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La signora Felicita, poi il signor Policastro
FELIC. Questo desiderio l'ho anch'io, perché mi tengono qui incatenata... Se avessi un poco di libertà, come hanno le altre, forse forse non ci penserei. Mai una volta a spasso, mai un anno in campagna...
POLIC. (In veste da camera, con un cartoccio di datteri in seno) Ogni giorno s'hanno a sentir a dire le medesime cose. Sono stufo io di sentirle. (verso la scena)
FELIC. Con chi l'ha, signor padre?
POLIC. L'ho, l'ho... Che cosa sono io? un ragazzo? Ho de' figliuoli grandi e grossi, e non ho bisogno che nessuno mi venga a far il dottore. (verso la scena, come sopra; poi si mangia un dattero)
FELIC. Di grazia, posso sapere io con chi parla ora?
POLIC. Parlo con quel satrapo di mio fratello.
FELIC. Ma egli non sente ora. Là non c'è, non lo vedo.
POLIC. E se ci fosse, non parlerei; perché, se io dico una parola, egli ne vuol dir dieci, e sempre vuol avere ragione.
FELIC. Davvero, davvero, questo signor zio vuol far troppo. Per che causa si sono attaccati presentemente?
POLIC. Ogni giorno non si sente altro da lui che rimproveri, che consigli, che dicerie e sbeffature. Chi sente lui, io sono un poltrone che non fa niente. Mi rimprovera perché levo un po' tardi, perché vado poco fuori di casa, perché non m'imbarazzo nelle cose della famiglia. Oh bella! siamo in due, un po' per uno. Egli bada agl'interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent'anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo. Ora è tempo che mi riposi. Gridi quanto vuole, dica quel che sa dire: io non voglio far niente. L'avete capita? io non voglio far niente. (si mangia un dattero)
FELIC. Certo; se il signor zio si leva presto, fa, gira e fatica, ha anche il piacere di esser egli il padrone di tutto; e vossignoria che è il maggiore, e ha la famiglia, non è padrone di niente.
POLIC. Di questo ci penso poco. Una lira al giorno mi basta, per i miei minuti piaceri. Ma non voglio far niente.
FELIC. Almeno, caro signor padre, pensi un poco ai suoi figli, non lasci che lo zio li tiranneggi così.
POLIC. Sicuro, che i miei figliuoli voglio che abbiano il lor bisogno.
FELIC. Ecco, ora tutte le persone civili che hanno il modo di poterlo fare, vanno in campagna, e noi dobbiamo star qui a nostro marcio dispetto.
POLIC. L'è che ci anderei anch'io un poco in villa: sono tant'anni che non ci si va.
FELIC. Ma perché non ci andiamo?
POLIC. Perché il signor Geronimo non vuole.
FELIC. E vossignoria non è padrone quanto lui?
POLIC. Lo sono certo padrone; ancor io lo sono.
POLIC. Comando ancor io, comando.
FELIC. Dunque dica che vuol andare.
POLIC. Ci anderemo noi. (mangiasi un dattero)
FELIC. Che mangia, signor padre?
POLIC. Mangio de' datteri; mi piacciono tanto. Ne volete voi? (le mostra il cartoccio)
FELIC. Obbligatissima. (li ricusa)
POLIC. Mi piace tanto a me il dolce, mi piace.
FELIC. Pensi un poco, signore, a persuadere il signor zio Geronimo che ci conduca in campagna, o che ci lasci andare da noi.
POLIC. E se non ci vorrà condurre, ci anderemo da noi.
FELIC. Meglio; ci averei più gusto io.
POLIC. Ci anderemo da noi. (si mangia un dattero)
FELIC. Il denaro non lo potrà negare.
FELIC. Vada dunque subito a dirglielo, prima ch'egli esca di casa.
POLIC. Non ci parlo troppo volentieri io con lui.
FELIC. Dunque, come s'ha da fare?
POLIC. Fate così, Felicita; diteglielo voi, diteglielo.
FELIC. Oh, a me non mi baderà. Se ci fosse anche lei...
POLIC. Ci sarò io.
FELIC. Eccolo che va via. (osservando fra le scene)
FELIC. Se non gli parliamo ora...
POLIC. Come volete ch'io faccia?
FELIC. Lo chiamerò io. Signor zio, dica, signor zio. (verso la scena)
POLIC. (Me n'anderei tanto volentieri). (da sé)
FELIC. Ora gli si dice tutto, e si parla schietto. (a Policastro)