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FER. Buon giorno, signor Don Ambrogio.
AMB. Per me non vi è più né il buon giorno, né la buona notte.
FER. Compatisco l'amor di padre. Voi perdeste nel povero Don Fabrizio il miglior cavaliere del mondo.
AMB. Don Fabrizio era un cavaliere che avrebbe dato fondo alle miniere dell'Indie. Dacché si è maritato, ha speso in due anni quello ch'io non avrei speso in dieci. Son rovinato, signor mio caro, e per rimettermi un poco, mi converrà vivere da qui in avanti con del risparmio, e misurare il pane col passetto.
FER. Perdonatemi. Non mi so persuadere che la vostra casa sia in questo stato.
AMB. I fatti miei voi non li sapete.
FER. Mi disse pure vostro figliuolo...
AMB. Mio figliuolo era un pazzo, pieno di vanità, di grandezze. La moglie lo dominava, e gli amici gli mangiavano il cuore.
FER. Signore, se voi lo dite per me, in un anno che ho l'onore di essere in casa vostra, a solo motivo di addottorarmi in questa università, credo che mio padre abbia bastantemente supplito.
AMB. Io non parlo per voi. Mio figliuolo vi voleva bene, e vi ho tenuto in casa per amore di lui; ma ora che avete presa la laurea dottorale, perché state qui a perdere il vostro tempo?
FER. Oggi aspetto lettere di mio padre; e spero che quanto prima potrò levarvi l'incomodo.
AMB. Stupisco che non abbiate desiderio di andare alla vostra patria a farvi dire il signor dottore. Vostra madre non vedrà l'ora di abbracciare il suo figliuolo dottore.
FER. Signore, la mia casa non si fonda su questo titolo. Credo vi sarà noto essere la mia famiglia...
AMB. Lo so che siete nobile al par d'ogni altro; ma ehi! la nobiltà senza i quattrini non è il vestito senza la fodera, ma la fodera senza il vestito.
FER. Non credo essere dei più sprovveduti.
AMB. Oh, bene, dunque, andate a godere della vostra nobiltà, delle vostre ricchezze. Voi non istate bene nella casa di un pover'uomo.
FER. Signor Don Ambrogio, voi mi fareste ridere.
AMB. Se sapeste le mie miserie, vi verrebbe da piangere. Non ho tanto che mi basti per vivere, e quel capo sventato della mia illustrissima signora nuora vuole la conversazione, la carrozza, gli staffieri, la cioccolata, il caffè... Oh povero me! sono disperato.
FER. Non è necessario che la tenghiate in casa con voi.
AMB. Non ha né padre, né madre, né parenti prossimi. Volete voi ch'io la lasci sola? In quell'età una vedova sola? Oh! non mi fate dire.
FER. Procurate ch'ella si rimariti.
AMB. Se capitasse una buona occasione.
FER. La cosa non mi par difficile. Donna Eugenia ha del merito, e poi ha una ricca dote...
AMB. Che dote? che andate voi dicendo di ricca dote? Ha portato in casa pochissimo, e intorno di lei abbiamo speso un tesoro. Ecco qui la nota delle spese che si son fatte per l'illustrissima signora sposa; eccole qui; le tengo sempre di giorno in tasca, e la notte sotto il guanciale. Tutte le disgrazie che mi succedono, mi pajono meno pesanti di queste polizze. Maledetti pizzi! maledettissime stoffe! oh moda, moda, che tu sia maledetta! Ci gioco io, che se ora si rimarita, queste corbellerie, in conto di restituzione, non me le valutano la metà.
AMB. Obbligato al signor dottore. (mostra di soler partire, poi torna indietro) Mi scordava di dirvi una cosa.
AMB. Così, per mia regola, avrei piacer di sapere quando avete stabilito di andarvene.
FER. Torno a ripetere che oggi aspetto le lettere di mio padre.
AMB. E se non vengono?
FER. Se non vengono... Mi sarà forza di trattenermi.
AMB. Fate a modo mio, figliuolo: fategli una sorpresa; andate a Mantova, e comparitegli all'improvviso. Oh, con quanta allegrezza abbracceranno il signor dottore!
FER. Da qui a Mantova ci sono parecchie miglia.
FER. Sono un poco scarso, per dire il vero.
AMB. V'insegnerò io, come si fa. Si va al Ticino, si prende imbarco, e con pochi paoli vi conducono fino all'imboccatura del Mincio.