Carlo Goldoni
Terenzio

ATTO TERZO

SCENA NONA

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SCENA NONA

 

Lucano, poi Livia.

 

LUC.

Mezzo miglior di questo non puommi offrir la sorte:

Staccasi da Creusa, se 'l rendo altrui consorte.

La servitù col tempo smarrisce nell'oblio,

E poi Livia è mia figlia, ma non del sangue mio.

Ma che Terenzio l'ami, finor si rende oscuro.

Eccola; può il suo labbro di ciò farmi sicuro.

LIV.

(S'avanza rispettosa, e non parla.)

LUC.

Livia, so qual di figlia si desti in sen timore,

Se tocchi fian dal padre gli arcani del suo cuore.

Sia padre di natura, sialo, qual io, d'affetto,

Nell'anime ben nate imprime egual rispetto.

Prima che si discenda a ciò che in sen tu celi,

Di chi ti parla al cenno togli dall'alma i veli,

Certa che la menzogna, non il desio mi sdegna,

Certa che un cuor sincero a secondarlo impegna.

LIV.

Parla, signor, ma pensa che se di te son figlia,

A farmi di te degna il cuor sol mi consiglia.

Parla, ma credi in prima, per tuo, per mio conforto,

Che fa chi vil mi crede a mia virtude un torto.

LUC.

Anzi nel dubbio ancora, per cui parlarti aspiro,

Quanto più mi lusingo, più la virtude ammiro.

Franco si sciolga il labbro: Ami Terenzio, amata?

LIV.

Se schiavo amar potessi, vorrei non esser nata.

E s'egli in me tentasse sedurre un cuor Romano,

Saprei, s'altri non fosse, punirlo di mia mano.

Dacché dagli avi nostri fur le Sabine umili

Rapite, e di man tolte ad uomini non vili,

Di Romolo coi figli dacché congiunte furo,

Serbar nelle lor vene sangue romano e puro.

Né si dirà che sia Livia la figlia indegna,

Che renderlo macchiato alle latine insegna.

LUC.

(Proviam cotesto orgoglio). (da sé.) Vo' che tu l'ami. (con impero.)

LIV.

Il vuoi? (con qualche tenerezza,)

LUC.

Ardirai contraddirmi? (come sopra.)

LIV.

Sei padre, e tutto puoi. (come sopra.)

LUC.

Sì, tutto posso, è vero, sul cuor, su tuoi desiri,

Ma un sacrifizio ingiusto per me far non si aspiri. (cambiando stile.)

Di Romolo son figlio, padre di Roma anch'io:

L'onor deggio del Lazio serbar nel tetto mio.

A schiavo non consente unir legge sovrana,

Maggior d'ogni grandezza, il cuor d'una .

LIV.

Per prova o per ischerno dunque parlasti, o padre. (mortificata.)

LUC.

No; di Terenzio sposa, d'eroi ti voglio madre.

LIV.

Come, signor? (rasserenandosi.)

LUC.

M'ascolta. Pria che l'odierna luce

Spenga nel sen di Teti dell'aureo cocchio il duce,

Libero per mio dono il vate valoroso

Di me sarà liberto, di Livia sarà sposo.

LIV.

E d'uom nato straniero, d'uom che fra' ceppi langue,

Cambiar può nelle vene l'atto solenne il sangue?

LUC.

Lo può.

LIV.

Né più gli resta, mercé di Roma amica,

Alcuna macchia in seno della viltade antica?

LUC.

Nel fausto lieto giorno purissimo rinasce,

Qual di Romana figlio che bamboleggia in fasce.

LIV.

Sapienza degli dei! Bella pietà di Roma! (con letizia.)

LUC.

Ma sciolta di catene dal piè la dura soma,

Se Livia ancor lo sdegna, con lei non infierisco.

LIV.

Al padre che comanda, oppormi io non ardisco;

Ma poi...

LUC.

Sarai contenta.

LIV.

Ma poi, dicea, signore,

Se libero lo rendi, di lui qual sarà il cuore?

Spesso del benefizio dagli uomini s'abusa...

LUC.

Dov'è la greca schiava?

LIV.

Nelle mie stanze è chiusa.

LUC.

Per qual cagion si cela? Fugge da me?

LIV.

Ricama.

LUC.

Qui venga.

LIV.

Intenta all'ago...

LUC.

Venga, il signor la chiama.

LIV.

(Non mi tradir, fortuna, or che mi mostri il viso;

Balzami il cuor nel seno pel giubilo improvviso). (da sé, e parte.)

 

 

 


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