Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Tommaso Grossi
Marco Visconti

IntraText CT - Lettura del testo

  • CAPITOLO I
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CAPITOLO I

Limonta è una terricciuola presso che ascosa fra i castagni al guardo di chi, spiccatosi dalla punta di Bellagio, per navigar verso Lecco, la cerca a mezza costa, in faccia a Lierna. Cominciando dall'ottavo secolo, fino agli ultimi tempi che fur tolti i feudi in Lombardia, essa fu sempre soggetta al monastero di S. Ambrogio di Milano; e l'Abate fra gli altri titoli avea quello di conte di Limonta.

Sul confine tra il dominio dei monaci e il territorio di Bellagio, segnato ancora al d'oggi con una pietra, sorgeva nel 1329 un vecchio castello che fu poi rovinato verso il terminar di quel secolo, e del quale non si conserva più nessun avanzo.

Questo castello, al tempo da noi indicato, era posseduto da un conte Oldrado del Balzo, i cui antenati doveano, a quel che pare, essere stati anticamente signori di Bellagio che allora si reggeva a comune. Il conte Oldrado, quantunque avesse molti possedimenti in varie parti di Lombardia, passava ivi la maggior parte dell'anno in compagnia della moglie e di una sola figlia, innamorate entrambe, al par di lui, di quel bel cielo, di quel bel lago, di quel clima molle, lieto e delizioso.

Ricca, illustre, potente di parentadi e di attenenze, la famiglia del Balzo era sempre stata la protettrice naturale degli abitanti dei paesi vicini alla sua dimora; e tutti per una lunga tradizione di padre in figlio avevano imparato a riverirne e ad amarne il nome.

Successore di un sì bel retaggio, il conte Oldrado non avea però saputo mantenerselo, ed era scaduto assai nel concetto degli antichi clienti della sua casa: non ch'egli fosse cattivo; era una bella e buona pasta d'uomo; ma essendogli capitato di vivere in tempi difficili, in circostanze forti e malagevoli, non trovava nella sua natura floscia, timida, e non altro che vanitosa, il vigore necessario per far il bene che avrebbe pur voluto.

Intorno a quel tempo era calato in Italia Lodovico detto il Bavaro, e, deposto di proprio capo, il sovrano pontefice Giovanni XXII residente ad Avignone, dal quale era stato scomunicato, erasi arrogato di far crear papa in sua vece in Roma un Pietro da Corvaria dell'ordine dei Minori, che prese il nome di Niccolò V, empiendo per tal modo tutta cristianità di scandalo e di scisma.

Milano, che gemeva già da molti anni sotto l'interdetto stato fulminato per odio dei Visconti, potenti ed accaniti favoreggiatori di parte ghibellina, si dichiarò tosto per l'antipapa; ed avendo questi ribenedetto lo Stato, la città capitale, le altre città minori e i borghi più considerabili riapersero le chiese, e il poco clero rimasto fra noi, riprese le funzioni ecclesiastiche e l'amministrazione dei sacramenti, come a tempi ordinari. Ma nelle campagne, sul lago di Como principalmente, il popolo, meno infuriato negli odi di parte, si mantenne fedele al vero pontefice, e rifiutando di aprir le chiese, considerava come scismatici e scomunicati i sacerdoti che vi venivano spediti dalla capitale. V'eran poi, come è facile a supporsi, nelle città e nei borghi di quelli che la pensavano come i contadini, e v'erano degli abitanti di piccole terre che partecipavano alle opinioni di quelli delle grosse borgate, il che potete pensare quanto dovesse render dolce e riposato il viver civile in quei poveri tempi. Dappertutto profanazioni, violenze, risse e sangue. Frate Aicardo, arcivescovo di Milano, l'abate di Sant'Ambrogio, la maggior parte degli abati dei più ricchi ed insigni monasteri, fuggiti già da un pezzo; la più eletta porzione del cleroregolare, che secolare, errante, mendica per le terre d'Italia e di Francia; la mensa arcivescovile, le abbazie, i benefici ecclesiastici di minor conto, occupati e tenuti violentemente da' signori laici, o da sacerdoti scismatici amici dell'imperatore.

In tanta perturbazione, in tanto viluppo di cose, Giovanni Visconte, parente dei principi, che era stato nominato abate di S. Ambrogio, in luogo del vero abate Astolfo da Lampugnano, avea mandato a Limonta procuratore del monastero un furfante, mettitor di dadi malvagi, stato già condannato in Milano come falsario, il quale per vendetta della fedeltà che quei poveri montanari serbavano al loro legittimo signore, li veniva succiando, pelando, scorticando senza pietà, faceva loro mille angherie, mille soprusi, li trattava come roba di rubello. I Limontini si rivolgevano al conte Oldrado perchè s'adoperasse presso l'abate, intercedesse dai signori, facesse valer le loro ragioni; ma gli era come a pestar l'acqua nel mortaio; il conte avea tanti rispetti, tante paure, non voleva commettersi con alcuno, non voleva arrischiare di andar in disgrazia dei Visconti, e compiangendo in cuor suo quei miseri malmenati, gli avrebbe lasciati sparare prima di risolversi a levare un dito per aiutarli.

Il Pelagrua (tal era il nome del procuratore del monastero) fatto pertanto sempre più animoso e bizzarro, alla fine ne pensò una per disertar del tutto in una volta que' suoi governati, una bricconata temeraria che glieli desse in balìa anima e corpo, come suol dirsi, senza aver a piatire con essi ad ogni piè sospinto. Andò a cavar fuori certe antiche scritture della donazione fatta da Lotario Augusto di quella terra ai monaci di S. Ambrogi, colle quali scritture pretese di far dichiarare i Limontini non già vassalli, com'erano, ma servi del monastero, e citolli a quest'effetto a Bellano per essere giudicati.

Bellano era allora Corte arcivescovile (corte chiamavasi una tenuta dove il signore del feudo avesse casa e chiesa, e più propriamente dove si amministrasse giustizia), e ai messi dell'arcivescovo sarebbe toccata appunto la decisione di una lite di quella natura. Ma essendo l'arcivescovo fuggito dalla diocesi, molti beni della mensa sulla riviera di Lecco e nella Valsassina, e fra questi appunto la corte di Bellano, erano stati occupati da un Cressone Crivello, signore potente e favoreggiatore dei Visconti; perciò non già ai messi arcivescovili, ma a quel del Crivello veniva a devolversi la causa dei Limontini. Ora, questo nuovo signore era troppo palesemente amico del falso abate di S. Ambrogio, troppo interessato a favorire le usurpazioni ch'egli medesimo non cessava di esercitare su i nuovi suoi vassalli, perchè s'avesse ad aspettare da lui altro che male per quei di Limonta. Non domandate se essi ne levarono le strida, se si tornarono a raccomandare al conte del Balzo; tutto fiato buttato via: il conte, quantunque pregato e supplicato da Ermelinda, così avea nome sua moglie, e dalla figlia Bice ch'era il cuor suo, non ebbe mai il coraggio di pigliar le difese degli oppressi, i quali dovettero lasciarsi trascinare avanti a quel tribunale incompetente e iniquo, aspettando un giudizio che avvisavano pur troppo non poter esser altro che un assassinamento.

Volgeva verso la sera il giorno in cui s'era trattata la causa, e il falconiere del conte stava su 'n rivellino del castello guardando giù il lago fin dove poteva giunger l'occhio se si vedesse spuntare qualcuna delle barche che doveano tornare da Bellano. Finalmente scoperse in lontananza una vela color marrone, la vide crescere, farsi vicina, vide approdare la barchetta che la portava, e si mosse sollecitamente per darne avviso al padrone.

Stava questi in una ricca sala, seduto su 'n seggiolone a bracciuoli, colla spalliera che terminava in punta, e ai piedi di lui su d'un basso predellino si vedeva un leggiadro paggetto vispo, gaio come un amore. Condannato dal suo uffizio a starsene zitto e quieto a quel posto, il ragazzo baloccavasi di soppiatto con un grosso levriere, il quale, dimenando la coda, aguzzando gli orecchi, dando di tratto in tratto qualche salterello, qualche lancio, rispondeva a' suoi inviti.

Il conte del Balzo era un uomo più vicino ai cinquanta che ai quarant'anni: di sotto ad un berretto riquadrato di sciamito nero gli uscivano su i polsi due cernecchi, ch'egli avea sempre chiamati biondi fin da giovane, quand'eran rossi, e che continuava magnanimamente a chiamar biondi ancora, con tutto che fossero brizzolati tanto che il bianco oramai era il colore che dava più nell'occhio: una faccia affilata e lentigginosa si terminava in un mento aguzzo sul quale, allorchè il conte parlava, vedevasi ballare una barbetta rada rada, corta corta, del color de' capelli: due occhietti bigi con una guardatura fra' peli aveano pur qualche fuoco, ma su quel viso di stecco, in compagnia d'una bocca artificiosamente stretta ai canti e rialzata nel mezzo, non significavano che una vanità beata in stessa.

Gli posava sul pugno un superbo girifalco che parea goder tutto delle sue carezze, ed ora si chinava mollemente sotto di quelle, mandando un lieve gemito, ora arruffando le penne avventavasi alla mano che lo toccava, e non facea però che bezzicarla domesticamente. Quando il falconiere entrò nella sala, il generoso uccello riconobbe tosto il maestro che l'avea mansuefatto; e scuotendo le ali e gemendo più forte, parea invitarlo a prenderlo in pugno.

- E così? - domandò il padrone al falconiere, - vengono costoro da Bellano?

- Sì, vengono! Michele e il suo figlio Arrigozzo sono sbarcati pur ora alla riva del Carneccio.

Il padrone consegnò il falco nelle mani del paggio il quale uscì, ed egli in compagnia del falconiere stette aspettando i due barcaiuoli che non tardarono gran fatto a comparire.

Il padre, piuttosto vecchiotto; il figliuolo, un bel giovane di ventisette in ventott'anni.

- Che novelle mi rechi? - domandò il signore al vecchio.

- Come Dio vuole.

- Via, contami la cosa.

- Ecco qui: sonò la campana, e comparve sulla loggia dell'arcivescovo una faccia da scomunicato con d'intorno tre o quattro scribi e farisei, e cominciò a borbottar su una lunga filastrocca e cavò fuori certe cartapecore vecchie buone da involtarvi dentro gli agoni salati, e badava a batter su quelle con una mano, come se le cartapecore avessero avuto a dir di sì alle sue imposture: basta, in fine cambiò registro, e venne a dire una perfidezza di questa fatta, che vi sono testimoni che noi di Limonta si fu sempre servi alti del monastero.

- Aldi, avrà detto.

- Sì, altri, e per tal segnale, che si portava la testa rasa, e che è da poco tempo che ci siam lasciati crescere i capelli. Si può dare una infamità peggio di questa?

- Ma codesti testimoni c'erano o no? - domandò il conte.

- Manca testimoni? se si trattasse di far mettere ancora in croce nostro signore, credete che non ne troverebbero? C'eran sicuro, testimoni che per una buccia di fico giurerebbero ogni falsità, i quali sono tutti ghibellini scomunicati, gente che ha già data l'anima al diavolo.

- E così dunque?

- E così, dopo che quel volpacchione ebbe finito, entrò a parlare anche il nostro avvocato Lorenzo da Garbagnate: disse chiaro e tondo che noi non si è vassalli altri dell'abate, e che è più di cent'anni che non si fa che pagargli il testatico, l'alpagio, le decime com'è giusto, e prestargli le opere al ricolto delle ulive e dei marroni, e fare i navoli e tutto quel che è dovere e null'altro, infine ha detto una certa parola, una parola stravagante che faceva per noi... Te ne ricordi tu, Arrigozzo?...

- Di qualche cosa, - rispose il figlio, - mi ricordo che ha detto... come a dire d'un certo dritto... d'un dritto, che so io?... d'una certa roba che non ho mai sentito menzionare.

- Avrà detto che non siete più servi per diritto di prescrizione, - suggerì il conte.

- Giusto questo, proprio così, - sclamarono ad una voce padre e figlio.

- Ditelo a me! che queste cose io le ho sulle dita.

- Dunque per provarla questa discrezione, - tirava innanzi Michele, - il nostro avvocato mise fuori anche lui i suoi bravi testimoni, tutti i più vecchi del paese e dei dintorni.

- E allora?

- Allora tutto parea definito, n'è vero? il quale se c'era la discrezione, è tanto chiara: ma signor no, che colui di quel Pilato di giudice ne inventa una nuova, e dice: "Testimoni da una parte, testimoni dall'altra, tutti pronti a giurare; dunque niente, e si decida la causa per giudizio di Dio".

- Per giudizio di Dio!

- Così è, e tutti quelli che erano sulla piazza si diedero a batter le mani come avvesse data una gran bella sentenza. "Sia il giudizio del ferro caldo", gridò uno, "quello dell'acqua bollente", gridò un altro, "quello delle croci", gridai anch'io, e dissi qui al mio Arrigozzo che si esibisse lui per Limonta, come di fatto s'è esibito.

- E l'hanno accettato?

- No, perchè sono furfanti: ma io tant'e tanto l'ho fatto scrivere, che alla fine poi so che cosa vuol dire il giudizio delle croci, che non c'è rischio di niente; e anch'io quand'era giovane sono stato una volta campione, come dicono, del monastero, e ho vinto una causa contro quei di Bellagio.

- Tu sei più lungo del sabato santo, - l'interruppe il conte Oldrado, - Orsù, tornando a bottega, che cosa s'è conchiuso?

- Una bella storia s'è conchiuso; l'avvocato dell'abate ha voluto il giudizio per duello, e il messo, che era di balla con lui, ha detto di sì; ed ecco finito ogni cosa.

- Duello cum fustibus et scutis? coi bastoni e gli scudi? - domandò gravemente il conte, - perchè trattandosi di gente ignobile, armi da cavalieri non corre.

- Sì, col bastone e collo scudo.

- E chi si batte per voi?

- Chi si batte? è presto detto… il quale… si fa presto a dirlo, ma bisognava un po' essere a veder chi s'è offerto pel monastero: un demonio dal pel rosso con tanto di spalle.

- Dunque non avete accettato? dappocacci, scimuniti!

- Veramente, c'era qui il mio Arrigozzo che voleva esibirsi lui, ma io non ho voluto, e non voglio: non ci mancherebbe altro che in mezzo a tanti malanni m'avesse anche a pericolare questo poco di figliuolo che è l'unica mia consolazione e della sua povera madre, che siamo ormai vecchi tutt'e due e non abbiam altri al mondo. - Qui volgendosi al figlio l'avea preso per un braccio e: - Guardati bene ve', guardati dal lasciarti metter su, chè non voglio, non voglio, se hai caro di vedermi vivo e di veder viva tua madre, povera donna! che ben sai

- M'avete detto di no, di no, di no, ed io che cosa avea da fare? - rispose Arrigozzo: - basta, c'è tempo ancora quattro giorni.

- E per questi quattro giorni ti terrò serrato in casa e starò io a farti la guardia, e non mi farai il bravo.

- Siete un benedetto uomo! - disse il figlio levando le spalle in un atto di rozza ma pure amorevole condiscendenza, e si tacque.

Allora entrando a parlare Ambrogio, così si chiamava il falconiere, il quale fino a quel punto non avea mai aperto bocca: - E non si potrebbe, - disse, - cercare un campione anche noi? Uno di questi che si vendono per danari; pagarlo bene e che si battesse per la ragione del paese?

- No, - rispose il conte accarezzandosi la barba con una mano, - non si può: codesto del poter presentare un campione non interessato nel giudizio, è privilegio dei soli nobili, dei religiosi, e delle pie congregazioni.

- Dunque, - tornava a dir l'altro, - bisognerà proprio o lasciarci andar tutti in precipizio, o che uno di Limonta s'abbia a battere col campione del monastero?

- La cosa è qui, più meno, - conchiuse il padrone.

- Oh se fosse a casa il mio Lupo! - sclamava il falconiere, - se fosse a casa o in un luogo da potergli far giunger l'avviso a tempo, per Dio! che codesti prepotenti non l'avrebbero tanto di bel patto.

- Dimmi un poco, - gli domandò allora Michele, - il tuo Lupo non s'è egli messo per valletto presso Ottorino Visconti?

- Sì, per valletto da principio, quando m'è scappato di casa cinque anni fa, ma adesso è suo scudiere, e quel signore gli vuole un ben dell'anima, e non un passo, mi dicono, senz'averlo seco.

A queste notizie il barcaiuolo parve che rinvenisse da morte a vita, e fregando le mani, e dando una giravolta pel salotto, si mise a gridare: - Dunque a Como subito subito, senza perdere un momento!

- Che? sai tu forse che il mio Lupo sia a Como?

- So che c'è Ottorino Visconti, - rispose Michele, e volgendosi al figlio: - L'hai pur veduto anche tu quando ci siamo stati giovedì.

- Chi? quel giovane? quel cavaliere che ci ha salutato sul molo, e ha parlato con voi?

- Giustamente.

- Oh, se l'ho visto! è quello che era tanto amico del figliuolo qui del padrone, del povero Lionello buon'anima, e una volta veniva fuori in castello a passar dei mesi in sua compagnia.

- Dunque, - ripigliava il vecchio barcaiuolo tutto lieto, - presto a casa a mangiar due bocconi, e via subito, intanto che il lago è buono. Arrigozzo, la barca è bene in ordine di tutto eh?

- Sì, vela, remi, coperta, c'è dentro tutto, chè per far presto a venire quassù, non ho portato fuori niente.

Il padre prese il figliuolo per la mano, fece un inchino al conte, e s'avviò verso l'uscio, dicendo al falconiere: - Già glielo dico anche a nome tuo, ve'?

- Diglielo pure anche a mio nome, - rispose questi.

E l'altro: - Dunque a rivederci domani insieme con lui, - e se n'andò.

- Michele, Michele! - gli gridò dietro il conte; - ricordati che la cosa sia fatta come di tuo, che non s'abbia a credere ch'io ci ho avuto mano, che non ho bisogno d'andarmi a pescar delle brighe in grazia vostra, hai capito?

- Ho capito.




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2008. Content in this page is licensed under a Creative Commons License