Carlo Goldoni
Terenzio

ATTO PRIMO

SCENA SETTIMA

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SCENA SETTIMA

 

Livia sola.

 

LIV.

Ah! noi donne latine, nel generoso orgoglio

Troviamo ai dolci affetti miserabile scoglio.

Massime rigorose a noi la gloria insegna,

Destra di vil straniero delle Romane è indegna.

Ma lo stranier più vile, ma fin lo schiavo abietto,

Se cittadin vien reso, merta qualche rispetto.

Terenzio, se 'l dichiara il suo signor liberto,

Principia fra i Quiriti ad acquistarsi un merto;

E col bel nome in fronte di cittadin Romano,

Può renderlo virtute degno ancor di mia mano.

Rendasi per lui dunque padre d'amor pietoso...

Ma libero, chi certa mi fa ch'ei sia mio sposo?

Chi sa ch'ei non risolva tornare ai patri lidi?

Passar dal roman Tebro agli Africani infidi?

Chi sa che in libertade tornando un l'ingrato,

Seco la greca schiava non gli mirassi allato?

Poco sperar poss'io dai tronchi detti oscuri

Di comico poeta, sagaci e mal sicuri.

Questo pensier m'affanna, questo timor mi svena,

Quest'è, che a lui mi vieta di scioglier la catena.

Potrei assicurarmi della sua fede in prima,

Ma donna che parteggia coi servi, ha poca stima.

Nemmen dirgli a me lice: ardo per te d'amore;

Troppo si avvilirebbe d'una Romana il cuore.

Tutto quel che far posso per confortar mie pene,

È 'l dir: Ti voglio mio, ma voglioti in catene.

E almen, se a me non lice goder gli affetti sui,

Quel ch'esser mio non puote, non veggasi d'altrui.

Sia invidia, sia giustizia, sia pertinace orgoglio,

Son donna, son Romana; risolsi, e così voglio. (parte.)



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