Carlo Goldoni
Componimenti poetici

L’OMBRA DI TITO LIVIO

PER GLI SPONSALI FRA IL NOBIL UOMO SIG. MARCO PRIULI, E LA NOBIL DONNA EUGENIA DONŔ   AL SIGNOR SANTIROTA SONETTO COLLA CODA

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PER GLI SPONSALI FRA IL NOBIL UOMO SIG. MARCO PRIULI,

E LA NOBIL DONNA EUGENIA DONÀ

 

AL SIGNOR SANTIROTA SONETTO COLLA CODA

 

Talun per domandar modestamente,

Da te, dice, Goldon, vorre’ un sonetto,

Qual se un sonetto, buon passabilmente,

Non costasse fatica all’intelletto.

Quando chiesto mi fu, sinceramente

Non ne fo, non so farne, a tutti ho detto;

Faccio più volentier, più facilmente,

Un capitolo, un’oda, un poemetto.

Altro non vi volea, perch’io ’l facessi,

Che il divieto di farlo. Siam noi vati

Dominati talor da un estro matto.

Mi diceste di far quel ch’io volessi,

Che tutti i versi miei vi sarien grati,

Fuorché un sonetto, ed i’ un sonetto ho fatto.

Ma voglio ad ogni patto

Che scontento di me non siate appieno,

Col porvi sotto un po’ di coda almeno.

E se dispetto in seno

Destavi il mio sonetto, lacerate

Quello; e la coda, se vi par, stampate,

Ch’altre se ne son date,

Composizion bellissime alla moda,

Che pon star senza capo e senza coda:

Poiché lo stil si loda

D’una penna immortal toscana, pura,

A dispetto dell’arte e di natura.

Ma il mondo or si figura

Una Raccolta aver dal Santirota

Di gente all’ordin letterario nota;

Non come tante, vuota,

O mal piena d’inutili sermoni,

O di critiche al Chiari ed al Goldoni:

Di que’ poeti buoni

Che sdegnano di star co’ ma’ poeti,

Che non son, quanto basta, oscuri e vieti.

Ma che si stien pur lieti,

Che il mio sonetto e questa vil codaccia

Non farà loro arroventar la faccia.

Per isfuggir la taccia

Con simil lezzo d’imbrattar le carte,

Che non si stampi, o che si stampi a parte.

Perché ai mastri dell’arte

Non facciasi tal onta e tal sopruso,

Contento andrò dalla Raccolta escluso:

Poiché sentir son uso

Carmi offrir da più d’un stupendi e rari,

Purché non v’entri né il Goldon, né il Chiari.

Ma via, se vi son cari

Anche i miei versi, non vi tengo a bada:

Eccoli, e sia di lor qual più v’aggrada.

E se per sorte accada,

Ch’uso vogliate far delle mie note,

Quel che ho scritto finor, cassar si punte;

Ché son troppo remote

Dal venerando altissimo soggetto

Le inezie che finor, scherzando, ho detto.

Si laceri il sonetto;

Si laceri la coda, e se vi pare,

Principiate da qui, se si ha a stampare.

O donne agli uomin care,

Vera consolazion del sesso nostro,

Bene sparso è per voi pianto ed inchiostro.

Scriver per onor vostro

È giustizia, è dovere; è nobil vanto,

E viltade non è d’amore il pianto.

All’amoroso incanto

Chi resister mai può di due pupille,

Piene di soavissime faville?

Deh mille volte e mille

Cantisi lo splendor della bellezza,

Veracissimo fonte di dolcezza.

Chi v’odia, chi vi sprezza,

Donne gentili, di letizia piene,

Su la terra non abbia un di bene.

O santo, o santo Imene,

Tu che togliendo ogni timor dal petto,

Rendi il tenero amor dolce e perfetto,

Laudato e benedetto

Sia lo tuo laccio e la tua fiamma pura,

Vita del mondo, vita di natura.

Chi barbara, chi dura

Chiama la face tua, vivente ingrato,

Merta non respirar, non esser nato:

Merta che il dio bendato,

De’ torti suoi vendicatore astuto,

Aspetti a farlo innamorar canuto.

Ché tale è lo statuto

Dell’impero d’amor: Chi in giovinezza

Beffe si fe’ di lui, pianga in vecchiezza.

La pace e l’allegrezza

Amore ed Imeneo spargano a gara

Sopra questa d’eroi coppia preclara:

Coppia che l’arte impara

D’amare e riamar da virtù sola,

Che ogni tristezza e ogni sospetto invola.

Quel bambinel che vola

Di tetto in tetto a saettar i cuori,

Coronato vegg’io di rose e allori.

Rendetegli gli onori,

Donne, che a lui si denno; e voi che osate

Il fanciullo oltraggiar, di lui tremate.

Suoi difensor mirate

Marco ed Eugenia, e ad imparar da loro

Ite, qual sia dell’alme Amor ristoro.

Onor d’Adria e decoro,

Sposo gentil, magnanimo e cortese,

Cui pria la patria, e poi Cupido accese,

Le memorande imprese

L’illustre sangue a rinnovar t’invita;

Ama la sposa, e i tuoi grand’avi imita.

E tu dal sangue uscita

D’eccelso genitor, sposa gentile,

Che incontro vai a tanta gloria umile,

Segui l’usato stile

Di bontade che avesti ognora in pregio,

Ché di donna bontade è il maggior fregio;

E dallo sposo egregio

Tuo ben soltanto, e la tua pace attendi,

E per prezzo d’amore, amor gli rendi.

Pronuba ornai discendi,

Bella dea d’Amatunta... Ah, Santirota,

La via ch’io presi è al mio costume ignota.

Un povero idïota

Cosa sa d’Amatunta e di Ciprigna?

Veggio già chi mi guata e chi sogghigna;

E veggio chi digrigna

Perché ho posta la man nell’altrui messe:

Cose che a’ pari miei non son permesse.

Vorrei, se si potesse,

Correggere l’error, ma il tempo è breve,

E la fatica a questi m’è greve.

Dunque levar si deve

Tutto, dal mezzo in giù, quel ch’ora ho scritto

Che stamparlo com’è, saria un delitto.

Però lo starmi zitto

Era meglio per me; se via togliete

Il principio ed il fin, che cosa avrete?

Un galantuom voi siete:

Se una frulla non val la mia canzone,

Vi appagherete almen dell’intenzione.

E alla nova Edizione

Delle Opere mie, che or fo stampare,

Voi mi farete gli sposi associare.

 

 


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