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L’OMBRA DI TITO LIVIO
L’ANNO FELICE PER LA VESTIZIONE DELLA SIGNORA MARIA FRANCESCA BELLONI CAPITOLO
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L’ANNO FELICE PER LA VESTIZIONE
DELLA SIGNORA MARIA FRANCESCA BELLONI
L’anno ha dodici mesi, e vi è fra quelli
Il migliore e il peggior, non per se stessi,
Ma pel vario pensar di più cervelli.
Quelli che soffron di calor gli eccessi,
Odiano il luglio, ed al gennaio avversi
Sono i gelati, e da miseria oppressi.
Se curioso è talun, se vuol sapersi
Quai sono i mesi che a me son contrari,
Veramente dirò che son diversi;
Mentre, per quanto dicono i lunari,
In ogni mese faticar io deggio,
Né mai vien quel da metter via danari.
Pur, fra i dodici mesi, per me i peggio
Son l’aprile e il settembre, e son due mesi
Ne’ quai per mio destin smanio e vaneggio.
E pur son quei che, non gelati o accesi
Temprano la stagion soavemente,
E dalle genti pei miglior son presi.
Eccovi la ragion chiara e patente
Dell’odio mio: perché si fanno in essi
Monache e matrimoni eternamente.
E per grazia e bontà di quegli stessi
Che han per me dell’amore, alla richiesta
Guai se presto non fossi, o un no dicessi.
Povero me! che professione è questa?
Lavorar dieci mesi a buon mercato,
E due mesi di rotta e di tempesta?
Se mai del tempo economo son stato,
Or esserlo dovrei, che all’impressione
Nova dell’Opre mie sono impegnato.
Ma no, per la medesima ragione
Scrivo più volentier, ché mi lusingo
D’acquistare associati all’edizione.
Lungi, malinconia. Scrivo, e m’accingo
Tutti i mesi dell’anno a benedire,
E le loro dolcezze orno e dipingo.
Ma pria di porvi man, mi convien dire
Che chi brama goder sì lieti mesi,
Fuori del mondo gli conviene uscire.
Poiché, per dir quello che a dire intesi,
Sol ne’ chiostri si gode L’anno intero,
Ed ecco le ragion chiare e palesi.
L’inverno, per esempio, in monistero
Non mancan legna ad iscaldar ben bene
Le stanze, il letto, ed ogni luogo austero.
Chiuso e difeso ogni angolo si tiene
Dagl’insulti dell’aria, e in parlatorio
Lo scaldino portar non isconviene;
E ogni monaca seco in refettorio
Porta il suo scaldapiedi, e seco il porta
Nel penitente armonico oratorio.
Per quello che la cronaca rapporta,
La mattina, nel gel della stagione,
Lo stomaco per tempo si conforta;
E si fa una discreta colezione,
Per resister con forza e con vigore
Ai santi pesi della Religione.
Se Borea soffia, dalla tana fuore
Non escono, perché lor non accada
Non poter salmeggiar per raffreddore.
L’obbligo vuole che da noi si vada
Alla messa col ghiaccio, e l’acqua, e il vento :
Esse vi van senza passar la strada.
E se il verno degli uomini è il tormento,
È un bel piacere, è una delizia vera
Star l’inverno serrati in un convento.
Quando giugne dopoi la primavera,
Tutti ci consoliam, non v’è che dire,
Ma non godiam felicitade intera.
Solo nel monister si può fruire
Tutto il bene che dona il Ciel cortese
Nella bella stagion del rifiorire.
Esse, a cui Providenza fa le spese,
Godono della terra i primi frutti,
Ché gli orti lor ne abbondano ogni mese.
Scendono nel giardino, e veggon tutti
Gli accidenti novei della natura,
E i rami rivestir dal gel distrutti.
E nella lor santissima clausura
Godono quel piacer della campagna,
Che a noi spesso il destin ritarda o fura.
Né di tempesta né di sol si lagna
La monaca, né d’aspra carestia,
Ché al suon del campanel si veste e magna.
Ma delle pie sorelle in compagnia
Gode sempre il buon tempo, ancor se piove,
Al Signore servendo in allegria.
Allora quando la stagion si move,
Non hanno quel pensier che noi abbiamo
Di struggere la borsa in mode nuove.
Sempre a un modo vestir noi le veggiamo:
Le tonache di sopra son le stesse
Né cambian sempre, come noi facciamo.
Se sono poi da qualche male oppresse,
Fanno le purghe lor la primavera,
Servite in monister quai principesse.
Il medico han pagato: hanno un’intera
Spezieria al lor comando, e le converse
Pronte al bisogno lor, mattina e sera.
E siccome dividonsi in diverse
Piccole compagnie di buone amiche,
Non son mai sole in ipocondria immerse.
Ma tra conversazion saggie e pudiche
Passano il tempo e terminan la cura,
Tornando alle dolcissime fatiche.
Giunta poi la stagion che il gran matura,
Ch’arde la terra e incomoda i viventi,
Da cui l’uom ripararsi in van procura,
È una felicità star nei conventi
Al coperto dal sol, da cento fori
L’aure spirando, e penetrando i venti.
Possono la mattina ai primi albori
Sorgere a lor piacere, e poi star chiuse
E riposar ne’ più cocenti ardori:
Poiché gli è ver che faticar son use
Nelle loro obbedienze, ma saranno
L’ore moleste da fatica escluse.
L’obbligo che no’ abbiamo, elle non hanno
Di vestirsi e soffrir per convenienza,
Poiché fuori di casa esse non vanno.
Del solleon nella maggior fervenza
Lo stare in soggezione è un purgatorio,
Ed esse piucché noi ne pon far senza.
Soffrono con pazienza il parlatorio,
Ma col pretesto di un dolor di testa
Sfuggono qualche volta il refettorio.
Se il caldo le inquïeta e le molesta,
Nelle lor celle se ne stan spogliate,
Ché fra donne non è cosa inonesta.
In somma noi peniam tutto l’estate,
E in convento si sta soavemente
A passare, a goder l’ore beate.
Vien poi l’autunno a consolar la gente:
Ma la consolazion che noi godiamo,
Del Chiostro in paragon non val nïente.
Chiusi fra mura di città viviamo,
E volendo sortire alla campagna
Incomodarci e spendere dobbiamo.
E quello che in un anno si guadagna
Coll’entrate, o facendo alcun mestiere,
Fuori in un mese a villeggiar si magna.
E carissimo costa a noi il piacere,
Cui la monaca gode a buon mercato,
Dentro al suo monister stando a sedere.
L’orto, il brolo, il giardino han preparato,
E le lor passeggiate alla verdura,
E le frutta migliori al lor palato.
E lo spasso, e il piacer che si misura
Con regola e con santa discrezione,
Diletta e non opprime la natura.
Per esempio, fra noi van le persone
Nei diversi piacer talmente immerse,
Che perdon la salute e la ragione.
Sono le ville ai nostri dì converse
In tripudi, in cuccagne, in tai stravizi,
Che del vero piacer le idee son perse.
Trionfa il lusso, dominano i vizi,
E ciò che della vita era il ristoro
Or produce alla vita i precipizi.
E chi gode mai sempre un ver tesoro
Con pace, con diletto, e santamente,
Son le donzelle destinate al coro.
E di questa e di quella non si sente
Dir: dalla villa inferma è ritornata;
Come succede fra la nostra gente.
E i medici lo san, che la giornata
Aspettano che torni dalla villa
La gente dal piacer precipitata.
E val, più d’ogni spasso, una scintilla
Di quel ben che si gode in monistero
Dalla discreta monaca tranquilla.
Onde so che ho ben detto, e ho detto il vero:
Che le sante donzelle in umil chiostro
Godon felicemente l’anno intero.
E lo dico, e lo provo, e lo dimostro,
Che godon ora un Paradiso in terra,
E che l’altro sarà più suo che nostro:
Ché se ardisce il Demonio mover guerra
Dove regna virtù salda e perfetta,
La porta in faccia al seduttor si serra.
O dolce vita! oh vita benedetta!
Mi consolo con voi, Maria Francesca,
Che da Dio foste a tanta grazia eletta.
Ite, e il mondo lasciar non vi rincresca
E il degno vostro genitor pregiato,
Console di regal corte tedesca.
Voi godrete felice in dolce stato
Tutti i dodici mesi senza duolo.
Deh, pregate il Signor, che a me sia dato
Di respiro e di bene un mese solo.