CAPITOLO III
È il giorno determinato pel giudizio di Dio: una schiera di
soldati del Crivello contiene a stento la moltitudine sulla piazza di S.
Giorgio di Bellano, per mantenervi uno spazio nel mezzo, d'onde esce un
fracasso di seghe, di martelli e di voci d'operai che s'affrettano a compire lo
steccato.
Alla sinistra di chi, stando sulla piazza, volge il viso al
lago, s'innalza la casa dell'arcivescovo: un lungo edifizio di pietre rozze
colle finestre a sesto acuto, dimezzate da una sottile colonnina di marmo nero
di Varenna. Alla destra mano e di fronte, varie casucce; dietro le spalle la
chiesa dedicata allora a S. Giorgio, colla facciata acuta, un finestrone tondo
nel mezzo a fiorami; tra il finestrone e la porta una statua di pietra
rappresenta il santo patrono a cavallo in atto di ferire colla lancia il solito
dragone. Su i due campi di qua e di là un S. Cristoforo col bambino in collo, e
un S. Antonio col campanello appiccato in cima a un bastone, lavoro d'artefici
greci, di che era piena ancora l'Italia a quel tempo; figurone grandi,
sterminate, che teneano poco men che mezza la fronte della chiesa, come usavasi
nel rappresentare Dio e i Santi, volendo dar indizio della potenza
soprannaturale col gigantesco delle forme.
Le porte della chiesa erano spalancate, e nell'interno di
essa s'aggirava uno sciame di fanti armati e vestiti in cento foggie; gente
raccogliticcia che Cressone Crivello avea messo insieme in fretta e in furia,
avendo mandato un bando a tutte le terre, a tutti i castelli da lui posseduti,
perchè gli venisser forniti gli uomini d'arme ch'erano obbligati a prestare al
signore a termine delle investiture feudali. Tanto e sì straordinario
apparecchio di forze s'era fatto, perchè era corsa la voce della sollevazione
dei Limontini, e si temeva che i rivoltosi, i quali sarebbero accorsi a veder
la prova del duello, non avessero a suscitar qualche tumulto anche fra quei di
Bellano, già per sè stessi troppo mal sofferenti del giogo che era stato loro
imposto.
Per far conoscere un po' questa gente, riferiremo un dialogo
che si tenne in chiesa tra un cacciatore di Pagnona, un paesello sulla schiena
del Legnone, e un fornaio di Mandello, che è un grosso borgo alla riva del
lago, andando verso Lecco. Il cacciatore aveva una gonnella di mezzalana color
di piombo, che gli scendeva fin quasi al ginocchio; un paio di brache, o panni
di gamba, come si chiamavano allora, strette alla carne, che davano fino alla
noce; i piedi in due zoccoli colle guigge di corda, e la pianta armata di
lunghe punte di ferro, colle quali quei montanari sogliono assicurare il passo
correndo sulle creste dei loro monti, sull'orlo di precipizi spaventosi:
portava ad armacollo una botticina e un corno, e dietro le spalle un arco di
frassino con alcune saette legate alla corda. Il fornaio aveva in dosso un
giubberello di panno bianco colle maniche strette ai polsi da alcuni bottoncini
d'ottone, una gabbanella orlata di pelle d'orso, una berretta quadra in capo, e
una daga arrugginita fra mano.
Stava quest'ultimo appoggiato con una spalla alla pila
dell'acquasanta, dando mente alle chiacchiere che si facevano d'intorno, quando
vide passarsi da presso il cacciatore, e mettendogli una mano su d'una spalla:
- Ohe! Lorenzino, - gli disse, - anche tu a Bellano?
- Anch'io, sicuro, che vuoi? quel maledetto Crivello non
lascia aver requie, che gli nasca il vermocane!
- Zitto per carità, non sai che è una bestemmia proibita
dagli statuti codesta? e che ne va dieci lire di terzuoli, o la scopa?
- Oh! va, di' agli statuti che vengano a trovarci lassù sul
Legnone, e ci parleremo.
- Ma come c'entri qui tu? - gli domandava quel da Mandello,
- tu che non hai nè terra nè tetto, ci starai per qualcun altro, m'immagino.
- Sì, pel nostro parroco son qui; ei tiene il beneficio
coll'obbligo della decima e di quattro giornate d'armi all'anno, a comandamento
dell'arcivescovo; da che l'arcivescovo è fuora via, nessuno là al paese volle
sentir più menzionare d'andar a servire questi ribaldi scomunicati; il Crivello
bestemmia, che vuol portar via l'alpe al prete, che vuol fare, che vuol dire; e
il poveraccio per non mancare alle chiamate s'ingegna, ora paga l'uno, ora
prega l'altro, come può; questa volta s'è raccomandato a me: non c'è camosci,
orsi manco, che avea da fare a casa? «Andiamo un po' a codesto duello che è
tanto tempo che non se ne vede più», dissi tra me, e così son venuto.
- Io ci sto per mio conto, - diceva il fornaio; - ho quella
poca di casetta, e c'è su il livello di quattro giornate d'armi all'anno;
questa è l'ultima se Dio vuole, chè la mia scritta canta chiaro, e se codesto
nostro padrone garbato vuol far la vita dell'anno addietro, che tutti i momenti
s'abbia ad aver l'armi in mano, io non me la sento una boccicata, e già gridano
tutti a Mandello che non ne ponno più, e ci farà fare uno sproposito come quei
di Limonta.
- È vero, dunque eh? che i Limontini hanno fatto il diavolo?
- E di che sorte! hanno ammazzato il Pelagrua e dato il
fuoco alla casa del monastero.
- Oh benedetta la loro faccia! - esclamò il cacciatore.
- Sì, ma adesso, dicono che l'abate di S. Ambrogio,
infuriato come un turco, giura e spergiura per tutti i santi e per tutti i
diavoli che vuol fargliela pagare.
- Dal detto al fatto c'è un bel tratto; la causa, a buon
conto, s'ha a decider qui, per via di giustizia; se quel che si batte pei
Limontini resta al di sopra, di' un po' che venga qualcuno a toccarli, chè
tutto il lago di Como si leverà.
- Si vede che sei giovane, il mio Lorenzino, - interrompeva
il fornaio, - e non hai ancora imparato che la ragione alla fine dei conti è
dei signori, e che gli stracci vanno sempre all'aria.
- Ma quando poi siam tutti d'accordo, - insisteva il
cacciatore.
- Tutti d'accordo? mi fai ridere. Vedi là sulla piazza
quelle quaranta lance? chi vuoi che li tocchi coloro? tutti vestiti di ferro
che è come a dar su d'un sasso: gente disposta e risoluta a farsi sbudellare
per amor di chi la paga, fosse il diavolo.
- Ma, e noi altri?…
- Noi altri ci siamo così come per un di più, così come uno
spauracchio, e ci tengon qui dentro in chiesa, come vedi, chè non vogliono che
andiamo in volta a far camerata insieme con quei di Bellano; ma se venisse il
caso di dar loro addosso, credi tu che non faremmo anche noi la nostra parte?
- Io no di sicuro, - rispondeva risolutamente il montanaro.
- Bravo, bravo! - ripigliava il fornaio sorridendo, - se te
l'ho detto che sei giovane! e dico di più, che se oggi quei di Mandello, per un
paragone, tengono a partito quei di Bellano, domani, per modo di dire, quei di
Bellano verranno a Mandello a far lo stesso con noi: oggi sono io il bastone, e
tu sei l'asino; domani, l'asino sono io, e tu il bastone; ma l'asinaio che ha
bastonato ieri, bastona oggi, e bastonerà domani, e dopo, e l'altro, e sempre,
finchè durerà questo mondo.
Qui il dialogo fu interrotto dall'avvicinarsi d'una delle
quaranta lance del Crivello, che passeggiava tra la folla di quei soldati
salvatici per tenerli in rispetto.
Nella maggior sala del palazzo arcivescovile s'andavano in
questo mezzo radunando i signori, i cavalieri, i castellani, le dame e le
gentili donzelle del paese, delle terre e dei forti di tutto il lago,
gareggianti fra loro di lindure e gale, di nuove fogge e leggiadrie nelle
vesti, negli adornamenti e nel corteggio.
Una lunga camera, che metteva in quella sala, brulicava di
paggi, di donzelli e di scudieri; il vasto cortile risonava dello scalpito dei
cavalli, dell'abbaiar dei cani, del gridar dei famigli.
Ciascun pensi con quanto disagio e a che pro i signori si
conducessero dietro tutto quel traino, specialmente di cavalli, in quel
paesetto serrato tra il lago e una montagna erta, malagevole; un paesello a cui
non si poteva che o approdar per barca, o discendere per viottoli, per
iscoscendimenti: ma tant'è, il corteggio ci voleva perchè fosse veduto, e desse
un alto concetto della ricchezza, della magnificenza, della nobiltà di chi lo
tratteneva.
Le altre camere di quel vasto edifizio, su tutta la fronte
che guardava la piazza, erano piene zeppe di persone di minor conto che vi
s'eran ficcate dentro, quale come attenente d'un signore, o come amico di uno
scudiero o d'un donzello, quale per amore di qualche soldo di terzuoli lasciato
accortamente sdrucciolar nella mano d'una sentinella che gliela metteva sul
petto per cacciarlo indietro.
Insieme ai cavalieri ed alle gentildonne, passeggiavano
nella sala privilegiata uno di qua, l'altro di là, l'avvocato del monastero di
S. Ambrogio, e quello dei Limontini. Erano vestiti d'una lunga roba di seta
color viola con un cappuccio rosso foderato di ermellino, che aveva il
becchetto lungo fino al tallone; ma l'avvocato degli uomini di Limonta non
tenea in mano la mazza d'argento, come il suo avversario, chè quello era un
contrassegno d'onore riservato solamente a chi difendea le ragioni dei vescovi,
degli spedali, dei monasteri e delle altre pie congregazioni.
In compagnia dell'avvocato di quei di Limonta passeggiava
Ottorino Visconti, il signore di Lupo, il quale avea promesso al suo scudiere
di trovarsi a Bellano pel dì del duello; un cavaliere leggiadro di forse
ventisei anni, intorno al quale non incresca al lettore che spendiamo qualche
parola, dovendo egli aver una gran parte negli avvenimenti che ci apparecchiamo
a narrare.
Ottorino Visconti figlio di Uberto, il quale era fratello
del Magno Matteo, veniva ad esser cugino di Galeazzo Primo, morto l'anno
innanzi a quello in cui ci troviamo colla nostra storia, e così di Marco, di
Luchino e di Giovanni, altri tre fratelli viventi, figliuoli tutti di Matteo.
Appena il generoso garzone fu in età da poter vestire una
corazza, si pose sotto la disciplina del suo cugino Marco, giovane già maturo a
quel tempo e celebrato per uno dei più valorosi condottieri d'Italia;
addestratosi nel mestier dell'armi sotto gli occhi di quel gran capitano, il
quale avea preso ad amarlo quasi come un figlio, ricevette dalle sue mani il
cingolo della milizia, e seguì sempre la sua bandiera.
Era il nostro giovane cavaliere elegantemente vestito di
velluto cremisino con un mantelletto cilestro ricamato d'argento, e foderato di
zibellini; una grossa catenella d'oro gli si avvolgeva a doppio giro intorno al
collo cadendogli a mezzo il petto: di sotto ad una magnifica foggia o berretto
del color del mantello scappavano in graziose anella le nere chiome ondeggianti
sulle spalle, e una piuma bianca che ricadeva dalla fronte sull'omero sinistro
facea spiccar maggiormente col contrasto il colore dei capelli. Gli occhi vivi
scintillanti d'una temperata baldanza, la faccia un po' abbrunita dai soli del
campo; grande della persona, ben adatto delle membra, graziosamente risoluto e
fiero in ogni atto, in ogni posa, in ogni movenza.
Lorenzo Garbagnate, avvocato dei Limontini, gli veniva
narrando dei gran fatti di Limonta, e della parte onorevole che v'avea avuto
Lupo il suo scudiere; al che il giovane si sentiva brillar dentro il cuore.
Essendo poscia venuti a parlar del conte Oldrado e della sua
famiglia, Ottorino gli domandò di Bice, ch'egli avea conosciuta ancor
fanciullina al castello di suo padre, al che l'avvocato rispondea, come in
pochi anni si fosse fatta una sì bella cosa.
- È dunque vero ch'ella somigli tanto sua madre? - disse il
giovane.
- Tutta lei, che non se ne perde gocciola, - rispondeva il
Garbagnate, - e poi oggi la vedrete qui, che ho inteso come suo padre ve la conduca
a vedere il duello.
- E a che ora comincerà il giudizio?
- A sesta dal levar del sole, se però non ci nascono guai,
come ho paura.
- Che guai ci ponno nascere? non è tutto in punto?
- È tutto in punto, ma c'è quell'interdetto che imbroglia
ogni cosa: il messo del Crivello ha fatto pigliare il parroco perchè ricusa di
benedir le armi; questi protesta di voler piuttosto patire il martirio che
incorrere nella scomunica; quegli s'ostina di più, e l'affare minaccia di farsi
grave.
- Oh via, non si potrebbe andare a cercar qualche altro
prete?
- Chi volete che venga a torsi addosso questo carico? c'era
qui poco fa il pievano di Limonta, venuto in compagnia di Lupo, ma quando sentì
come si volgeva la cosa, guizzò fra gente e gente, e s'è dileguato.
- Or che chiasso è codesto? - disse il Cavaliere fermandosi
su i due piedi a guardar la gente, che, accorrendo da tutta la sala, si
affollava nel mezzo di essa intorno ad un uomo pur allora comparso.
- Sarà qualche giullare, - rispose il Garbagnate, nè
s'ingannò.
Un uomo vestito capricciosamente, con due file di sonagli
d'argento al farsetto, alle brache, al mantello, con una berretta a mo'
d'imbuto sul capo, dalla quale pure pendevano in giro tanti sonagli, tenendosi
un liuto ad armacollo, cominciò a toccar le corde, accompagnando il suono con
atti e salti e scene da fare smascellar dalle risa.
- Il Tremacoldo, il Tremacoldo! - dicevan da più parti i
cavalieri e le dame. Era costui un famoso giullare più conosciuto della
betonica, che correva tutte le fiere, che trovavasi a tutte le corti bandite, a
tutti i tornei, in tutti i luoghi dove vi fosse adunata; e sapeva mille
giuochi, mille scherzi, avea alla mano invenzioni e bizzarrie, faceva le più
nuove beffe, narrava le più belle storie, cantava le serventesi e i lai dei più
celebrati trovatori e menestrelli di quei dì, menestrello egli pure e non degli
ultimi.
- Tremacoldo, Tremacoldo! - gli gridavano più voci, -
cantaci il Lamento della Prigioniera, sì, sì, la Rondinella, la Rondinella; -
no, - disse un altro, - canta piuttosto l'ultima canzone che hai fatto quando
sei dato nei ladri.
- Insomma qual delle due? - domandò il menestrello.
- L'ultima.
- No, no, l'altra, l'altra.
- La Rondinella dunque?
- Sì, la Rondinella.
Allora il Tremacoldo, dopo un patetico preludio del liuto,
cominciò:
Rondinella pellegrina,
Che ti posi sul verone
Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone,
Che vuoi dirmi in tua favella,
Pellegrina rondinella?
Solitaria nell'obblio
Dal tuo sposo abbandonata...
Ma in questa la folla che gli stava serrata d'intorno si
ruppe, e l'abbandonò, volgendosi ad un nuovo spettacolo che appariva in quel
momento. Bice, la figlia del conte del Balzo, entrava nella sala tenuta per
mano dal padre. Intanto che Ottorino gettava le braccia al collo del suo antico
ospite e inchinavasi con cavalleresca cortesia alla fanciulla, ecco il
Tremacoldo stizzito contro i nuovi arrivati, che gli avean scompigliata
l'udienza, venire innanzi tutto bizzarro per gettar qualche motto, e pungerli dello
spregio, che parea a lui gli fosse fatto in grazia loro. Imperocchè a quel
tempo, in cui i gentiluomini si tenean tanto di sopra dell'altra gente, ed
erano tanto schizzinosi e fantastici, che guai a chi li stuzzicasse, v'era i
menestrelli, i giullari, i buffoni, gente privilegiata, a cui s'accordava ogni
libertà d'atti e di parole, a' quali si menavan buoni frizzi più mordaci e
insolenti che non sarebbero corsi senza sangue tra cavalieri.
Venne dunque innanzi il Tremacoldo con l'animo che abbiam
detto; ma quando ebbe vista Bice procedere in tutta la bellezza della sua
persona, gli s'attutò ad un tratto ogni sdegno, e volgendo la puntura in una
gentilezza per lei, senza risparmiare una zaffatina all'udienza, disse:
- Che il gufo abbia ad ammutolire quando compare il sole, va
bene; ma che i barbagianni in cambio d'appiattarsi gli corrano incontro, questo
non l'ho mai veduto; - e tutti risero di cuore di quella grossa facezia.
Era la fanciulla a sedici anni una rosa che si schiude in
tutta la freschezza, in tutta la fragranza, ai primi raggi d'un bel mattino
rugiadoso. Una lunga veste cerulea, sormontata dalla cintura fino al ginocchio
da una reticella d'argento, imitava il colore delle sue pupille, ma era ben
lungi dal pareggiare l'etereo azzurrino, il molle e languido splendore di
quelle. Il diffuso volume delle chiome bionde, morbide, lucenti com'oro filato,
frenate soltanto da una corona di fiori alternati l'uno d'argento, l'altro del
color celestino della gonna, le scendeva ondeggiante pel collo e per le spalle,
ricco, odoroso, fino al lembo estremo della veste.
Alla natia dolcezza, al candore che spirava dal volto della
vergine, si mescea una cotale ombra di ritrosia, una lieve sfumatura
d'un'alterezza fantastica e schifa, ma pur soave, che aggiungeva una certa
avvenenza, un certo garbo, un sapore tutto proprio alla rara nobiltà di quei
lineamenti.
Si avanzò la bella nel mezzo della sala avendo dall'un lato
il padre, dall'altro Ottorino; e un sordo bisbiglio, un sussurro d'ammirazione
l'accompagnava nel suo passaggio. Essa vide tutti gli sguardi rivolti sopra di
sè, udì quel fremito che le si destava d'intorno, parte intese, parte indovinò
le parole ripetute dalla folla, ed abbassando timidetta le palpebre si fece
tutta di porpora in viso. Ma che fu poi, quando il giullare piegando un
ginocchio innanzi a lei, e levandosi il berretto dal capo, la proclamò ad alta
voce regina della bellezza e degli amori? La fanciulla sgomentita, confusa,
tormentata ormai veracemente da un troppo vivo senso di modesto rispetto, di
vergogna, s'andava stringendo al padre, e lo supplicava coll'atto del volto che
la menasse via, che facesse tacere, che licenziasse quell'uomo; ma il Conte del
Balzo, che gongolava tutto di quel trionfo della figlia, non che ascoltar la
sua preghiera, la fece adagiare su d'una seggiola in capo alla sala, le si
assise egli alla destra, fece segno ad Ottorino che le si ponesse dall'altra
banda, e poi che ebbe risposto gentilmente alle accoglienze che gli facevano i
cavalieri ivi radunati, rivolgendosi con signorile degnazione al menestrello,
si scusò d'avergli colla sua venuta rotto il canto, e pregollo di seguitare.
- Canterò qualche altra cosa, - disse il Tremacoldo, - e
chinata la fronte in una palma misurò due o tre volte a lenti passi lo spazio
lasciatogli nel mezzo della sala, intanto che gli uditori gli s'andavan
disponendo d'intorno in giro: poi, levando la faccia, cominciò a cantare le
lodi di Bice. Dopo d'aver assomigliata la fanciulla al giglio delle convalli,
alla rosa di Gerico, al cedro del Libano, dopo d'averla posta al di sopra di
quante belle sultane erano in quei dì l'ornamento degli harem d'Egitto e di
Persia, di quante nobili donne e principesse eran più lodate nelle canzoni dei
trovatori provenzali, la agguagliò a Madonna Laura, alla quale i versi del
Petrarca venivano allora preparando una fama che dopo cinque soli secoli si
mantien verde e fiorita più che mai; ed augurò alla bella del Lario il cantore
della bella d'Avignone, il quale, sebbene non avesse a quei dì più che
venticinque anni, era già celebrato per tutta Italia come il primo poeta.
Finalmente, volgendo il verso al giovine cavaliere che era seduto a lato della
fanciulla, ne esaltò la schiatta, il costume, il valore, e conchiuse che la
donzella s'addiceva a lui come una gemma ad un anello.
Più volte il cantore era stato interrotto da quella foga di
ammirazione che non può contenersi e bisogna che scoppi in applausi, quantunque
manifestamente importuni e molesti; alla fine della canzone, quando fu tolto
ogni freno all'entusiasmo ch'era sempre venuto crescendo, parve che rovinasse
la sala non solo, ma l'altra camera eziandio, dove stavano i donzelli e gli
scudieri che s'eran pur essi affollati all'uscio ad udire il menestrello.
Ottorino si levò in piedi, e toltasi di collo la catenella
d'oro che portava, con un suo garbo cavalleresco la porse al cantore, il quale,
resogli grazie del dono, avvolse la catena intorno al berretto, spiccò un
salto, e si rimise a toccar del liuto.
In questo mezzo il conte Oldrado, avendo visto all'altro
capo della sala l'avvocato Garbagnate, disse alla figlia: - Vengo tosto; - e
corse presso di quello, per domandargli dell'ora in che si sarebbe aperto il
giudizio. Ma la fanciulla che si trovò così soletta in mezzo a tanti occhi
tutti rivolti addosso a lei, timida e vergognosa si levò da sedere, ed
affacciossi ad una finestra che rispondeva sulla piazza, dove le parve di
respirare un po' più a suo agio, di riaversi tutta quanta; e la riconfortò pure
non poco il trovarsi tostamente a lato Ottorino, chè fra tanti sconosciuti,
quell'amico di suo padre, quel compagno del suo morto fratello, quegli col
quale ella stessa era stata in grande dimesticità, che avea fanciullescamente
amato un tempo, le diventava in quel momento un appoggio, una dolce tutela.
Finalmente la folla, tanto paventata dalla donzella, si ritornò a raccogliere
intorno al Tremacoldo, il quale avea dato principio ad un'altra canzone; ed
essa sentiva svanire a poco a poco, e andare in dileguo l'erubescenza, la
confusione di che tremava tutta. Se non che di mano in mano che quel primo
doloroso turbamento s'acchetava, veniva sorgendo in lei un senso più sottile, e
pur molesto, un senso d'onesta peritanza, un certo qual terrore ignoto del
trovarsi per la prima volta così, con un uomo che non era suo padre; e però
tratto tratto si volgeva indietro, e vedendo il Conte passeggiar per la sala
col Garbagnate, gli accennava che tornasse presso di lei: ma egli, che s'era
ingolfato in una disputa, e aveva il capo a canoni, a papi e a decretali, le
rispondeva colla mano che veniva, e non veniva mai.
Frattanto Ottorino intratteneva la donzella, con riguardosa
e modesta famigliarità, dei giorni che avean passati insieme al castello di
Limonta, quand'ella era ancor bambina; le rammentava i suoi trastulli, i suoi studi,
e le gioie, e le piccole ire, e le amabili angoscie di quell'età in cui tutto è
un sorriso, chi si volga indietro a riguardarla poichè se n'è sfuggita. Così
Bice si veniva a poco a poco rassicurando nella compagnia del garzone; il
terrore che avea provato dapprima si dileguava sempre più e svaniva in una
dolcezza livemente ombrosa e fantastica. Ella si voltava indietro più di rado a
guardar se il padre tornasse, e quando pur lo faceva, non era più con
quell'affanno, con quell'aria turbata e sbigottita di prima.
Quanto al giovane, un segreto sentimento d'orgoglio lo
rendeva beato in quella compagnia. Tutti avevano ammirata la fanciulla, i più
distinti garzoni di quell'adunanza avrebbero ambito a gara una parola, uno
sguardo di lei; ed egli era il solo ch'ella si compiacea d'aver vicino, a cui
parlava con effusione confidente, come ad un amico.
Così quel primo incontrarsi di Ottorino con Bice, dopo tanto
tempo che non s'eran più visti, la custodia che questa trovò nel garzone, la
dolcezza ch'egli ebbe di lei, poterono in un tratto far crescere
meravigliosamente quella dilezione quasi fraterna che si serbavano l'un
l'altro, e gettar nei loro cuori il germe di un altro affetto, in che la pura
benevolenza si suole tanto agevolmente trasformare.
Una tromba diede segno che il giudizio di Dio stava per
aprirsi: il giullare cessò il canto, e tutti corsero ai balconi a pigliar
posto. Il conte del Balzo venne anch'egli presso la figlia, la quale rimase fra
Ottorino e lui.
|