Carlo Goldoni
Il frappatore

ATTO PRIMO

SCENA DECIMA

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SCENA DECIMA

 

Ottavio e Tonino in abito di soggezione, e detti.

 

TON.

(Vien facendo molte riverenze caricate, alle quali tutti ragionevolmente corrispondono)

FABR.

Signori, bramo l’onor di conoscerli, per avere il vantaggio di poterli servire.

OTT.

Questa lettera, che vi presento, vi darà conto di noi. ( una lettera a Fabrizio, che la riceve e legge. Frattanto ch’ei legge piano, Tonino seguita a far le sue riverenze affettate principalmente a Rosaura, che mostra di infastidirsi; e Ottavio di quando in quando guarda bruscamente Tonino, che si mortifica)

FABR.

Ho inteso. Il signor Ottavio napolitano, il signor Tonino veneziano non hanno che a comandarmi, che io non mancherò di servirli. Nipote mia, questi signori sono venuti a godere la nostra città; mi sono addirizzati da un amico mio di Venezia. Questa è mia nipote, e vostra serva. (ad Ottavio e a Tonino)

TON.

(Le sue solite riverenze)

OTT.

Ho il vantaggio di conoscere persone di merito, per le quali professo tutta la stima e la venerazione. Non dite niente, signor Tonino?

TON.

Dirò, dirò; son ancora un poco stracco dal viazo.

FABR.

Ehi! da sedere a questi signori. Favoriscano accomodarsi. (tutti siedono, fuor che Tonino, incantato a mirar Rosaura)

OTT.

(Via, che fate, che non sedete?) (piano a Tonino)

TON.

(La xe bella! bella da galantomo!) (fa varie riverenze, poi siede)

FABR.

Quel signor veneziano è più stato a Roma? (verso Tonino)

TON.

(La gh’ha un non so che, che m’incontra). (da sé)

OTT.

Parla con voi; dice se siete più stato a Roma. (a Tonino)

TON.

No, védela, no ghe son più stà. Cossa ghala nome quella signora? (verso Rosaura)

ROS.

Rosaura, per servirla.

TON.

Rosaura! mo che bel nome! Rosa aurea: una rosa d’oro. Le rose le se ghe vede in tel viso, l’oro m’imagino che la lo tegna sconto.

FLOR.

I nomi non hanno che fare colle qualità personali.

TON.

Sì, patron, anzi i nomi i par più bon, co i xe compagni della persona. Per esempio, mi son Tonin bella grazia; ghe par che al nome corrisponda la macchina? (fa qualche atteggiamento ridicolo)

OTT.

(Non istate a far delle sgarbatezze). (piano a Tonino)

TON.

(Se me criè, me confondo). (piano ad )

FLOR.

Veramente è grazioso il signor Tonino. (con ironia)

ROS.

Anzi graziosissimo. (con ironia)

TON.

Obbligatissimo alla bontà della so compitezza.

FABR.

Come gli piace questa nostra città?

TON.

Assae, assaissimo, infinitamente, massimamente perché la xe bella assae.

OTT.

(Per dire degli spropositi non vi è il più bravo). (da sé)

ROS.

Quanto tempo è che vossignoria è in Roma? (a Tonino)

TON.

Son arrivà stamattina.

ROS.

E così presto ha veduto le belle cose di Roma?

TON.

Eh, mi in t’una occhiada vedo tutto. E po cossa ghe xe de meggio da veder de quel che vedo?

FABR.

Che cosa è quello che voi vedete? (a Tonino)

TON.

Vedo el bel visetto de sta patrona, che lo stimo più del Tevere e del Culiseo.

ROS.

(Questa mi pare un’impertinenza). (da sé)

OTT.

(Non occorre che mi fidi più di condurlo). (da sé)

FABR.

Signore, qual confidenza vi prendete voi con mia nipote? (a Tonino)

TON.

La compatissa. Sala per cossa che sia vegnù a Roma?

FABR.

Non lo so, se non me lo dite.

TON.

Son vegnù a Roma per maridarme.

OTT.

(Che bestia!) (da sé)

FABR.

A Venezia non ci sono partiti per maritarvi?

TON.

A Venezia non ho trovà gnente, che me daga in tel genio; e sì, tutte le putte me correva drio. Co passava per strada, l’istà spezialmente, senza tabarro, colla perucca stuccada, ziogando alla bandiera col fazzoletto de renso, le correva tutte al balcon, le se buttava de logo; le se diseva una con l’altra: Putte, xe qua sior Tonin bella grazia: vardè el lustrissimo sior Tonin bella grazia. Le me buttava dei fiori, mi li chiappava per aria, me li metteva in sen. Gh’aveva una camisa de renso, che sfiamegava. Un per de maneghetti de recamo, alti fin su le ongie. Fava luser i anelli; tirava fora una scatola da tabacco, che m’aveva donà siora nona. Putte de qua, putte de , no saveva da che banda vardarme. Le me fava un mondo de burle. Chi me spuava adosso, chi mi schizzettava dell’acqua, chi buttava dei scorzi; ma gnente mostrava de aggradir le finezze, ma no le me piaseva nissuna. Le me pareva tutte senza sesto e senza modello. Mi son un putto che m’ha sempre piasso le cosse... cussì... alla romana. Me piase toscaneggiar. No me piase sentirme a dir: sioria, patron, lustrissimo, la reverisso; gh’ho gusto che le me diga: serva sua, serva divota, sì signore, illustrissimosignore. E cussì in circa; giusto come ella, patrona. (a Rosaura)

ROS.

(È la cosa più ridicola di questo mondo). (da sé)

OTT.

(Credo che lo soffrano per divertimento). (da sé)

FLOR.

A lei dunque si deve dare dell’illustrissimo. (a Tonino)

TON.

No vorla? Son zentilomo da Torzelo. Mio sior pare xe stà marcante, i mi parenti i xe tutti marcanti, ma mi m’ho volesto nobilitar; ho volesto comprar la nobiltà de Torzelo.

FABR.

Che è questo Torcello?

TON.

El xe un paese... mi no ghe son mai stà veramente; ma so che el ghe xe sto paese. Diseghelo vu, sior Ottavio, che saverè dir più pulito de mi.

OTT.

Torcello è una città antichissima, poche miglia distante da Venezia: distrutta quasi del tutto dalle guerre dei barbari, ma che conserva ancora alcuno de’ primi suoi privilegi, e specialmente un’immagine dell’antica sua nobiltà.

FLOR.

Quanto costa il farsi nobile di quel paese?

TON.

Diese ducati.

FLOR.

(Costa più un asino). (da sé)

OTT.

La maggior nobiltà del signor Tonino consiste in una entrata ch’egli avrà di sette o otto mila ducati l’anno.

TON.

E gh’ho un orto alla Zuecca, che gh’ha de tutto: peri, pomi, fighi, ua marzemina, e fina delle zizole e dei lazarioli.

FABR.

(Per ragione delle sue facoltà, non sarebbe cattivo partito per mia nipote, ma alle mani di questo suo condottiere, non è da compromettersi). (da sé)

TON.

E cussì, tornando al nostro proposito...

OTT.

Signori, è tempo che vi leviamo l’incomodo. (si alza)

TON.

Volè andar via cussì presto? (ad Ottavio)

OTT.

Non dobbiamo essere più importuni.

TON.

Dasseno che gh’aveva chiappà gusto a star qua.

FABR.

Perché, signore?

TON.

Perché co vedo una bella putta, m’incanto; mo in verità, siora... no m’arecordo più el so nome.

ROS.

Rosaura.

TON.

Sì, siora Rosaura, dasseno, più che la vardo, più la vardarave. La someggia tutta tutta a una bella putta che ho visto a Venezia, fia de un zaffo da barca.

ROS.

Un bell’onor che mi fate: paragonarmi alla figliuola di un birro. (parte)

TON.

Patrona... (salutandola)

FLOR.

In Roma non vi è bisogno di simili malagrazie. (a Tonino, e parte)

TON.

Sior marzocco caro.

OTT.

Compatite, signore, le sue stravaganze; non ha avuto educazione finora. Spero col tempo di regolarlo. Vi sono umilissimo servitore. (a Fabrizio)

FABR.

Ha bisogno veramente di essere meglio istruito.

TON.

Patron reverito. Co no saverò dove andar, vegnirò a favorirla. La me voggia ben, e se la vol maridar la so putta, la fazza capital de mi, e la s’arecorda che el lustrissimo sior Tonin bella grazia el xe vegnù a Roma a posta per maridarese. (parte)

OTT.

(Sciocco, bestia, ignorante). (da sé, e parte)

FABR.

Non ho veduto niente di più ridicolo. Ma è ricco, e questo basta per una giovane che ha poca dote. Chi sa? non lo voglio perder di vista. (parte)



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