Carlo Goldoni
Il poeta fanatico

ATTO SECONDO

SCENA TREDICESIMA

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SCENA TREDICESIMA

 

Sala illuminata.

 

Ottavio vestito pomposamente, seguito da tutti i personaggi. Siedono. Ottavio s’alza, e dopo aver fatto riverenze, legge e recita, come segue.

 

OTT. O ignorantissima temeraria gente, ascoltatori miei gentilissimi, o ignorantissima temeraria gente, che contro la poetica sovrumana virtù ingiurie pessime scaricate, eccoci a dispetto vostro alla fin fine uniti, ragunati e raccolti, per dar principio alle nostre accademiche esercitazioni! Ragion vuole che io, poiché del principesco onore insignito mi trovo, parola dell’istituto nostro altrui faccia; e del titolo nostro, e dell’accademica pastorale, primitiva, novella impresa nostra, tutti e ciascheduno di quei che mi ascoltano, cautamente avvertisca. Non senza ponderazione e mistero la novella pianta d’alloro abbiamo noi per impresa scelta, eletta e destinata, poiché, siccome le tenerelle piante crescono coll’andar del tempo, e della loro ombra ingombrano i larghi piani, noi così parimente, quali novelle piante dall’acqua d’Ippocrene innaffiate, andremo i teneri ramuscelli in forti e robusti rami cangiando. Crepate dunque, invidiosi, sì, crepate (Accademici gentilissimi, meco esclamate voi pure), sì, crepate d’invidia, invidiosissimi che noi invidiate poiché il serenissimo, biondo, canoro Apollo trasformerà questa nostra sontuosa e bene illuminata sala nel monte celebrato Parnaso, e le virtuose donne accademiche nostre in Muse trasformate saranno, e noi saremo in satiri convertiti; e il sommo Giove scaricherà sopra noi i fulmini della sua clemenza, e la provida madre terra ci aprirà il seno benefico, per seppellirci tutti in un abisso di gloria. Ho detto. (siede) Fidalma Ombrosia, a voi. (a Rosaura)

ROS. Dirò una breve canzone lirica.

OTT. (Sarà petrarchesca). (da sé)

ROS.

Amore, involto ne’ tuoi lacci ho il core

Né che si sciolga e lo sprigioni io chiedo.

Poiché in van spargerei le voci ai venti.

Chiedo soltanto che l’aspro rigore,

Onde assalire e circondar mi vedo,

Per te in parte si tempri, e si rallenti.

Chiedo de’ miei tormenti

Scemato il tristo e grave

Peso, che oppressa m’ave;

Chiedo che tua pietà mi porga aita,

Prima che manchi in sul finir mia vita.

Aspra è la piaga, che nel seno impressa

Fu dallo stral che non ferisce in vano,

E di colpo leggier pago non resta;

Ma dello stral la ferrea punta istessa

Del mio feritore in mano

Alla piaga letal balsamo appresta.

Quella che pria funesta

parve cagion di pianto,

Ora è il mio più bel vanto.

Perdona, Amor, se il pentimento è tardo,

Amo e stringo i tuoi lacci, e bacio il dardo.

Porre vogl’io delle bilance a un lato

L’aspre pene sofferte e i crudi affanni,

E dall’altro un piacer solo amoroso;

E vedrò questo di recente nato

Premer sua lance, e dei passati danni

Vincere il duro grave peso annoso.

Amor orgoglioso

Più in suo voler non sembra;

Di lui più non ramembra

L’alma, che lieta fassi, il crudel modo,

E lieta piango e de’ miei pianti io godo.

OTT. Bravissima. Evviva Fidalma Ombrosia. Ah, che ne dite, eh? Avete sentito mia figlia? Avete sentito il Petrarca? Oh figlia mia! Che tu sia benedetta.

ROS. Compatiranno.

OTT. Sì sì, compatiranno. Una canzone di questa sorta, compatiranno.

ELEON. (Avete sentito la petrarchesca selvatica?) (a Lelio)

LEL. (Credono che per fare una canzone o un sonetto petrarchesco, basti imitarlo rozzamente nei versi, e non pensano alla condotta, all’unità, alla forza, e precisamente alla bellezza degli epiteti e degli aggiunti). (a Eleonora)

OTT. Cintia Sirena, a voi.

ELEON. In difesa d’Amore, accusato ingiustamente di perfido e di crudele.

 

SONETTO

Perfido Amor? Chi è che d’Amor favella

Con sì poco rispetto, e ingrato tanto?

Del vero Amor, no, non conosce il vanto

Chi lui tiranno e menzognero appella.

Dolci, amabili son le sue quadrella,

D’allegrezza cagione, e non di pianto;

Ed è virtù dell’amoroso incanto,

Ch’ogni cosa all’amante orna ed abbella.

Non è Amor che comanda il serbar fede

All’empio, ingrato, sconoscente cuore,

Che non cura l’affetto, o non lo crede!

Chi ha dall’idol suo sdegno e rigore,

Cambi e cerchi in altrui miglior mercede,

E troverà sempre pietoso Amore. (tutti applaudiscono)

ELEON. Compatiranno.

OTT. Eh, può passare, può passare: non è petrarchesco, ma può passare. Avete sentito mia figlia?

FLOR. (Che dite del sonetto della signora Eleonora?) (a Rosaura)

ROS. (Non è suo: gliel’ha fatto un giovine studente, che lo ha confidato a Brighella). (a Florindo)

FLOR. (Non è cosa fuor di uso. Quasi tutte queste signore, che passano per poetesse, si fanno fare le composizioni dagli altri).

LEL.

Parlo a voi, Muse veraci,

Che cantare il ver solete.

Non sperate aver seguaci,

Ché derise in oggi siete.

Più non v’è chi dietro a voi

Perder voglia i giorni suoi.

Non entrate, o meschinelle,

Nello studio d’un legale,

Ché alle vostre rime belle

La bugia colà prevale;

E si studia onninamente

Attrappar qualche cliente.

Non andate, o poverette,

Da quel medico stupendo,

Dove a caso le ricette

Di sua man ci sta scrivendo.

Dar la vita è vostra sorte,

Egli studia a dar la morte.

Lungi, lungi, Muse amare,

Dalla casa del mercante.

Egli studia accumulare

Giorno e notte il suo contante;

E col peso e la misura

D’ingannare altrui procura.

Lungi pur dal giuocatore,

Che di voi disprezza l’arte,

Egli sparge il suo sudore

Sullo studio delle carte,

E procura il suo guadagno

Sulla strage del compagno.

Dalle donne brutte o belle

Voi sarete discacciate,

Che nel liscio della pelle

Spendon mezze le giornate.

Stanno a letto assai di giorno,

E la notte vanno attorno.

Una volta gli amoretti

Favoriva ancor la Musa;

Con canzoni e con sonetti

Far l’amor più non si usa.

Or la gente è persuasa,

Che sia meglio entrar in casa.

Le gran menti non si degnano

Oggi più di poesia;

Studian cose, cose insegnano

Da oscurar la fantasia;

E chi sale troppo in alto,

Fa talvolta un brutto salto.

Non sperate ritrovare

Dai poeti alcun ristoro:

Non pon darvi da mangiare,

Non ne han nemmen per loro;

Per la fame i poverelli

Son di voi fatti ribelli.

Ma se niuno vi vuol seco,

Se ciascun vi manda via,

Muse, su, venite meco,

Io vi prendo in compagnia.

Per il mondo andrem girando,

Gli altrui vizi criticando.

E chi il merito disprezza

Dei poeti e delle Muse,

Gente al male solo avvezza,

Che dal sen virtude escluse,

Proverà se meglio fia

Rispettar la poesia.

Poesia, virtù celeste,

Che in gran pregio un tempo fu,

Che da certe nuove teste

Non si stima in oggi più:

Perché d’altro sono amanti

I viziosi e gl’ignoranti.  (tutti applaudiscono)

OTT.

Perché d’altro sono amanti

I viziosi e gl’ignoranti.

Perché d’altro sono amanti

I viziosi e gl’ignoranti.

 

Ovano Pazzio, tenete. (gli un bacio) Breviano Bilio, a voi.

FLOR. Fileno chiede consiglio ad Amore, come abbia ad assicurarsi dell’affetto della sua Nice.

 

SONETTO

Dimmi, pietoso Amor, che far poss’io

Per meritar di Nice mia l’affetto?

Vuoi tu ch’io m’apra di mia mano il petto,

E che in dono al mio bene offra il cor mio?

Vuoi che asperso di pianto acerbo e rio,

A lei mi mostri in doloroso aspetto?

Vuoi ch’io peni senz’ombra di diletto,

Vuoi tu ch’io taccia, e in sen nutra il desio?

Vuoi ch’io l’attenda rispettoso, umile,

O ch’io segua da lunge i passi suoi?

Vuoi ch’io sia nell’amarla ardito, o vile?

Tutto, Amore, farò quel che più vuoi,

Per l’acquisto di lei vaga e gentile.

Deh, consigliami tu che far lo puoi.  (tutti applaudiscono)

OTT. Magronia Prudenziana, ora tocca a voi. (a Corallina)

COR. Signore, io non ho preparato niente.

OTT. Dite qualche cosa all’improvviso.

COR. Favorite darmi voi l’argomento.

OTT. Venite qui, rispondete a questo sonetto. A un sonetto mio, a un sonetto mio, estemporaneamente, in lode del glorioso, erudito femmineo sesso. Compatirete.

 

SONETTO

Spezzate omai le stridule conocchie,

Donne, e venite al fonte d’Aganippe,

Le canore v’attendono sirocchie,

E vi faranno omai tante Menippe.

E voi restate in mezzo alle ranocchie,

Genti, che avete le pupille lippe,

E Apollo mandi un nerbo che vi crocchie,

E v’acciacchi ben bene e spalle, e trippe.

La gloria di Parnaso a voi s’approccia;

Vedo le donne uscir fuori del vulgo,

E mi sento stillare a goccia, a goccia.

La fama delle femmine divulgo,

E tutto fuori della mortal buccia,

Delle femmine in mezzo anch’io rifulgo.

COR. Ringraziamento delle donne. Sonetto colle medesime maledettissime rime.

OTT. Io scrivo sempre con queste rime difficili.

COR.

Le donne avvezze sono alle conocchie,

soglion bere l’acqua d’Aganippe.

Non sanno alle compagne, o alle sirocchie,

Di Menippo parlare, o di Menippe.

Giovani cantan come le ranocchie,

E quando per l’età diventan lippe,

Forz’è che ognun le sprezzi, ognun le crocchie,

Poiché buone non son, che da far trippe.

La lode vostra al vero non s’approccia;

Ed io, che nata sono in mezzo al vulgo,

Sudo per il rossor più d’una goccia.

Ma poiché in grazia vostra mi divulgo,

Vestita anch’io della novella buccia,

Fra cotante pazzie, pazza rifulgo.

OTT. Oh bello! Oh brava! Evviva. Oh che roba! Oh che roba! A Roma, a Roma, al Campidoglio, al Campidoglio. Meritate essere incoronata, e se nessuno lo vorrà fare, v’incoronerò io, v’incoronerò io.

ELEON. (Gran miracoli che si fanno per quattro spropositi di una pettegola). (a Lelio)

LEL. (Può essere che quel sonetto lo abbia veduto prima d’adesso). (a Eleonora)

OTT. Ora tocca a voi, Adriatico Pantalonico.

TON. Comandela che la serva de quattro spropositi all’improvviso?

OTT. Via, sì, dite qualche cosa di bello.

TON. Le favorissa de darme l’argomento.

FLOR. Ve lo darò io. Dite se nelle donne sia più stimabile la bellezza o la grazia.

TON.

Amor, che delle donne ti te val2

Per mettere in caena i nostri cuori,

Dimme se della donna più preval

I bei graziosi vezzi o i bei colori.

La femmena, che a nu fa ben e mal,

Ora dandone gusti, ora dolori,

Per venzer sempre, e trionfar segura,

La dopera a so tempo arte e natura.

Amor, ti che ti pol andar drento

In tel cuor di della donna a bisegar,

Che ti sa l’arte, el modo e el fondamento,

Come possa la donna innamorar,

Te prego, in grazia, damme sto contento,

Fa che el vero a capir possa arrivar,

E sappia dir co un poco de dolcezza,

Se più possa la grazia o la bellezza.

Supplico chi m’ascolta aver pazienza,

E voler quel che digo perdonar,

Perché prevedo che la mia sentenza

Ugual diletto a tutti no pol dar.

Amor m’ispira, e spero a sufficienza

De grazia e de beltà poder parlar,

A una delle do s’aspetta el vanto,

E mi dirò la mia opinion col canto.

Il ciel benigno e provido

Vedendo che più fragile

Dell’uomo era la femmina,

Per renderla più amabile,

Per farla compatibile,

Le diè bellezza e grazia.

Le diè ecc.

Quel che bellezza chiamasi

Talora è un viso candido,

Talora bruno o pallido;

Due luci belle diconsi

Talor, perché negrissime,

O pur di color vario;

Talor perché allegrissime,

Talor perché patetiche;

E belle son, se piacciono.

E belle ecc.

Chi vuol la donna picciola,

Chi grande la desidera;

Del grasso chi dilettasi,

E chi la vuol magrissima;

Chi vuol che sappia ridere

Chi vuol che sappia piangere,

E belle chiaman gli uomini

Sol quelle che a lor piacciono.

Sol quelle ecc.

Bellezza è dunque varia,

E non ha certo merito,

E non può i cori accendere,

Se a lei non somministrasi

Valor da noi medesimi.

Valor ecc.

Ma non così la grazia,

La qual da tutti ammirasi,

E d’essa ognun dilettasi,

E ognun, che ad essa accostasi,

Si sente nel cuor ardere.

Si sente ecc.

La grazia, ch’è indelebile,

In una brava femmina

In vecchia età conservasi;

Ma una sgarbata giovine,

Ancorché sia bellissima,

Quando un pochino invecchia,

Si rende altrui ridicola.

Si rende ecc.

Più vale assai lo spirito

D’una bellezza stolida:

Le donne assai più possono

Col vezzo, che col minio.

Bellezza va prestissimo,

La grazia è più durabile:

Quest’è la mia sentenzia.

Quest’è ecc.

Graziose femmine

Se qui m’ascoltano,

Il mio gradiscano

Sincero cor.

E le bellissime

Deh mi perdonino

Ché inimicissimo

Non son di lor.

Molto esse possono

Col volto amabile,

Coll’adorabile

Loro beltà.

Ma della grazia

È il pregio massimo,

Che ancor conservasi

Nell’altra età.

Però confessovi,

Che a me pur piacciono,

Vermiglie o candide,

Le donne ognor,

Che mi ferirono,

E mi feriscono,

Ed esser dubito

Ferito ancor.

Amor, ti ti ha deciso che val più

La grazia femminil della beltà,

Ma parlemose schietto fra de nu:

L’una e l’altra xe forte in verità.

Se spirito gh’avesse, e più virtù,

Diria de tutte do l’attività.

Fenisso, perché v’ho seccà abbastanza;

Se ho dito mal, domando perdonanza.

OTT. Evviva, evviva.

Se ho detto mal, domando perdonanza.

Risuoni questa stanza.

Viva la poesia!

Sonatori, sonate sinfonia.

(si suona sinfonia, e tutti partono)






p. -
2 Cantando sull’aria degli improvvisatori.



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