere qualcuno dei soliti effetti; sono però adoprati altri artifici per raggiungere determinati effetti, e viziosi quanto quelli voluti evitare.
Tutti i personaggi hanno orrore di dire la parola giusta, di servirsi dell'espressione piú semplice e quindi piú efficace. Nel punto in cui l'anima loro sta per penetrare nell'intimo del pathos, si ritraggono súbito indietro, quasi abbiano paura di dire qualcosa di umano, di vero.
«Bianca Maria. Le mie labbra erano pure, sono pure... Per la memoria di mia madre, per il capo di mio fratello, io vi giuro, Anna, che rimarranno pure, cosí, suggellate dalle vostre stesse mani. (Ella preme su la sua bocca le mani della cieca).
«Anna. Non giurare! Non giurare! Tu pecchi contro la vita; è come se tu uccidessi tutte le rose della terra, per non donarle a chi le desidera. Abbi fede! Attendi ancora un poco!»
È un momento grave, solenne, veramente tragico... Ma Anna, a un tratto, divaga:
«Senti l'odore dei mirti? È inebriante come vino caldo...» E in quella divagazione lirica intorno ai mirti di Megara, alle rive di Zacinto (nessuno dei personaggi dice mai Zante!) e intorno alle voci misteriose delle fontane, non si sente il fremito di chi divaga a posta, per sviare il discorso, per reprimere la commozione. La parola non dice una cosa per farne intendere un'altra, la piú importante, no; si compiace della bella descrizione, delle dolci immagini, delle sottili comparazioni, fa un esercizio retorico.
Cosí ogni volta che la situazione drammatica vorrebbe forzar la mano al poeta.
La grande, la ieratica idealità greca? Ma tutto è umano in quella grande idealità. Antigone che affronta consapevolmente la morte per dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice e compire un atto religioso che avrebbe permesso allo spirito di lui il passaggio nell'Eliso, Antigone rimpiange la vita e le nozze. Edipo passa di angoscia in angoscia, tentando di trovarsi innocente, e rimanendo sempre dubbioso ed incredulo davanti alle prove piú evidenti della fatalità che lo incalza. E Filottete? Che accenti di dolore, che imprecazioni, che suppliche nella sua misera condizione!
La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nel concetto? Il dramma, la tragedia, giacché cosí si vuole, qui risulta per via di artifici. Quei personaggi pensano e agiscono a quel modo, perché il poeta ha voluto che pensassero e agissero a quel modo. Anzi, per dire la verità, essi non c'entrano. Il poeta ha parlato per conto loro, togliendo a ognuno di essi la propria personalità, fin nella maniera di esprimersi. E quando ho detto: agiscono ho parlato impropriamente; essi agiscono cosí poco, che non potrà sembrare esagerazione l'affermare che non agiscono affatto.
Ora niente è piú contrario all'essenza della tragedia greca, che è tutta azione; azione breve, ristretta, circoscritta dai limiti che le condizioni teatrali e l'indole di rappresentazione religiosa imponevano con gli intermezzi del coro, impaccioso residuo della forma sacra primitiva; coro che in Sofocle comincia già a trasformarsi in personaggio.
La grande, la ieratica idealità greca! Dove mai? Nella forma? Ora niente di piú semplice, di piú limpido, di piú trasparente della forma greca; cioè niente di piú perfettamente compenetrato col concetto che essa vuole esprimere. Nel caso però che si voleva fare un pastiche, bisognava imitare il Goethe, scegliere un soggetto greco, e dare ad esso quell'apparenza di bassorilievo ch'egli ha tentato di dare alla sua Ifigenia.
Ma anche a proposito del Goethe, si può ripetere il motto del Taine: Non c'è altre tragedie greche che le greche!
* * *
Non sarebbe qui inopportuno discutere le intenzioni del poeta. Ma a che prò?
Io capisco che un ingegno come quello di Gabriele D'Annunzio ha fatto cosí la Città morta, in massima parte perché ha voluto farla cosí. Nella Città morta c'è il germe di un'azione veramente drammatica, e qua e là un accenno di organico svolgimento di essa. Questo, forse, può significare che un'altra volta, se non vorrà fare a posta cosí, – cioè rinunziare di proposito ai perfezionamenti che la forma drammatica ha raggiunto dai greci fino a Shakespearc, e da Shakespeare fino ad oggi – Gabriele D'Annunzio ha tanta forza da prendere facilmente una rivincita, purché non dimentichi che l'essenza d'una forma d'arte è superiore a qualunque potenza d'ingegno, come l'ha sventuratamente dimenticato scrivendo questa Città morta, morta davvero come opera drammatica.
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