L'Amore
Campagna
romana
Caro Cavacchioli,
tu mi chiedi qualche spunto autobiografico. Ti ringrazio
sinceramente, ma non abbocco. Tutto al più, posso raccontare a te e a pochi
lettori come ho passato a Roma la scorsa estate.
Torno, ormai, molto di rado in Toscana, e sempre per
pochi giorni. Perciò, insieme con qualche amico, quando non piglio la
bicicletta, cerco di respirare all'aria aperta e non mi lascio mai alloppiare
dalla vita cittadina. Questa estate, andavamo a Maccarese: tra Roma e
Civitavecchia. Bisognava alzarsi dal letto prima di giorno; e alla stazione di
Termini, mentre compravamo il biglietto, vedevamo, alla luce ancora incerta,
stormi di ragazze che invece sceglievano Ladispoli o Santa Marinella. Sartine,
dattilografe, impiegate, passavano a coppie o a branchetti, di rado accompagnate
dai parenti, portando in mano l'asciugatoio e la biancheria per il bagno. Ce ne
erano di anemiche, ma anche di quelle bellocce o belle addirittura. E noi le
seguivamo con gli occhi e con una voglia matta d'attaccare discorso e portarne
due o tre con noi, di quelle più piacevoli e benevole.
Orio Vergani, allora, faceva sempre la proposta di
distribuire, per la volta prossima, parecchi foglietti dove fosse stampato, a
modo di pubblicità, che i bagni di Maccarese erano preferibili anche per la
salute a quelli di qualunque altra spiaggia. E, intanto, da bel giovane che è,
si ficcava in mezzo alle ragazze per capire se ce ne fossero disposte a farsi
tenere compagnia.
Ma, saliti in treno, non ci si pensava più; ed era
meglio. A scendere alla stazione di Maccarese eravamo noi soli, salvo qualche
buttero; e, dopo aver bevuto un bicchierino di acquavite, che ci levava gli
ultimi rimasugli del sonno, ci mettevamo in cammino.
L'aria era grossa da tagliarsi con il coltello, e la
strada lunga. Ma noi prendevamo attraverso i campi, per una scorciatoia che si
vedeva dalla stazione fino a una macchia dove s'interna; perché l'erba non fa
in tempo a rinascervi, e la terra si spacca in un modo che a non stare attenti
c'entrano i tacchi dentro. Le interminabili file degli olmi, più neri che
verdi, s'incrociano da ogni parte; chiudendo in mezzo le paludi, dentro le
quali i giunchi selvatici sono così fitti da non potercisi muovere. Finalmente,
quando la stanchezza e il sudore cominciavano a dar noia e a scoraggiare, tra i
ginepri enormi, si sentiva il tuono largo, quasi sinistro, del mare.
Riprendevamo forza; e, barcollando su la rena troppo asciutta, che faceva
inciampare e affondare fino ai polpacci delle gambe, andavamo avanti. Alla fine
si vedeva il mare: una riga turchina e immobile che sembrava più alta di noi.
L'aria si faceva respirabile; e ci guardavamo lietamente. Facendo a chi
arrivava prima, andavamo sotto una specie di capanna tutta aperta, costruita
con quattro sostegni di legno sorreggenti una copertura di frasche secche.
Io mi spogliavo subito, e mi piaceva sentire quel
brivido ghiaccio su tutta la persona. Michele Abramich apriva i cartocci delle
provviste e cavava fuori, da un tascapane militare, un uovo sodo per ciascuno.
Io facevo con le mani una buca nella sabbia e vi mettevo dentro, fino alla
bocca, i fiaschi del «Chianti». L'Abramich mi guardava ridendo, pronto, però, a
sgridarmi se non facevo le cose per bene; e l'ultima manciatina di terra che
ricopriva il «Chianti» al fresco, la dava sempre lui; perché nessuno lo avrebbe
contentato.
Senza Michele Abramich, direttore del Museo di
Aquileia, non sono mai andato a Maccarese. Con noi, oltre allo scultore Ercole
Drei e a Orio Vergani, che è forse il più intelligente fra i suoi coetanei di
vent'anni, è venuto una volta Stefano Pirandello. Il Drei si fidava un poco
troppo dei suoi nervi romagnoli e la sera sghignazzava meno della mattina. Il
Vergani non voleva rinunciare né meno la notte innanzi ai caffè e alle amanti;
e il sole gli faceva girare subito la testa. Qualche volta, è venuto a caccia
Alessandro Salvini; che per quel giorno non si ricordava di essere attore
cinematografico e drammatico. Ma torniamo in carreggiata!
La spiaggia, completamente deserta, cominciava già ad
essere calda; e le onde scintillavano. Io, completamente nudo, facevo una corsa
di un mezzo chilometro, e poi tornavo addietro; e dicevano che assomigliavo a
un fauno piuttosto grasso. L'Abramich aveva già messo insieme un mucchietto di
fuscelli e di legni e li accendeva in modo che il fumo, portato dal vento sotto
il riparo di frasche, ci assicurava di più che nessuna zanzara ci avrebbe punto
regalandoci la malaria.
Ad una certa ora il sole faceva biancheggiare, quasi
splendere addirittura, il caseggiato nuovo di Ladispoli; e le nebbie uscivano
di fra gli olmi e la grande pineta solitaria, lunga fra i cinque e i sette
chilometri. Reso sempre di più impaziente da quella meravigliosa solitudine,
entravo nell'acqua. L'Abramich aspettava, scrupolosamente, che fossero le
undici.
Dopo il bagno facevamo, per lo più affiancati
insieme, un'altra corsa; che bastava ad asciugarci; e, poi, ci sdraiavamo in
terra, per mangiare. E siccome l'appetito era sempre pronto, bisognava mandare
giù i bocconi senza masticare troppo, perché si faceva a chi era più lesto. Prima
veniva il prosciutto crudo, poi quello cotto; poi le olive. In un batter
d'occhio, spariva tutto. E non era difficile che le cinque dita aperte d'uno
dovessero contendere con quelle d'un altro l'ultima fetta o l'ultima oliva.
Qualche volta, cucinavamo da noi il prosciutto; facendolo bollire dentro un
catinaccio scrostato, che l'Abramich aveva preso dentro una capanna di certi
pescatori. Intanto, rapidamente, il vino calava.
L'Abramich apriva le scatole delle acciughe in salsa
piccante; ed io, ghiotto di quella broda oliosa, quand'erano nuotate, me le
scolavo in bocca o vi inzuppavo un pezzo di pane dentro; che a ricavarlo dovevo
anche bestemmiare.
Non bisognava muoversi senza precauzione, perché il
vento copriva subito di sabbia ogni cosa; e, allora, si sentiva scricchiolare
sotto i denti. Alle frutta, l'appetito cominciava a calmarsi; ma mi ricordo
come, in mancanza d'altro, succiavamo lungamente anche i noccioli rossi delle
pesche o finivamo con l'inghiottire le bucce delle mele e delle pere. Allora, ricorrevamo
alla distribuzione delle sigarette. Ma, già, la stanchezza, e il caldo ci
facevano venir sonno; ed era un godimento solenne quello di chiudere a poco a
poco gli occhi e di chinare la testa grave e avvinata. Ma a trovare una buona
posizione non era facile, senza indolenzirsi o i fianchi o le braccia; e, poi,
a mettersi bocconi, come sarebbe stato più comodo, non si poteva respirare
perché entrava la sabbia in bocca e dentro le ciglia. Alla fine il sonno
metteva da sé le cose in pace, e dormivamo anche tre ore di seguito. Guai a
quello che si destava ultimo, perché si sentiva giungere un calcio su le
chiappe! Qualche volta, aprendo sì e no gli occhi, vedevamo i branchi delle
bufale o dei bovi passare rasente a noi, soffermandosi a fiutare e a curiosare.
Le bufale, con gli occhi neri e acuti, avevano un'insistenza che non ci piaceva
affatto; ma il sonno e il vino non ci consentivano di alzarci da terra; e,
perciò, non abbiamo mai avuto paura. Anche le vipere non mancano, anzi quelle
di Maccarese sono famose; per dire la verità, non sono mai venute dove eravamo
noi.
Con gli occhi sempre intontiti, guardavo il mare più
turchino e più bello, e vedevo stuoli di alcioni alzarsi a volo come se fossero
stati scossi dalle onde sempre uguali e disuguali. Sopra le macchie volavano,
invece, corvi e falchi.
Alla foce dell'Arrone, dove al tempo degli Etruschi,
tanto per fare un poco di storia, era la città di Fregenae, e dove l'aria e le
fiamme del calore ora brulicavano insieme, si vedeva un polverio enorme:
guardando meglio si capiva che vi andavano a bere le bufale e i bovi.
Prima che il sole tramontasse, facevamo un altro
bagno; e, se il mare era molto mosso, stavamo a prendere i colpi delle onde su
le spalle e su la nuca: tenendoci a catena, per non essere travolti. Tuttavia
Ercole Drei, un giorno, corse lo stesso il pericolo di affogare.
Verso sera, quando un'umidità calda e pesante
cominciava a venire da tutte le parti, e la spiaggia non brillava più, ci
rivestivamo e tornavamo verso la stazione. E siccome era già l'ora di cena,
entravamo dentro una «dispensa»; dietro il castello barocco di San Giorgio.
L'Arrone, che viene dal lago di Bracciano, sembrava bianco da quanti moscerini
vi stavano sopra. Se passava qualche bufala, anche sopra essa s'aggirava una
nuvola di moscerini; e gli eucalipti odoravano lungo la strada, dove si
inciampava a motivo della polvere alta e ammucchiata dalle ruote dei carri.
A quel tempo, a Porto San Giorgio, c'erano parecchi
prigionieri tedeschi e austriaci; e quelli presi dalla malaria, gialli e
spolpati, li vedevamo seduti sull'argine dell'Arrone con le spalle a qualche
eucalipto. Una volta capitò loro anche il vaiuolo; e bruciavano i pagliericci
dei morti, abbandonandoli alla corrente; che, a poco a poco, li portava fino al
mare, già mezzi inceneriti e distrutti.
La «dispensa» era uno stanzone con il soffitto a
volta; e ci stava un oste con la moglie; tutti e due con la malaria.
Al nostro arrivo, benché non fosse prudenza perché si
attiravano le zanzare, accendeva una candela di sego e l'infilava dentro il
collo d'una bottiglia. Dopo un'ora di attesa, quasi al buio, le paste nel sugo
erano pronte; nere di pepe. E ne trangugiavamo sempre due piatti per ciascuno:
non c'era di meglio e bisognava adattarsi. Il vino, grosso e pesante, metteva
il fuoco nel sangue. E, benché rimpiangessimo di non avere più il «Chianti», si
buttava giù a litri. Alle altre tavole dello stanzone stavano i lavoranti della
tenuta, i pastori e i butteri. E sempre arrivava qualcuno con la febbre
addosso, presa durante la giornata; il quale andava a sedersi un poco in
disparte, verso la porta. La poca luce non ci permetteva di scorgere bene i
visi; e tra le gambe venivano almeno cinque o sei cani randagi che non erano
mai gli stessi.
L'oste era sgarbato e svogliato; e, per farlo
rispondere, bisognava ripetergli la domanda più d'una volta. Pareva che gli
mancasse un pezzo di testa dietro; e la fronte, a forza di stringersi, era
riuscita ad essere piccola quanto una noce. La moglie, magra e cerea, legnosa,
non aveva fiato di reggersi in piedi; e, quando era stata costretta ad aiutare
lui, si risedeva subito; muovendo gli occhi attorno ai piedi, come fanno quelli
che non ne possono più dalla stanchezza. Tanto lui che lei non ci guardavano
mai; anzi, non guardavano nulla; e parlavano solo quando non potevano farne a
meno. Soltanto l'oste, di quando in quando, con qualche conoscente, malediceva
Maccarese; e gli rispondeva un sospiro della moglie. I pastori erano più
loquaci, e avevano sempre da raccontare quante pecore erano morte durante la
giornata; con la pancia scoppiata per aver bevuto l'acqua cattiva. I butteri,
entrando, appoggiavano dietro la porta le aste, con le quali, a cavallo,
picchiano gli armenti quando si sbandano: avevano gli stivali fin sopra i
ginocchi e compravano, avendo più denari da spendere, il cacio a libbre. I
lavoranti, stavano a tavola con il capo giù, il collo irrigidito, i gomiti
stesi e le mani allacciate insieme. Si mettevano fermi a quel modo specialmente
dopo aver mangiato, e non aprivano mai bocca altro che per dolersi della fatica
e del disagio. Ogni tanto, il grido di qualche civetta, sopra un eucalipto,
faceva volgere la testa verso la porta.
Restava l'ultimo tratto di strada fino alla stazione,
ed era già buio. La luna, sottile e larga, esciva di tra gli olmi nebbiosi; e
rischiarava abbastanza, e io provavo non poco dispiacere a dover salire in
treno; perché non m'importava più nulla di Roma, e m'aveva fatto bene quella
giornata senza né meno ricordarmi della letteratura e dei libri.
Michele Abramich si volgeva verso la luna; e,
scotendo con una mano i soldi di rame dentro una tasca, con l'altra le mostrava
un piccolo Priapo di bronzo, che aveva trovato in certi scavi: era un rito
pagano. Poi la guardava tutto soddisfatto e beato; e, a quel chiarore, gli
vedevo brillare gli occhi nella faccia rosolata dal sole. Mi diceva, tutto
esaltato:
- Fa' così anche tu!
Ma io camminavo di malavoglia; e dentro di me
studiavo invano come avrei potuto fare per non tornare a Roma. Le file degli olmi
erano più nere della notte, e la pianura impiccioliva. Qualche bosco
incendiato, sopra una collina bassa bassa, scintillava con una giocondità
cattiva. Pareva che la luna mi dicesse: «Perché non torni lungo il mare? Ti
tengo compagnia io».
E, tra un passo e l'altro, rimpiangevo di sapere che
il giorno dopo qualcuno mi avrebbe ricordato la mia triste ambizione. Come,
lungo il mare, tutto m'era parso inutile e fastidioso! Come m'avevano fatto
pietà e schifo gli scrittori, i giornali e i libri!
Giunto a casa, non potevo pigliare sonno. In un
incubo bollente rivedevo le bufale, le vipere, i ramarri; e mi pareva di
volare, come un uccellaccio, incontro a qualche montagna innalzate dal mio
pensiero.
Ma andavamo anche sul Monte Soratte. Scesi dal
tranvai, alla stazione di Sant'Oreste, prendevamo su per una oliveta scura e
immobile; addossata sotto il macigno crudo tagliente. Prima, bisogna arrivare
al paese di Sant'Oreste; le cui case hanno lo stesso colore della pietra dove
stanno a picco; su una vallata che si stende a perdita d'occhio. Per entrare in
paese bisogna varcarne la porta; ma c'è una tabella di legno dov'è scritto:
È vietata
l'introduzione e la
circolazione
degli animali suini
nell'interno
del paese.
Perciò, noi ci guardavamo sbigottiti e restavamo di
fuori.
Ci si ficcava, invece, dentro la trattoria; che è di
fianco. Le pareti hanno un colore turchiniccio; e, in fondo, dietro il bancone
padronale, c'è il busto in gesso di Vittorio Emanuele II, tra due grandi corna
di bue e sopra una mensola verde sovraccarica di bottiglie e di scatole da
conserva.
L'ostessa prima non risponde; poi borbotta sottovoce,
scappando; poi intende a traverso; e, alla fine, data un'occhiata che vorrebbe
divorarci vivi, si decide a cavare la voce. E, allora, si capisce che è una
burbera molto buona e tranquilla.
Fatto uno spuntino e prese le provviste, cominciavamo
l'ascensione del Soratte. Dura un'ora o poco più; ma noi la facevamo anche in
meno; non badando a qualche sdrucciolone e a qualche ginocchiata. L'aria si fa
più leggera quasi ad ogni passo; e la vallata del Tevere, dalla parte opposta a
quella donde siamo saliti fino al paese, comincia a spiegarsi senza usura
dinanzi a una meravigliosa vista di montagne; e sono tante che per avvedersi di
tutte, senza saltarne nessuna, bisogna guardarle a una per volta. Ma più che si
guardano e più se ne scoprono; e ognuna sembra desiderosa di essere la più
bella. Il cielo e l'aria vi stanno sopra come se avessero paura di toccarle; e
solo il vento s'arrischia, almeno a sentirselo passare rasente gli orecchi, a
andare fino là senza perdere la strada.
Il Soratte, durante l'estate, è tutto fiorito. Le
eriche rosse escono dai buchi della selce; e, qualche volta, ci sono anche
certe campanule pallide che s'attorcigliano come ghirlandette. Testucchi e
lecci nani, a cespugli, crescono sul fianco del monte, dalla parte del Tevere,
e il loro colore s'incupa di mano in mano che scende giù nella vallata, insieme
con il mentastro e la nepitella. L'ombra del monte è così grande che il sole si
stende soltanto di là dal fiume, che, di lassù, pare fermo.
Mentre, dalla parte di Roma e del mare, la vallata se
è un poco nebbiosa, abbarbaglia e luccica in tanti seni di tutte le dimensioni.
Il silenzio fa udire quel che si pensa.
L'ultima volta che salii, le cavalle avevano
figliato; e pascolavano sul dorso acuminato del monte. Mi ricordo anche d'aver
sentito ragliare un asino giù in fondo alla vallata, e quel raglio mi sembrò
dolcissimo e perfino musicale; perché la distanza gli toglieva il troppo e lo sgradevole.
Sul Soratte, una volta c'erano quattro conventi; uno
per ogni punta: San Silvestro, Santa Maria delle Grazie, Sant'Antonio, Santa
Lucia.
Ora, intero c'è rimasto soltanto quello di Santa
Maria delle Grazie; e i ruderi di quello di San Silvestro. Il viottolo mena ad
essi.
A metà della salita, in mezzo a una boscaglia di
lecci, c'è una cappellina; e dentro, lungo le pareti laterali, due sedili: una
croce fatta con il carbone dove dovrebbe essere un'immagine.
Seguitando, si vede la cinta del convento di Santa
Maria; fatta di sassi a secco, sotto una greppaia rossa di rosolacci, che non
stanno mai fermi. E sotto la cinta, una pergola di viti; che fa ombra a una
striscia larga e sbilenca di grano.
Il convento è disabitato da parecchi anni; ma c'è
andato a stare Fra' Camillo Coppini, nato a Grassina, nei dintorni di Firenze.
Non è difficile che venga a spalancare la porta senza
scarpe e senza calze, con la tonaca nera tirata su alla cintola; e una falce in
mano, con la quale era a mietere il fieno quando abbiamo tirato la campanella.
Dopo le prime parole, egli dichiara subito di essere un uomo «storico»; cioè un
uomo che appartiene, ormai, alla storia. E, per convincere, butta in terra la
falce, si ficca le mani in seno e tira fuori il libro che sta componendo. Il
titolo del libro, scritto da lui stesso con una penna spuntata e con
l'inchiostro di more mature, ha questo titolo: «Il trionfo dell'Umanità
naturale e la distruzione della Fisumana; dove si trova il
proscioglimento della vera filosofia con la vera difesa della Vita; ovverosia
il Tesoro secondo l'epoca e il tempo».
E, per accertare che si tratta d'una cosa seria e
immortale, avverte che l'hanno letto Dante Alighieri e cinque o sei altre
persone che s'accostano a quel calibro. Ma non basta. Sempre dal seno, cava
altri suoi libri di minore importanza, che sono come i commentari di quello; e
allora si capisce perché la tonaca, impataccata e sporca, gli stia gonfia sopra
la cintola come se fosse pregno.
Il suo viso scarno, dove sono soltanto le pieghe della
pelle, si fa più attento e si illumina; gli occhi, neri e dolci, pigliano un
fanatismo vigile e impaziente.
Uno di noi gli chiede:
- Che cosa vuol dire Fisumana?
Ed egli spiega, con energica enfasi:
- La Fisumana è la cattiveria degli uomini, e
io ho trovato il modo di renderla innocua.
Intanto, si entra in un praticello erboso; in mezzo
al quale c'è soltanto un gelso. Fra' Camillo ci segue e ci studia; per capire
che gente siamo. Passatagli la diffidenza, la sua voce si fa più amichevole; e
si capisce che ha una gran voglia di confidarsi. Ma noi, invece, secondo il
solito, abbiamo fame, e glielo diciamo.
Egli non se lo fa ripetere due volte: entra, quasi di
corsa, dentro il convento; per pigliare un tavolino e le sedie. Poi,
rispettosamente ma dignitosamente, domanda:
- Vogliono bere un bicchiere d'acqua fresca?
Dopo due o tre volte che siamo stati sul Soratte, è
doventato nostro amico; e io voglio ricordare una visita più lunga delle
solite.
Tralascio l'arrivo e salto al desinare. Fra' Camillo,
mentre stiamo per finire le ultime briciole del tonno, frugando tra le pieghe
della carta unta, ci propone un piatto d'insalata. Si leva da sedere e va
all'orticello. Per entrare, deve togliere prima, ad una per volta, un mucchio
di pietre addossate al cancellino sfasciato. Tra due sassi piatti e incavati,
dove dovrebbero essere gli arpioni, prende un falcetto e comincia a tagliare
erba e insalata insieme. Quando gli pare che basti, ci grida:
- Ora vado a sciacquare quel che ho preso.
È inutile protestare che l'erba non ci piace: egli ci
garantisce che è buona quanto l'insalata. E, per convincerci, se ne mette in
bocca una pianta. Ma l'olio puzza come quello delle macchine. Quando glielo
diciamo, resta sorpreso e scontento del nostro gusto, con la bocca piena e l'erba
mezza dentro e mezza giù per il mento. Noi non possiamo andare avanti, e Fra'
Camillo Coppini, mortificato, finisce da solo ogni cosa. Povero e onesto, campa
con quel che gli frutta l'orticello e la fetta di terra; che coltiva da sé.
Intanto, vengono due ragazzi che pasturano le capre
fuori della cinta. Uno tiene per le gambe un falchetto, che non ha messo ancora
le penne. Pare involtato in una lanugine grigia, e apre il becco spenzolando la
lingua. Gli occhi aperti sbattono, ma senza chiudersi; e torce il collo, come
può, per guardare verso noi. Il pastore lo butta sopra un muricciolo, e propone
al compagno di ammazzarlo lapidandolo; per fare la scommessa a chi tira più
dritto. Io dico che non voglio; e Michele Abramich, gongolando di speranza che
gli accende di più il viso sempre infiammato e gli brilla negli occhi azzurri,
domanda loro se possono procurargli almeno un litro di latte o una ricotta di
qualche chilo. I due ragazzi spariscono subito a mungere le capre.
Allora, Fra' Camillo piglia il falco e lo mette
dentro un secchio, dicendo che ce lo friggerà a cena.
Ma noi vogliamo che egli faccia un discorso; e ci
contenta subito. Batte le mani insieme e salta sopra un sedile di pietra,
all'ombra di un leccio. Tossendo, si spurga; poi, tende un braccio. La nostra
attenzione silenziosa lo anima; e sorride, già sicuro che lo dovremo acclamare.
Comincia:
«Io, Fra' Camillo Coppini, povero fraticello eremita,
ho scritto il gran libro della Fisumana; ed ora dirò due parole alla
buona così come mi vengono».
Fissa gli occhi da una parte, accanto a sé; fa
schioccare le dita, e il suo viso pare tormentato. Ma, con uno scatto fiero,
quasi maestoso, erge la testa; e continua:
«Il Paradiso di Satana, il Purgatorio di Lucifero, e
il Limbo degli uomini temperati, com'io nel mio pensiero li ho visti più di una
volta...».
Ma la parola gli manca, per ora; ed egli ci fa
comprendere, con un largo gesto esecratorio della mano, quel che vorrebbe dire.
Fa una lunga risata, perché ha bisogno di tenere i nervi al posto, ma l'occhio
gli si rischiara, le righe della faccia si appianano, tutto il viso ha un'aria
ascetica, le parole vengono con una facondia irruente ed efficace. Ad un certo
punto, grida:
«La spianata delle tombe, dei re, dei regni, delle
montagne e di tutti i vigliacchi che sono su la terra, dovrà assicurare
all'umanità il trionfo dei buoni e degli onesti. Il mio Libro è il centro
aeroso dell'Universo; e io, frate Camillo Coppini, nutrirò la coscienza di
tutti. Ciò che si vede su la pianura della terra deve divenire, un giorno,
cenere e polvere. Meno che cinque cose, o bene sei, sono eterne: la luce del
giorno e la notte; i venti, le acque e la terra; il Padrone del macchinario del
movimento di questo mondo, ossia Dio!»
La sua parola fantastica, chiara e impetuosa, ormai
ha preso la rincorsa, e ci trincia sentenze e ammonimenti. Dopo averlo
applaudito, lo portiamo di peso sopra le spalle. Fra' Camillo ride a bocca
aperta e ringrazia; e sappiamo dai suoi occhi che ci è riconoscente di averlo
capito e di prenderlo sul serio.
Intanto la metà della giornata è trascorsa, e il
Tevere è sempre raggomitolato nel suo letto di terre incolte. Per parecchi
chilometri lustra a pezzi, secondo i suoi giri; e una nebbiolina, trasparente
più d'un velo che sia per sparire, lo segue fin dove i nostri occhi non vedono
più. Questa nebbiolina è anche ai piedi delle montagne, e sembra che riesca a
dissolverle; perché si giurerebbe che non sono soffici e molli; più delle ombre
turchine che le nuvole lasciano cadere giù nella vallata. Ma, quando il sole è
per discendere, le montagne fanno biancheggiare per qualche mezz'ora i loro
paesetti; e poi, con lo sbiadirsi della sera li rinascondono dentro se stesse.
Allora, il lago di Bracciano sembra uno specchio caliginoso, l'Appennino Umbro
indossa un celeste più tranquillo e il Gran Sasso si schiara.
Non so perché, Fra' Camillo ci parla a modo suo della
«sventura» del Calvario; mentre ci rechiamo dalla punta di Santa Maria a quella
di San Silvestro; per un sentiero non sempre piano; e il vento ci butta quasi
in terra. Sotto a noi, tra le sporgenze acuminate dei macigni, s'intravede il
gran precipizio del baratro; e fa l'effetto di essere tirati giù a battere la
testa. Ma, mentre si sta lì a fare queste considerazioni, un falco, con le ali
aperte, viene a oscillare lentissimamente nell'aria; e poi si ferma. Guardando
meglio nelle lontananze, ne vediamo parecchi altri; tutti sospesi a quel modo.
Intanto, siamo entrati nella Chiesa di San Silvestro;
che è monumento nazionale. Squarciata dai fulmini e dai temporali, ogni anno
perde qualche pezzo di muro; che si sbriciola su la roccia. Una volta, i
pastori ci si rifugiavano con le pecore e ci accendevano il fuoco; ma Fra'
Camillo Coppini, ora, la tiene pulita e chiusa a chiave. Scendiamo a vedere e a
tastare con le nocche il sasso dove dormiva San Silvestro; incastrato dentro
una grotta buia, sotto l'altare. Dove è stato tolto l'intonaco, le pareti sono
coperte da affreschi del Trecento, e la cripta conserva ancora alcuni
bassorilievi romanici e dell'antico tempio di Apollo; sopra il quale fu eretta
la chiesa cristiana.
Da quella cima, l'orizzonte è anche più vasto; e si
vede perfino il Monte Amiata, al confine del territorio senese. Stiamo lassù
fino a buio fatto, dopo che il sole s'è lasciato pigliare dentro una ragnaia di
nuvole.
Per cena, riesciamo ad evitare che Fra' Camillo tiri
il collo al falchetto; ma mentre mangiamo nel refettorio, perché fuori è troppo
freddo, sentiamo l'uccello lamentarsi con una specie di fischio intasato e
sbattere le ali dentro il secchio. Il refettorio è tutto polveroso, con quattro
tavolinacci rozzi e tarlati. Stiamo vicino a una finestrucola inferriata, che
dà a picco su la valle. Un pipistrello si attacca all'architrave e si dondola.
Dovremmo mandare giù, ma non ci riesce, una frittata.
Fra' Camillo ci ha messo troppo sale; e, volendola fare con le cipolle, ci ha
tagliato anche i gambi, che sono restati crudi. Inoltre, non avendo più vino,
ci propone di mettere nell'acqua un poco di aceto; come fa sempre lui. Il buio
accresce la paura che la giornata non finisca allegramente; e né meno a cantare
con quanto fiato abbiamo in corpo ci riesce a ridere senza essere troppo
nervosi. Il romito, sempre attento, se ne avvede; e reca due candele accese.
Allora, facciamo un ultimo tentativo di baldoria; ma il nostro amico resta
inquieto lo stesso; e noi ci convinciamo che è meglio andare a dormire.
Intanto, veniamo a sapere che egli è stato una volta frate laico e andava alla
cerca, ed ora veste a quel modo per amore all'abitudine.
Ci accompagna in una stanzucola, dove non c'è se non
uno strato di paglia; che puzza di topi e di muffa; e qualche tarpone nero,
infatti, s'è visto correre su per le scale. Ma, prima che ci stendiamo, apre
una finestruccia, e ci indica Roma: un bagliore lontano e basta.
Preso sonno, senza spegnere le candele infilzate in
un ferro a punta, ci viene a destare, per sbaglio, un'ora prima. Sono soltanto
le tre e mezzo; ma esciamo lo stesso, per avviarci giù alla stazione. La nebbia
è fittissima e scura; e lampeggia proprio all'altezza del convento.
Per non rifare la stessa strada, Fra' Camillo ci fa
prendere una scorciatoia scavata giù per la china più ripida del monte. Non
vediamo dove mettere i piedi e ci si aiuta con le mani, per non scivolare in
dietro. Ma egli va giù a salti, aprendo le braccia e facendo rotolare i sassi
perché si sentano rimbalzare e battere fino in fondo. Allora, ci piglia paura
di cadere a capofitto; e, prima di movere il passo, cerchiamo sempre di
afferrarci a qualche sporgenza o a qualche cespuglio. Quando il frate non ci
aspetta, dopo due metri non si scorge più. I falchi, di mano in mano che
scendiamo, spiccano il volo; e sentiamo ventare le loro ali. Il frate, che pare
un lugubre fantoccio nero, gesticola e grida; poi, sghignazza del nostro
impaccio. A un certo punto, crediamo che si debba ammattire anche noi; e la
china non finisce mai. La nebbia pare che ci pesi su le spalle, e proviamo una
specie di disperazione e di scoraggiamento. I falchi si levano da tutte le
parti; la selce, urtata dalle scarpe, fa un rumore secco ed aspro. Alla fine,
non resta che da attraversare un lunghissimo prato, dove c'è una vacca
soltanto; e siamo prossimi alla stazione.
Fra' Camillo ci deve salutare, e si duole della sua
solitudine. Ci dice:
- Mi troveranno morto, come un falco, tramezzo i
sassi; che cade giù, e tutto è finito!
Anche quest'anno conto e spero di tornare a Maccarese
e al Soratte. In quanto alla letteratura, me ne sto più lontano che è
possibile; anzi, non voglio mai che se ne parli in mia presenza, né meno dagli
amici; e il mio più forte orgoglio è di sentirmi tutto quanto preso dal lavoro
senza mai insozzarmi con i bacherozzoli, che vengono da sé a farsi spiaccicare
sotto le scarpe.
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