Carlo Goldoni
Il cavalier di buon gusto

ATTO TERZO

SCENA ULTIMA

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SCENA ULTIMA

 

Conte Ottavio servendo donna Eleonora, Florindo, Clarice, Lelio e Beatrice,

Dottore e Pantalone.

 

OTT. M’inchino alla marchesina.

ELEON. Buona sera, nipotina.

FLOR. Riverisco la mia adorabile marchesina.

CLAR. Serva divota. Perdonate l’incomodo. La compagnia è stata causa.

BEAT. Tutti, tutti da voi.

LEL. Anch’io ho l’onore d’inchinarmi.

DOTT. Viva la signora marchesina, viva centomila anni.

PANT. Anca mi con tutto el cuor. El cielo la benediga.

ROS. Ih, ih, grand’allegria, gran brio! Il conte Ottavio infonde l’allegria in tutti.

LEL. Sapete chi ci ha infusa l’allegria?

ROS. Chi mai?

LEL. Dieci bottiglie di Canarie squisito.

ROS. Oh, non voglio credere che siate spiritosi per questa ragione.

OTT. No, ragazza mia, non siamo allegri per questo; abbiamo bevuto da uomini, e non da bestie. Quello che ci fa essere allegri, è la buona compagnia che abbiamo goduta. Una tavola parca e sobria, ma con buona armonia di tutti, e data veramente di cuore. Queste dame gentili, questi cavalieri brillanti, tutto ha contribuito a farci godere una buona giornata. Ma quello che ci colma di giubbilo, ed ora ci presenta a voi col riso sulle labbra, siete voi stessa, adorabile marchesina. Abbiamo bevuto alla vostra salute. Mia cognata ha detto (testimoni tutti questi signori), ha detto: viva la marchesina mia nuora. Ecco il contino Florindo, che vi offerisce la mano. Ecco la contessa Beatrice, che come figlia vi accetta. Ecco un vostro servo, che onorerete col titolo di vostro zio.

ROS. Conte Ottavio, non posso rispondere alle vostre insinuazioni che coll’accettarle. Bacio la mano alla contessa Beatrice, che si degna di accettarmi per figlia. Giuro la mia fede al contino Florindo; e a voi, amorosissimo zio, rendo le più umili grazie, poiché mi ammettete all’onore di essere imparentata con voi.

BEAT. Marchesina, non so che dire. Se il cielo ha destinato un tal matrimonio, è giusto che si faccia. Se amerete mio figlio, io amerò voi egualmente. (Ho detto di sì, senza avvedermi di dirlo). (da sé)

ROS. (Il complimento è curioso, ma non importa). (da sé)

FLOR. Amatissima sposa, vi accerto del più perfetto amor mio, e per assicurarvi della mia fede, vi giuro che non saprò mai distaccarmi dal vostro .

ROS. (Troppe grazie). (da sé)

ELEON. Nipote, mi rallegro con voi. Sarete contenta.

ROS. Credo che non anderà molto, che anch’io dovrò rallegrarmi con voi.

ELEON. Chi sa? Può anch’esser di sì: conte Ottavio, vi ricordate del vostro impegno?

OTT. Di qual impegno, signora?

ELEON. Avete promesso manifestare la vostra sposa.

CLAR. Sì appunto. Levateci questa curiosità.

OTT. Son galantuomo. Ho promesso, manterrò la parola.

ROS. Anche il signor conte è sposo?

OTT. Sì, signora.

ROS. Due spose in una casa?

OTT. La mia sposa non vi darà fastidio.

BEAT. Anch’essa vorrà il trattamento da dama, e qualunque ella siasi, compatitemi, signor cognato, è un’imprudenza il farlo.

OTT. È un’imprudenza?

BEAT. Ma voi siete uno stolido? Non parlate? Non dite nulla? (a Florindo)

OTT. Via, dite anche voi la vostra ragione (a Florindo)

FLOR. Io non saprei che dire.

BEAT. Se non sapete che dire, vi suggerirò io qualche cosa. Dite al signor zio che la nostra casa è in disordine, che i suoi magnifici trattamenti l’hanno precipitata, e che altro non manca che il di lui matrimonio per terminare di rovinarla.

OTT. Avete inteso? Animo, dite su. (a Florindo)

FLOR. Ma... Se la cosa fosse così...

ELEON. Eh, che il nipote non ha da impacciarsi negli affari del zio.

CLAR. Sarebbe bella che il zio avesse a dipendere dal nipote.

BEAT. Queste due signore si riscaldano. Ognuna aspira a sì gran fortuna. Levatele di pena. Nominate la vostra sposa.

OTT. Orsù, vi vodar a tutti questo sì gran piacere. Signor Pantalone, queste dame desiderano ch’io faccia loro conoscere la mia sposa, ho promesso di farlo, ed è giusto che lo faccia. Signore mie, la sposa che ho scelta, la sposa ch’io amo, la sposa che ho sposata, sapete chi è? È una società col signor Pantalone de’ Bisognosi: osservate il contratto delle nostre nozze.

 

Colla presente Scrittura ecc.

Resta stabilita una Società per dieci anni fra il nobile signor Conte Ottavio Astolfi e il signor Pantalone de’ Bisognosi, avendo posto il primo Ducati 40.000 di capitale, ed il secondo 20.000, acciò sieno questi impiegati in negozio, e l’utile sia a porzione de’ sopraddetti compagni; e perché il signor Pantalone deve prestar il nome e l’assistenza al negozio, avrà di più sopra gl’intieri utili un dieci per cento.

 

Avete sentito? Ecco la mia sposa, ecco il mio contratto. In questa maniera si disingannerà chi parla di me con poco rispetto, e perché mi vede spendere più di quel che rendono l’entrate della famiglia, crede ch’io dissipi, giudica ch’io rovini la casa. Ecco la miniera donde ricavo il modo di mantenere i miei onesti piaceri, senza pregiudizio del patrimonio. La mercatura non disdice ad un cavaliere, ma per ragione dei pregiudizi degli uomini, mi è convenuto trattarla segretamente. Dame mie riverite, vi chiedo perdono della graziosa burla che ho preteso di farvi. Non crediate già ch’io l’abbia fatto per mancanza di stima e di rispetto verso di voi, ma per rendere ameno il vostro divertimento. Io non vomoglie. Tratterò tutte egualmente; converserò con chi mi vorrà ammettere alla sua conversazione; ma in avvenire mi guarderò molto bene da dir parole che possano lusingare, mentre ho veduto per esperienza, quanto male possono produrre gli scherzi che si dicono nelle conversazioni.

CLAR. Io per me ho sempre riso delle vostre parole; le ho sempre prese per barzellette, e mi maravigliava di donna Eleonora, che si lusingava che parlaste per lei.

ELEON. Io? Mi maraviglio di voi. Credete ch’io non conosca il conte Ottavio? Egli è avvezzo a burlare, ed io lo secondava per vedere la bella scena.

OTT. Lode al cielo, avendo queste dame perfettamente inteso ch’io scherzava, non ho verun rimorso d’aver loro recata alcuna lusinga. Signora cognata, siete anche voi disingannata ch’io sia la rovina di questa casa, ch’io abbia dilapidato il patrimonio di vostro figlio?

BEAT. Caro cognato, vi chiedo scusa de’ miei cattivi giudizi, e raccomando a voi l’economia della casa.

OTT. Se altri vi sono che pensino come voi, ora resteranno della mia puntualità persuasi.

LEL. Chi mai volete che pensi sinistramente di voi?

DOTT. Corpo di bacco! Io non posso tacere. Queste facce doppie non le posso soffrire. Sì, voglio parlare. Il signor Lelio è stato il primo a dire che il signor conte Ottavio fa di più di quello che far potrebbe, che è pieno di debiti e che anderà in rovina.

LEL. Mi maraviglio, non è vero.

BEAT. Pur troppo è vero; l’ha detto anche a me, e che siete altero e superbo.

OTT. Ingrato, incivile! Così parlate di chi vi fa padrone della sua tavola? Se fossi in casa mia, vi farei cacciar fuori dell’uscio da’ miei servidori.

LEL. Ho detto quello ch’io sentiva dire dagli altri.

OTT. Ora siete in obbligo di disdirvi.

LEL. Sì, lo farò, e lo saprete s’io lo farò. Intanto vi chiedo scusa, e nella vostra casa non ardirò mai più metter piede. (parte)

OTT. Gente perfida! gente indiscreta! Ma non facciamo che un uomo tristo turbi il sereno della nostra pace. Abbiamo a terminare la sera con allegria. In casa mia ho ordinata una piccola festa di ballo. Ora la sposa potrà venire. Donna Eleonora la condurrà.

ELEON. Vi prego a dispensarmi, mi duole il capo.

OTT. Verrà con mia cognata e colla baronessa Clarice.

CLAR. Vi rendo grazie, ho premura di ritornare a casa.

OTT. Eh via! Che sono queste malinconie? Abbiamo riso tutto il giorno; vogliamo ridere ancor la sera. Via, cara damina, venite. (a Clarice) Via venite, o mia mezz’età. (ad Eleonora) Presto, andiamo. Florindo, date mano alla sposa. Andiamo un poco a ballare.

ELEON. Non posso dir di no.

CLAR. Il conte Ottavio fa far le donne a suo modo.

BEAT. Marchesina, andiamo.

ROS. Eccomi tutta lieta e contenta.

OTT. Andiamo a divertirci, andiamo a godere di quel bene che il cielo e la fortuna ci danno. Goder il mondo onestamente, con buona allegria, senza offender nessuno, senza macchine e senza mormorazioni, è quella vita felice, che costituisce il Cavalier di buon gusto.

 

Fine della Commedia.


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