4 settembre 1903.
Entrai in una galleria di quattrocento metri. Il terreno era
fangoso, e le traverse della ferrovia, che serve per il trasporto del minerale
scavato, sconnesse e disguazzanti.
Le pareti gocciolano. In principio si ha un’impressione di
freddo, poi giungono soffi caldi di vento.
Quando fummo, io ed il sorvegliante, quasi a metà della
galleria ci dovemmo fermare in una incavatura, per lasciar passare gli operai
scaricatori. Erano cinque e nudi. Spingevano i vagoncini carichi di minerale,
ansando.
Quando passarono mi salutarono.
Proseguimmo ed entrammo nel primo cantiere: una grotta, nera
e scabrosa, in fondo alla quale tre minatori battevano colpi di martello su i
loro lunghi scalpelli. Ciascuno aveva una lucerna a guisa di cipolla,
alimentata con l’olio minerale.
L’aria, per me, era insopportabile. Provavo una pena come se
il mondo intero mi avesse imprigionato per sempre in uno dei suoi buchi. La
lanterna, a gas acetilene, mi tremava nella mano.
Bisognava urlare per farsi intendere.
I colpi su gli scalpelli vibravano per tutta la volta. I
minatori avevano l’aria di dirmi: – Perché sei venuto a vederci? E il mio
sorriso rispondeva: – Vi amo.
Ci fu per un istante il ritorno violento de miei sentimenti,
e mi vergognai d’essere andato in quel luogo a godere delle sofferenze altrui.
Giunsi a pensare: Io non ho il diritto di credermi superiore a loro. Queste
ombre d’alcoolici e d’idioti hanno in sé una potenza smisurata: nel loro pugno
si condensa l’energia dell’umanità. – E per un istante non vidi che il lavoro
trionfante nel mondo.
Ma il sorvegliante mi spiegava le qualità della roccia, ed
io con la testa accennavo d’intendere ma guardando altrove: dove quelle membra
si scaldavano affannosamente, nel tormento del bisogno.
Di lì scendemmo per una botolina – in cui era infilata,
verticalmente, una scaletta di legno – in un altro cantiere. Era abbandonato.
Rimaneva ancora l’armatura consistente in una piramide di traverse, nel mezzo
della grotta. Dai fianchi, sporgevano massi di minerale sterile, luccicante in
un verde smorto. Mi parve di vedere una fila d’operai a martellare. Il letto
del cantiere era umido, e vi erano alcune tavole imporrite.
Risalii a stento ed entrai in un altro buco. Dovetti fare
venti scalini con le mani e con i piedi, piegando le spalle per non urtare ne’
macigni. Il lume mi batteva su le ginocchia. Vidi sei operai che cercavano un
mezzo acconcio a far saltare in aria una grossa porzione di minerale. Il
sorvegliante che era con me dette loro alcuni consigli che furono accettati in
silenzio. Quegli uomini, quando mi passavano accanto, si voltavano a guardarmi
fissamente. Io cercavo di leggere nei loro occhi una qualche espressione, ma li
trovai ghiacci e pieni di ombre. Che cosa attraversava il loro cranio
sfuggente? Alcuni non risposero al mio saluto, e gli altri lo fecero quasi di
malavoglia. Perché salutarmi?
Lasciandoli, mi parve che piombassero in un’ombra di
delusione.
Il sorvegliante mi propose di visitare altri cantieri, ma io
ero stanco e volli tornare al sole. La mia giacchetta di minatore era fradicia
per le gocciole ghiacce cadute dal soffitto; la camiciola s’attaccava alla
pelle sudata.
Mi sentivo male. Un certo silenzio era penetrato in me,
interrotto da irruzioni sensatoriali. Pensavo certe ariette popolari che avevo
cantate il giorno avanti, a come rideva il prete, a quello che avrei veduto
nelle altre gallerie. Ebbi il desiderio di tornare subito dentro.
Entrammo in una galleria di centoquaranta metri. Non aveva
nulla differente all’altra, se non che era più umida, ed alcune armature
avevano ceduto alla pressione del minerale. Mi parve che qualche traversa si
dovesse staccare e farmi del male.
Guardai il sorvegliante: pensai che egli mi accompagnava
volentieri, e sorrisi alla sua nuca rugosa e sporca. Il suo lume dondolava
malamente. Guardai la fiamma del mio, e mi parve molto bella. L’acetilene
bruciava con un fruscio di gonnella di seta: mi fece pensare ad una cosa
indeterminata.
Da’ miei capelli cadde una goccia di sudore su la mano: ebbi
timore d’ammalarmi.
Rivedevo il contorno esteriore de’ monti verdi e il sole. Un
uccello svolazzava nel cielo.
Ma il sorvegliante mi toccò nel braccio e disse: «Scenderemo
nella sala dov’era la pompa».
– La pompa? – E mentalmente continuai: «c’è una pompa.
Dev’essere pericolosa. Perché?».
Mi rispose:
– La pompa che serviva a tirar fuori l’acqua d’una sorgente,
che abbiamo incontrata nel seguire un filone.
Ebbi uno sguardo di diffidenza, ma sapevo bene che certe
macchine si trovano nelle miniere.
Scendemmo per una scala di legno abbastanza larga. Un soffio
gelato mi passò su la fronte; posi la mano al cuore. Udivo lo scroscio di un
torrente rapido. Pensai che la miniera ne poteva essere invasa. A quel fracasso
s’univa il gocciolare sommesso delle rocce.
Percepivo tutto distintamente.
Da una parte della scala era una specie di fosso colmo di
ombra. Supposi che l’acqua corresse lì dentro. Ma dovetti accorgermi che,
invece, passava di sotto alla scala dove erano i miei piedi, e che quando un
gradino si piegava al peso del mio corpo ne usciva a piccole onde che dilagavano.
Era un’acqua sporca di sostanze di ferro, e quindi giallastra. I muri eran
coperti di quel colore.
La scala fu molto lunga. In fondo era cessato il rumore
dell’acqua ed udivo i colpi sordi dei minatori.
Una crociera di gallerie si apriva, ma io mi ricusai di
visitarle. Trovavo sconveniente guardare degli uomini affaticati.
Entrai nella stanza della pompa: avevo creduto di trovarla
sola, e, invece, vi erano molti operai. Quello che facessero precisamente non
so. Ero preoccupato da certi tonfi enormi che facevano tremare il suolo, e
dallo sbuffo caldo e forzato di un tubo rosso. Dopo un poco, scorsi la gabbia
che scendeva e si fermava al livello della stanza. Vidi che un operaio vi era
dentro.
Il sorvegliante guardava i minatori e parlava a me. Mi dava
delle spiegazioni che non m’interessavano. Avevo paura di una idea: che la
stanza dovesse scoppiare con tutte le provocazioni che le facevano quegli
uomini. Il tubo, da cui schizzava quell’acqua bollente, perché non sarebbe
scoppiato? E perché qualche congegno dell’ascensore non sarebbesi strappato ?
Quei petti nudi mi facevano male. Il pelo arricciato, dove
le gocce di sudore si soffermavano prima di cadere, più male ancora...
Gli operai rovesciavano in terra lunghi pezzi di legno
bianco. Pareva che si sfasciassero.
In terra, per quanto era lunga la stanza, era uno strato di
cemento; e, ficcato in questo, rimanevano gli avanzi della pompa, che
consistevano in cavicchi tozzi di ferro verniciato in rosso.
Mettevo una cura estrema di non urtare in quelli: mi sarei
vergognato molto.
Degli uomini si muovevano negli angoli di fondo: uno cercava
nella sua giacca.
Rumori violenti mi ferivano senza posa: percepivo un urlo
confuso, in cui passavano, di quanto in quanto, dei suoni che non riuscivo a
spiegare.
Il sorvegliante mi domandò se avevo caldo. Gli risposi
mostrandogli il viso. Sotto le ascelle mi si appiccicava anche la camicia. Le
scarpe erano umide. Mi doleva la testa.
– Scendiamo?
– Scendiamo.
Entriamo nella gabbia, ed io domando come devo attenermi. Da
prima credo che quella scesa mi dia una vertigine, ma poi mi assicuro di no.
Vedo i ferri scorrere, larghi e piatti, sopra ad un altro rettangolare, con un
moto sicuro.
Il sorvegliante tossisce più volte: io credo che sorridessi.
Intravedo diversi tubi verniciati in rosso. Finalmente provo
un sobbalzo; la gabbia ha urtato terra.
– Ha avuto paura?
– No, no.
In un polverone, qua e là acceso da lumi rossastri, vedo
agitarsi molti uomini. Prima d’uscire esito e guardo la mia lanterna. Il caldo
è insopportabile; più tardi ho saputo che eravamo a 47° sopra zero ed a una
profondità di 150 metri.
Viene incontro un giovine. Io saluto ma non mi risponde. Mi
pare beffardo. La sua fronte è solcata da un raggio di rughe secche, come se un
ragno vi avesse accomodate le sue zampe. Chi è? Ha gli occhi chiari e
cristallini, la bocca contorta. Passa oltre. Ne vedo un altro a cui mancano le
estremità interne dei baffi: la bocca ha una cicatrice verticale. Non lo
saluto.
La stanza dove sono tutti questi uomini ha il pavimento soltanto
alle pareti: nel mezzo è una fossa rettangolare coperta di tavole messe a caso.
Là dentro si muovono le perforatrici a vapore, che non ho voluto vedere. I loro
colpi di una sonorità sorda mi danno una pena fisica.
Passo in una nuova stanza, dove si sta costruendo una nuova
pompa. Non mi curo di nulla. Guardo i minatori. Sono agitati. Ne saluto
qualcuno che mi risponde con una indifferenza seria. Un giovine mi guarda nel
viso, sporgendo il suo in avanti. Quando ho cercato di contraccambiare lo
sguardo, è sparito. Che significava?
C’è un altro sorvegliante; un uomo alto e dagli occhi
slargati, che mi dà alcune spiegazioni con sicurezza. Quello che mi ha
accompagnato smozzica il lucignolo del suo lume. Voltandomi a sinistra, scorgo
un ventilatore, dalle ali d’acciaio, girare come un vortice affannoso, ronzando
acutamente.
Il sorvegliante s’avvicina ad un operaio bruno e gracile, e
gli parla all’orecchio. L’operaio guarda ora me ora il sorvegliante, tenendosi
i pugni sui fianchi. Mi parve che egli fosse più degli altri rôso dalla fatica,
e che la sua volontà si fosse ritratta per non più uscire. «Quell’uomo non deve
pensare a se stesso. La sua anima brutale, sofferente, è scomparsa nel tormento
selvaggio dei sensi. Il lavoro, come un incubo eterno, ha succhiato il sangue
nero della sua vita».
Il sorvegliante mi chiama, e mi dice se voglio vedere la porta
che rattiene l’acqua calda.
Esito. Non volevo più saperne. Ma egli si era avviato, ed io
lo seguo. In fondo ad un corridoio, largo ed alto un metro, scorsi una paletta
di ferro: somigliava ad una vanga piantata nella terra.
Ma il caldo era insopportabile: mi aveva ridotto di una
debolezza estrema... Temevo di sentirmi male. Dissi di risalire. Mi pareva che
il tempo fosse lentissimo.
Lasciai con un certo piacere quegli uomini. Pensai ch’io
fossi un loro nemico, com’essi erano a me: ero diffidente d’ogni più piccolo
gesto.
Entrando nella gabbia mi sentii inquieto. Il sorvegliante
non mi disse più nulla. Però, a un certo punto della salita, domandò
sorridendo:
– Che ne pensa di quello che ha veduto?
Non ricordo la risposta che feci mentalmente: era un accozzo
di sentimenti disparati e terribili. Perdurava in me la violenza delle
sensazioni. Ma risposi così, con un sorriso nervoso ed evitando lo sguardo del
mio compagno:
– Io?... Vorrei che venissero a minare le nostre città.
E dentro di me, ebbi un senso di timore. Mi parve di vedere
una cosa lunga e bianca giacere di fianco; mi accorsi che mi era cominciato a
dolere la testa e che respiravo male.
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