Carlo Goldoni
Componimenti poetici

POESIE IN LINGUA E IN DIALETTO DEL PERIODO VENEZIANO (1748 - 1762)

ALL’ILLUSTRISS. SIGNOR AVVOCATO GIUSEPPE ALCAINI Capitolo in occasione che terminò gloriosamente il suo Reggimento in Bergamo Sua Eccellenza il Signor Bastian Venier in oggi procurator di S. Marco per merito.

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ALL’ILLUSTRISS. SIGNOR AVVOCATO GIUSEPPE ALCAINI

Capitolo in occasione che terminò gloriosamente il suo Reggimento in Bergamo

Sua Eccellenza il Signor Bastian Venier in oggi procurator di S. Marco per merito.

 

Povero me! che professione è questa?

Signor Giuseppe mio, son disperato,

Non so dove mi sia, non ho più testa.

So che gli uomini tutti, in ogni stato,

Trovan che dir contro la lor fortuna,

E che ciascun per travagliare è nato.

Ma io per verità scelsi quell’una,

Fra tante strade al galantuomo aperte,

Che poco grano e molta paglia aduna.

Chi viene in casa mia mira coperte

Le tavole, i scaffali, e fin le sedie

D’ordinazioni che mi sono offerte.

Chi vuol Drami da me, chi vuol Commedie,

Chi un Capitolo chiede, e chi un Sonetto,

Per far che il mondo a spese mie s’attedie.

Non si fa un matrimonio benedetto,

Non si veste una santa religiosa,

Ch’io non mi vegga a verseggiar costretto.

Quando fissa ho la mente in una cosa,

Vien l’altra, ed ho a lasciar quella per questa,

E ciascuna di loro è premurosa.

Vien l’Impresario a farmi la richiesta

Di un drama musical; prendo l’impegno,

E il mio cervello a immaginar si appresta.

Ecco, un Comico arriva, e mostra sdegno,

Perch’io posponga la commedia al drama:

Io la commedia terminar m’impegno.

Pongomi a verseggiar: manda una dama

A dirmi che fa monaca la figlia,

Che qualcosa del mio da lei si brama.

Il dovere mi sprona e mi consiglia.

Presto, presto, si canti, e si dia lode

Alla vergine saggia, e alla famiglia.

Prendo in mano la penna, e venir s’ode

Uno a dirmi: Non sai che si marita

Una vaga donzella a un giovin prode?

L’illustre casa a verseggiar t’invita:

Lascia, lascia ogni studio in abbandono;

Se tu lo neghi, il cavalier s’irrita.

Da mille cose imbarazzato sono,

Di buon core per tutti io m’affatico,

Ma poi col presto non s’accorda il buono.

L’altrier, immerso nel fatale intrico

Di contentare un mastro di cappella,

Nel concluder l’arietta ecco un amico

In nome vostro a verseggiar m’appella.

Il comando mi onora, io lo confesso,

Ma la fretta mi cruccia e mi flagella.

Chiedo che qualche mi sia concesso:

Signor no, mi risponde l’Antonini,

Quel ch’hai da far, lo devi fare adesso.

Tutto devi lasciar. Vuol l’Alcaini

Cantar le glorie del Venier sublime,

Saggio rettor di Bergamo ai confini.

E di farlo desia colle tue rime,

E t’invita a salir del bel Parnaso,

Per il veneto eroe, le sacre cime.

Mi sento allor da un bel furore invaso;

Getto il drama in un canto, e mi preparo

Versi cantar proporzionati al caso.

Formar desìo dell’argomento al paro

Carmi sonori, ed imitar vorrei

Il Chiabrera, il Petrarca, il Bembo e il Caro.

Ma se mai del Burchiello i versi miei

Volessero seguir la foggia strana,

Contro la musa mia bestemmierei.

Ho veduto stampata una Tartana

Piena di versi rancidi sciapiti,

Versi da spaventare una befana.

Versi dal saggio imitator conditi

Col sale acuto della maldicenza,

Pieni di falsi sentimenti arditi.

Ma conceder si può questa licenza

A chi in collera va colla fortuna,

Che per lui non ha molta compiacenza.

Chi dice mal senza ragione alcuna,

Chi non prova gli assunti e gli argomenti,

Fa come il cane che abbaia alla luna.

Vo cercando le rime e i sentimenti

Dalle oneste persone, e gli scrittori

Cerco imitar che piacciono alle genti.

Veggio il saggio Venier fra’ suoi splendori

Le bilance d’Astrea tenere in mano,

Sprezzare il fasto, e meritar gli onori.

Venero il sangue illustre veterano,

Che fin dai primi secoli gloriosi

Accrebbe il vanto al nome veneziano.

Venero i Dogi e i Senator famosi,

E i guerrier forti, e gli orator preclari,

E della Patria i difensor gelosi.

E Sebastiano i fortunati e chiari

Avi sublimi secondare i’ veggio

Con talenti felici e singolari.

Or più che mai di Bergamo nel seggio

Splendono vagamente a lui d’intorno

Quelle virtudi che gli fan corteggio.

E tornando dell’Adria. al bel soggiorno,

Fra i padri eccelsi lo vedran le genti

Di nuovi merti e nuovi fregi adorno.

Odo le voci querule e dolenti

De’ Bergamaschi alla partenza amara,

Spiegar la doglia in rispettosi accenti,

Chiamar la sorte dei suoi doni avara,

Tesser di lui la memoranda istoria,

Da cui clemenza a regolarsi impara.

Odo i cigni eternar la sua memoria,

Veggo affollarsi il popolo divoto,

Ed egli umile starsi in tanta gloria.

Il suo talento, il suo saper mi è noto,

L’alma sua generosa, e il bel costume

Di prevenir de’ bisognosi il voto.

Alzo le penne all’apollineo nume,

Scuoto la polve che m’aggrava, e il fango,

E all’uopo chiedo alla mia mente il lume.

Vorrei salir de’ primi vati al rango;

Ma la mia musa al basso stile avvezza,

Non regge al volo, e qual io fui, rimango.

Ogni stile può aver la sua bellezza:

Piace talun nell’imitare il Berni,

Che, seguendo il Petrarca, si disprezza.

Ma io ne’ miei componimenti alterni

Or parlando del volgo, or degli eroi,

Non ho stil che mi regga e mi governi.

Scrivo comica scena, e sbalzo poi

In ottave, in canzoni, in madrigali;

Ma come, santo Dio, ditelo voi.

Tanti vari argomenti ed ineguali

Mi confondon la mente e l’intelletto,

Ch’uomini non si danno universali.

Da voi, signor, rimproverarmi aspetto

Che basse rime alla grand’opra impiego,

Ed io stesso conosco il mio difetto.

Dispensatemi in grazia, io ve ne priego,

Altri scegliete al nobile disegno,

Atto i’ non sono a sì sublime impiego,

Fremo di rabbia, ed ho me stesso a sdegno,

Strapazzato veggendo il mio lavoro

In un mestier di sì scabroso impegno.

Eppure allor ch’io passeggiava il Foro

Colla vesta talare e il parruccone,

Mi sembravan le muse il mio ristoro.

Son per natura un pocolin poltrone;

Piacemi dormir tardi, e mi poneva

La campana di terza in soggezione.

Gran faccende a Palazzo io non faceva,

Tanti avvocati mi mettean paura,

Ed il merito vostro io non aveva.

In voi l’arte si unisce alla natura,

Ed accorda ciascun che siete al mondo

Nato per la felice avvocatura:

Cauto in propor, nell’arringar facondo,

Forte, facile, chiaro e convincente,

Grave, occorrendo, e all’occasion giocondo.

Benedica il Signor la vostra mente,

Vi mantenga la voce alta e sonora:

Ché chi voce non ha, non può far niente.

Ma se il vostro saper tanto si onora,

Se stil purgato e bei pensieri avete,

Al presente desio supplite ancora.

Dell’illustre Venier che in cuor tenete,

Voi potete cantar le glorie in prosa,

Se nato al mondo a verseggiar non siete.

L’arte oratoria è arte strepitosa,

Che fa onore agli eroi dicendo il vero;

Passa la Poesia per favolosa.

Ecco aperto di laudi il bel sentiero.

Ecco d’encomi il cavalier più degno;

Panegirico fate a lui sincero,

Ch’io supplire non posso al grand’impegno.

 

 


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