Carlo Goldoni
Il conte Chicchera

ATTO SECONDO

SCENA SECONDA Donna Lucrezia, poi Don Ippolito

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SCENA SECONDA


Donna Lucrezia, poi Don Ippolito


LUCR.

Lo dissi, che Lindora

Farmi volea l’insulto, e me l’ha fatto.

Vendicarmi saprò d’un simil tratto.

Però poco mi cale

Di perditalieve. Io di Fabrizio

Stata amante non sono; e più di lui

Perder mi spiacerebbe

D’Ippolito il bel cuore,

Per cui serbo nel sen verace amore.

Eccolo appunto. Oh cieli!

Mi sembra un po’ turbato;

Meco non crederei fosse cangiato.

IPP.

Signora, un mio dovere

Son qui ad adempir. Voi da Madama

Alterata partiste, ed io non ebbi

Di servirvi il piacer. Se nel cuor vostro

Di qualche inciviltà colpevol sono,

Per rispetto e dover chiedo perdono.

LUCR.

Per rispetto e dover? Non avrà parte

Nella scusa l’amor? Come! Tacete?

Da cavalier qual siete,

Parlatemi sincero: avete in petto

Qualche scintilla di novello affetto?

IPP.

Dirò: se, per esempio,

Stimassi un’altra bella, ed il mio volto

Piacesse agli occhi suoi,

Il mio dover non scorderei per voi.

LUCR.

Amor non vuol rispetto: o amar si deve

Per genio, per piacere; o inutilmente

Si sagrifica il cor. Non m’ingannate,

Con libertà parlate:

Celando il vero un mentitor voi siete;

Compatirvi saprò, se il ver direte.

IPP.

Oimè! con troppa forza

Vincolate il mio cor. Sì, lo confesso:

Da novella passion mi scorgo oppresso.

LUCR.

Basta così. Spietato!

Poiché vi scorgo ingrato,

A me più non pensate.

Sì, traditor, sì, mentitor, andate.


Scenda dal cielo un fulmine;

T’incenerisca, o perfido;

Ah, la spietata immagine

Voglio strappar dal sen.

Tu m’insegnasti a sciogliere

L’alma dal laccio orribile.

Amor cangiato in aspide

M’empie del suo velen. (parte)





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