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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XVI
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CAPITOLO XVI

 

Uscendo dalla postierla d'Algiso che si apriva dove ora è il Ponte Beatrice, Lupo spronò verso il monastero di San Simpliciano, nelle vicinanze del quale sorgeva lo steccato.

Da tutte le strade traeva la gente ad uno spettacolo a que' tempi tanto gradito: era un brulicamento d'uomini, di donne, di fanciulli, vestiti tutti degli abiti loro più sfoggiati. Si distinguevano tra la folla i lanaiuoli per una berretta bianca ed una specie di camato che portavan fra mano; si distinguevano i maestri armaiuoli, de' quali, solo in Milano, ve n'avea più che diecimila, da un grembiule di pelle di vari colori, secondo che l'artefice era o corazzaio, o spadaio, o fabbricatore di scudi, di elmi, o di speroni; fra gli operai di un'arte medesima, o d'una scuola, come si diceva qui, si discernevano ancora i garzoni dai maestri, e questi dai soprastanti; si discernevano gli uffiziali minori, i consoli, l'abate.

Le dame e i cavalieri erano riconosciuti ai mantelletti di seta, ai cappucci di velluto, alle larghe maniche ripigliate, alle cottardite di scarlatto (lunghe vesti femminili strette in vita da una cintura), alle collane, ai vezzi, alle corone di perle o di pietre preziose, alle pellicce di vaio, di zibellino, o di martorella; fioriture tutte, acconcezze, e gale vietate ai plebei e ai grassi artigiani, che doveano star contenti ai frustagni, alle lane e mezze lane, alle pelli d'agnello, di coniglio, di volpe e d'altri animali comuni, e non potevano portar ciondoli, o fermagli, o bottoni se non d'osso, di ottone, d'acciaio, o d'altrettali ignobili metalli. Tanto era contrario lo spirito di quel secolo a quello del secolo presente; in allora un grande affanno per disguagliare, adesso per agguagliar tutto.

Giunto il nostro scudiere innanzi alla chiesa di San Simpliciano, che allora, come i Milanesi sanno, era un bel tratto fuor del recinto della città, vide la gente fermata a mirar vari scudi che vi erano appesi. Era usanza che si esponessero sulle pareti di qualche chiesa o di qualche chiostro vicino allo steccato le insegne dei cavalieri che dovevano armeggiarvi, perchè fosse facile a tutti il raffigurare poi chi li portasse nel della prova; e perchè, se v'era qualche nota da apporre a taluno di quelli che erano destinati per combattere, se qualche dama o donzella avesse avuto alcun richiamo d'onore da fargli, potesse notificarlo in tempo ai giudici del torneo, i quali ne escludevan l'accusato, se le prove venivan giudicate sufficienti e il caso tanto grave da importar quella pena.

Il nostro Lupo, poi ch'ebbe dato un'occhiata ad uno scudo inquartato di rosso e di bianco con una vipera nel mezzo, ch'era quello di Ottorino, tirò innanzi; e quanto più andava, la folla e il frastuono erano maggiori.

Qui un menestrello cantava al suono della mandòla: un giullare aggirava cani e scimie al suon d'un piffero e d'un tamburello; più innanzi un cantambanco spacciava reliquie e segni contro le febbri, esaltando le virtù mirabili dell'erbe di San Paolo e di Santa Apollonia; dappertutto baracche entro le quali si tenevan giuochi di dadi, di tavole ed altri speciali di quel tempo chiamati della polveretta e della correggiola; giuochi, che sebbene proibiti dagli statuti, si esercitavano tuttodì a man salva dai mariuoli per trappolare i gonzi. Di luogo in luogo sorgevano tavolati e tettoie, e botteghe a vento, sotto le quali vendevansi carni di montone, di cignale, di mannerino con vari addobbi e vari sapori; pane di frumento, di segale, d'orzo; malvagìa, vernaccia e vernacciuola, ed altre ragioni di vini e di cibi.

Alla sinistra dello steccato s'apriva una vasta piazza dove si tenea fiera di cavalli da battaglia e da giostra, e s'udivan le grida dei cozzoni che ve li facean correre, caracollare e corvettare per entro. Presso a quello, due campi minori scompartiti in tante chiusure eran destinati al mercato l'un de' cani, l'altro de' falchi: ivi ai latrati, alle strida degli animali si mescevano le voci dei venditori che esageravano il pregio della loro mercanzia.

- Una coppia di segugi di Tartaria della vera razza portata in Francia da San Luigi, - gridava uno. - Cani da sangue e da fermo, che non patiscono di rabbia. - Sparvieri pellegrini e nidiaci d'Inghilterra, d'Alemagna e di Norvegia, - strillava un altro. - Un falcon randione, il re degli uccelli, allevato a ghermir la lepre, che assalta il lupo e il cinghiale.

Dalla banda opposta, a destra mano dello steccato era il mercato delle armi: come un accampamento di baracche e di tende d'ogni forma e d'ogni colore, con entrovi corazze, scudi, gambiere, cosciali, manopole, cuffie di ferro e lance e spade e mazze ferrate e misericordie. Nel mezzo d'ognuna di quelle botteghe posticce, le più ricche armi e le migliori si vedean composte sopra un palco conficcato nel terreno in modo che figuravano un guerriero: in qualche luogo il guerriero era a cavallo, le gualdrappe che andavano fino a terra, la cervelliera, il collare di maglia, la sella ferrata, la groppiera a scaglia di pesce, ricoprivanbene il castello di legno e il rivestimento di borra, che il simulato animale potea scambiarsi per vero: qualche volta due finti guerrieri eran posti di fronte l'uno all'altro, e parea che si spronassero incontro tutti chiusi nell'armi, colle lance arrestate; v'eran rappresentazioni bizzarre di scontri e d'abbattimenti, arti tutte messe in uso dai nostri armaiuoli per invogliare i compratori, che, massime in occasioni di giostre e di tornei, accorrevano da ogni parte a provvedersi d'armi in Milano, dove erano le più riputate fabbriche d'Europa. Ogni baracca avea un cartello col nome del maestro fabbricatore.

- Giacomolo, come vanno le faccende? - domandò Lupo ad un uomo pienotto e rosso in faccia, il quale stava dentro ad una di quelle tali botteghe, coi gomiti appoggiati sulla sbarra che ne chiudeva l'entrata, guardando oziosamente quelli che passavano.

- Così, così, - rispose l'interrogato, ch'era Giacomolo Birago, uno de' più riputati fabbricatori d'usberghi, - pel posto che m'è toccato e per la stagion che corre, fin qui non l'ho fatta male del tutto.

- Hai poi mandata quella corazza ad Ottorino?

- Sì, gliel'ho portata io stamattina, gliel'ho provata indosso, e torna una pittura; ti so dire che è un arnese da averne onore, una piastra a botta di pugnale temprata colle mani mie, e v'ho poi lavorati certi rabeschi d'oro innanzi al petto, che, non perchè sia mia fattura, ma, senti, per galanterie come questa, il Biassonno e Pier degli Erminulfi ed Estore Casato possono risciacquarsene la bocca.

Intanto giunse un vecchio tutto chiuso in una schiavina color marrone, col cappuccio in capo, e il becchetto avvolto intorno al collo, e domandò al Giacomolo: - Maestro, vorrei un morione di prima tempra, col sottogolo, e che avesse la buffa inchiodata.

- Intendete di quegli nodati sul viso e che s'aprono per di dietro?

- Appunto.

- Le son cose vecchie, ed io non ne tengo: il morione adesso si fa colla sua brava visiera da calarsi e da alzarsi a grado del cavaliere: se ne volete di questi ne ho delle migliori fabbriche, guardate qui, - e così dicendo s'avviava verso il mezzo della sua bottega; ma l'altro:

- No, no, - gli disse, - non vi sconciate, maestro, vorrei proprio averne uno nella forma che v'ho detto: e dove potrei mo andarlo a cercare?

- Potete provare qui innanzi la quarta o la quinta bottega a contar dalla mia: sapete leggere?

- No.

- Bene, non potete fallare, e poi domandate d'Ambrogio Caimo, e tutti ve l'indicheranno: egli forse ne avrà, chè le tiene lui codeste anticaglie; se non lo trovate , fate conto d'averne a far senza.

- E quanto potrei pagarlo se lo trovassi?

- Ma... a... a?... - rispose il Birago strascicando la voce, e levando le spalle; - è come a domandare quanto costa una reliquia; costa più, costa meno, secondo la divozione di chi la compra e la coscienza di chi la vende.

- Scusatemi, se v'ho scioperato, - disse quel dalla schiavina e tirò innanzi.

- Che razza di morione vuol egli costui? - parlò allora Lupo rattaccando il discorso coll'armaiuolo.

- Sono morioni, - rispose il Birago, - che usavano una volta, e li portava chi volea correre una giostra, o ferire un torneo restando sconosciuto; essendo tutti d'un pezzo, non v'è pericolo che un colpo di lancia alzi la visiera e scopra il volto del combattente.

- Ah capisco!... Or dimmi un po': il Vicario non è per anco arrivato, è vero?

- No, si corre tuttavia la quintana; tosto ch'ei giunga, si darà principio al torneo.

- E si fanno aspettar tanto? - tornò a domandar Lupo.

L'armaiuolo non rispose che collo stringer della bocca crollando nello stesso tempo il capo, ma dopo un momento abbassando la voce diceva: - Vedi bene che razza di signori! Se fosse stato Marco! - e qui mise un lungo sospiro.

- Oh, se fosse stato lui! - rispose il Limontino sospirando anch'egli alla sua volta.

- Ma perchè andar via? - seguitava l'armaiuolo a voce ancor piú sommessa; - qui doveva stare, doveva star qui, chè siam tutti dalla sua, e quanto alla nostra scola ve', dall'abate all'ultimo garzone saremmo andati tutti quanti nel fuoco per lui.

- E i soldati! - rincalzava Lupo, - e la nobiltà! e poi tutti; ma chi sa che in questo suo andare non ci sia materia sotto; io per me tengo che la non sia liscia come la pare. -

Qui il colloquio fu interrotto dalla comparsa dell'uomo dalla schiavina che tornava indietro con un morione in mano.

- Buonuomo! quell'uomo! - gridò l'armaiuolo chiamandolo, - l'hai trovato?

- Sì, - rispose colui avvicinandosegli, e porgendogli da esaminare l'elmo che portava sul pugno, - l'ho trovato dove mi avete detto voi.

- Il Birago l'aperse, lo guardò minutamente di dentro e di fuori, poi disse:

- È delle fabbriche d'Inghilterra: e quanto te l'ha fatto pagare il Caimo?

- Indovinate un po'?

- Otto ambrogini grossi d'argento?

- Di più.

- Una lira imperiale?

- Più ancora.

- Via, dillo dunque, dillo, mai più ch'io non ci colgo.

- L'ho pagato due fiorinì d'oro.

- D'oro?

- Sì, d'oro, di trenta soldi imperiali l'uno.

- Che ladro! -, voleva dir l'armaiuolo, ma si morse la lingua, e restituendo il morione a quello sconosciuto, aggiunse: - Bisogna dire che misuri i fiorini collo staio colui che ne ha due da buttar via in codeste ciabatte da ferravecchi.

- Per chi ha da servire? - domandò Lupo bonamente e senza cerimonia allo sconosciuto: ma quegli si mise un dito sulla bocca, e se n'andò per la via d'ond'era venuto la prima volta.

I nostri due rimasti gli tenner dietro gli occhi finchè fu scomparso tra la folla; allora l'armaiuolo disse all'altro: - Gli è per qualcuno che vuol presentarsi sconosciuto alla giostra che si correrà domani.

- Se non fossi aspettato, - soggiunse Lupo, - sarei curioso di tenergli dietro, per veder dove va a posarsi codesto nibbiaccio. -

Allora essendo capitato un avventore per comperare dal Birago non so che pugnali, questi, alzata la stanga, lo fece entrar nella bottega, e il Limontino che lo vide in faccende se n'andò con Dio.

Fatto ancora un gran giro in mezzo alla folla, arrivò finalmente all'un de' capi della lizza formata da palchi e da torricelle di legno a vari piani dalla parte della città, e da un semplice steccato dalla banda opposta che andava a confinar coi boschi.

Lupo vi entrò, e vide i palchi messi a ghirlande, a drappelloni, addobbati di tappeti, di zendadi, di drappi d'oro e d'argento, vide cavalieri e dame e gentili donzelle sedute sul dinanzi, e più indietro scudieri e paggi in piedi: dappertutto era un agitarsi di piume, un tentennar di berrette e di cappucci, un luccicar d'armi e di gioielli. Un gran pergolo a colonne teso di sciamito bianco rilevato d'oro, vôto ancora in mezzo a tanta frequenza, era destinato pel Vicario Imperiale e per la sua corte: ivi brillava in alto in bei ricami il biscione sotto l'aquila nera, l'arme dei Visconti e quella dell'imperatore.

Nel vasto campo che rimaneva aperto in mezzo allo steccato stava impostata su d'una colonna una mezza figura d'un guerriero armato, collo scudo sul braccio sinistro, e una grossa e salda lancia nella dritta; e contra quella figura andava a percuotere chiunque tenendo un cavallo a' suoi comandi avea vaghezza di far prova di , il che si chiamava correr la quintana, ed anche correre il saracino, dacchè il fantoccio si cominciò a formare e a vestire a foggia dei Mori: era a quei tempi, e fu ancora per vari secoli una festa popolare e una scuola d'armi insieme, nella quale s'avvezzano i giovinetti a ferire fra le quattro membra, come si diceva, vale a dire nel petto o nella testa dell'avversario, che erano i soli colpi tenuti buoni e leali. Le lance per chi voleva provarsi venivano somministrate dai giudici della quintana, ed eran tutte della stessa lunghezza e grossezza; e chi ne rompeva un maggior numero, e chi faceva il miglior colpo venia gridato vincitore.

Ma il bello era quando il fantoccio non si colpiva giusto, chè scattava una molla, e per via di certi ingegni e contrappesi nascosti, si volgeva violentemente s'un perno menando legnate da orbi all'inesperto feritore.

Al capo opposto della lizza, dirimpetto alla quintana, era piantato un altro trabiccolo che ci facciamo a descrivere. Sorgea da terra un grosso troncone che aggiungeva alle spalle d'un uomo di statura comunale2; su quello era posta per traverso una trave raccomandata ad un perno di ferro, intorno al quale girava, volgendosi da ogni banda appena che fosse tocca. Un uomo a cavallo correndo a tutta carriera dovea percuotere colla lancia contro uno de' capi della trave, e la maestria stava nel sapere schifar il colpo che la trave medesima girando veniva a dare col capo opposto. Era un giuoco nel quale si correva pericolo della vita, e che, al pari delle giostre e de' tornei, era stato proibito più volte dai vescovi, dal papi, e dal concili; ma vescovi, e papi, e concili predicavano al deserto.

La macchina chiamavasi ariete, perchè le due estremità della trave solevan comunemente essere intagliate in forma d'una testa di montone, e si diceva correr l'ariete, come correr la quintana.

Lupo erasi presentato ad Ottorino, gli avea allacciato indosso l'usbergo nuovo del Birago, ripassato a parte a parte con minuto esame ogni arnese, riveduto attentamente il cavallo, i bardamenti, l'armatura; e trovato tutto in punto, entrava nel padiglione degli scudieri piantato all'un dei capi della lizza, e di quivi stava guardando quelli che correvano la quintana. Ed ecco vede venire a quella volta un uomo vestito dal capo fino alle piante mezzo di rosso e mezzo di giallo, in guisa che veduto dal lato destro era tutto d'un colore, veduto dal sinistro di un altro: foggia che era comune a quel tempi; quello che però avea di non ordinario il soggetto di cui parliamo, era una fila di sonaglini d'argento che gli pendevano dalla berretta tutt'all'intorno, i quali dondolando tintinnavano ad ogni passo ch'ei dava.

- Addio Tremacoldo, - disse il nostro scudiere, quando l'altro se gli fu tanto avvicinato ch'ei potè riconoscere in lui il giullare, dal quale erano state benedette le armi pel giudizio di Dio.

- Sei tu, Lupo? - rispose il buffone; - ho tanto gusto d'averti trovato: veniva appunto alle tende degli scudieri perchè alcun volesse accomodarmi d'un petto di ferro e d'un cavallo per correre un tratto al saracino: così me la farai tu questa cortesia.

- Vuoi correre il saracino? tu vagelli eh? guarda il fatto tuo, che non è tutt'una come a cantare un lamento: vedi quella pertica che ha in mano? ne ha castigati dei manco pazzi di te.

- Lascia far a chi tocca, e non cercar più in : ho scommesso con Arnaldo Vitale: egli m'ha vinto cantando in una tenzone d'amore, ed io l'ho sfidato al saracino.

- Ma non sai che Arnaldo Vitale è scudiere, e che sa correr la lancia al pari dei primi giostratori?

- Ma e tu non sai in che termini va la disfida? egli ha da romper la lancia al saracino, ed io vinco a toccarlo solamente, senza assaggiar del bastone che ha in mano.

- Sicchè non è a patti eguali?

- A patti eguali dice! aspetta che mi ci colga! un po' matto lo sono, ma non da legare però.

- E non ti vergogni!

- Di che? di guadagnare senza fatica un bel cavallo?

- E tu, che cosa ci metti a riscontro?

- Ci metto un pezzo di quella catena d'oro che mi fu donata a Bellano dal tuo signore; il resto me l'ho giocata su per le bische.

- Povera catena, e povere le tue spalle: basta, fa tu.

- Sicchè me lo presti codesto cavallo e codesto petto di ferro?

- Per una corsa sola, veh.

- Ci s'intende.

- Bene, vien qua dentro, e ti metterò in assetto d'ogni cosa.

Vestitagli una corazzetta leggiera colla sua brava resta appiccata al petto, Lupo fe' montar il buffone sul proprio cavallo, e datagli in mano una lancia. - Questa per prova, - gli disse: - ficca il calcio qua dentro, - e gli accennava la resta: - fa di tener ben serrati i ginocchi, di curvarti innanzi sull'arcione sicchè il colpo non ti getti da cavallo: così, un po' più su... l'asta stringila bene, stendi meglio il braccio; fa di tor giusta la mira, e raccomandati al tuo santo protettore.

- Lascia fare a me, - rispose il Tremacoldo, e partì di trotto verso il mezzo dell'arena.

- Aspetta che ti metta gli sproni: - gli gridava dietro il nostro Lupo.

- Ne fo senza, - rispose il buffone, e via pure.

Una trombetta fece il giro dello stecconato annunziando la disfida tra Arnaldo Vitale e il Tremacoldo, e i termini in che andava. Tutti conoscevano il cervel balzano dello sfidatore, e però s'apparecchiavano a vederne qualcuna delle sue.

Posti i pegni nelle mani dei giudici, due staffieri vestiti di pelli d'orso, imitando col passo e cogli atti l'animale che volevan raffigurare, si avvicinarono al competitori per dare a ciascuno una lancia; ma in quella che il Tremacoldo stendeva la mano a pigliar la sua, il cavallo ch'egli avea sotto, aguzzò le orecchie, allargò le narici sbuffando, fiutò con aria sospettosa e feroce il vello dell'orso, poscia adombrando rinculò e inalberossi, cosicchè il povero cavalcatore fu a un pelo di dare uno stramazzone per terra; vistosi in pericolo, strinse le gambe, s'aggrappò come un gatto alla chioma dell'animale imbizzarrito, e fu sua ventura il non aver avuto gli sproni, e l'essergli capitato addosso Lupo in sul momento, il quale, preso, il cavallo al freno, chiamandolo pel suo nome, accarezzandogli il muso, palpandogli il collo e la groppa, lo rese manso in un tratto come un agnello.

Quetate le risa che quell'accidente avea destate intorno, l'araldo gridò ad alta voce: - Corre Arnaldo Vitale.

Ed ecco il trovatore tutto armato, con una corazzetta liscia e gli sproni d'argento, distintivo degli scudieri, pigliar del campo, precipitarsi sul saracino, e colpirlo netto in mezzo allo scudo con tanto impeto che la macchina tremò tutta, e la lancia n'andò in pezzi. Era la terza che s'erà rotta in quel giorno, ma nessuno avea ancora dato nel brocco, vale a dire in quella punta di ferro che sorgeva dal mezzo dello scudo, detto perciò brocchiere; e quello fu giudicato il miglior colpo.

L'araldo gridò: - Imbroccato. - e levossi un rumore d'applauso generale.

Dopo un momento la moltitudine cominciò a gridare: - Tocca al Tremacoldo, corra il Tremacoldo!

- Son qui, non voglio scappare, - rispose il buffone.

- Presto, metti la lancia in resta, - gli disse allora Lupo che gli stava al fianco, e gli faceva da buriasso, dicevano a quel tempo; da padrino; diremmo noi: - presto, volta il cavallo e dàgli carriera. - Ma il mariuolo che non se la sentiva di correr così alla disperata a corpo perduto, aveva già pensata una sua malizia per uscirne, come si dice, pel rotto della cuffia; e invece di porre la lancia in resta, se la fece passar sotto l'ascella e prese carriera verso il bersaglio, tutto rabbaruffato ballanzando e rinsaccandosi, ch'egli era uno spasso a vederlo. Giunto a tiro, spinge l'asta, e viene a dar negli svolazzi d'un manto di porpora che il saracino avea indosso: non era buon colpo; e però, la macchina romoreggia, si scuote e gira a tondo, menando furiosamente il bastone, il quale veniva appunto a dare a mezza vita ad un uomo a cavallo. Tutti s'aspettavano di vedere il buffone sbattuto per terra; ma egli appena dato il colpo s'era lasciata scappar la lancia di mano, e facendo civetta, erasi piegato tutto sul collo del palafreno, di modo che il bastone gli rasentò il capo, ma non gli colse che la punta del berretto, il quale fu gettato un bel tratto lontano con grandissime risa e con mirabile tripudio della folla gentile e plebea che s'intese romoreggiare tutt'all'intorno.

Tosto che fu trascorso fuori del tiro, il Tremacoldo, tutto rattrappito, rilevò pian piano il capo di traverso, e gli si vedea rider sotto l'occhiolino: si racconciò bellamente sulla sella, voltò il cavallo, e venne a porsi dinanzi al saracino, che intanto era tornato queto al suo posto col bastone sollevato in alto: ivi con certi suoi atti da giullare, strabuzzando gli occhi, torcendo la bocca e mettendo fuori la lingua, si mise a gridare contro al fantoccio: - Lima! lima! moccicone, ti pensavi tu d'accoccarmela, eh? moro cane! ma le zucche fritte! al Tremacoldo non la freghi, no, infedele rinnegato.

- Tremacoldo, - gli disse allora uno dei giudici della quintana, - ne' termini della scommessa tu hai perduto.

- Come, perduto? se il bastone non m'ha tocco!

- Vedi il tuo berretto per terra che ti fa testimonianza contro, - replicava il giudice.

- Che mi fa a me del mio berretto? il mio berretto è un buffone, per modo di dire, e se gli salta mo il grillo di voler far quattro capitomboli sulla sabbia, che n'ho colpa io?

Il giudice voleva replicare, ma intervenne tosto in quel diverbio Arnaldo Vitale, il quale, pago della gloria d'aver fatto un bel colpo, si mise di mezzo e disse: - Il Tremacoldo ha ragione: noi abbiamo inteso della persona e non della berretta; - quindi volgendosi a lui medesimo: - pigliati il cavallo che è tuo, e l'hai guadagnato a buon giuoco.

Piacque agli astanti quel tratto cortese, e tutti colmarono di lodi il prode e liberale trovatore, al quale fu di pieno accordo aggiudicato il premio della quintana: una spada coll'elsa d'argento.

Intanto era giunto il Vicario imperiale Azzone in compagnia di Luchino e di Giovanni Visconti suoi zii, con una numerosa e splendida corte di baroni, di scudieri e di donzelli.

Appena egli fu visto affacciarsi al pergolo, che si levarono qua e alcune grida di: - Viva Azzone! viva il Vicario! viva il signor di Milano! - ma era una cosa fredda fredda; un romor sordo coperse tosto quelle voci e s'intese perfino in alcuni luoghi gridar chiaro e distinto: - Viva Marco! - tanto che Luchino, dopo aver dato un'occhiata in giro, accostandosi all'orecchio del nipote, disse: - Buon per noi che gli abbiam dato ricapito a tempo!

Il Vicario imperiale era vestito d'un lungo e ricco robone di damasco fiorato, chiuso davanti con una fila di bottoncini d'oro. Una striscia d'ermellino non più larga di tre dita gli cingeva la fronte tenendovi sotto raccolto uno zendalo nero ricamato a stelle d'argento, due lembi del quale gli scendevano quadrati di qua e di a mezzo orecchio, mentre il resto ricadeva all'indietro fino all'omero in forma d'un tôcco o d'un berretto: foggia signorile e vaga, che gli riquadrava il volto, e ne facea spiccare mirabilmente la naturale bianchezza.

Umano e piacevole signore per natura, in quel tempo Azzone faceva maggior sfoggio di gentilezza e di cortesia per guadagnarsi la moltitudine, ch'ei ben capiva non essergli troppo affezionata: si versava con mezza la persona fuor del palco per rispondere al saluti che gli mandavano i baroni e i cavalieri più vicini; salutava del capo e della mano ogni basso artigianello, ogni poca femminuccia che gli facesse segno di onore: moneta che ai grandi non debbe costar molto, e che presso ai piccoli par ch'abbia tanto valore.

Azzone avendo visto Arnaldo Vitale nel punto che questi, toltasi da lato la propria spada, ne faceva un presente al giudice della quintana e si cingeva quella ch'erasi guadagnata, si volse ad un suo scudiere che stava in piedi dietro al seggiolone dorato sul quale egli sedeva, e gli disse: - Senti, Lampugnano, va giù nello steccato e fa di condurmi qui il trovatore, quel che ha vinto il premio della quintana. - Mentre il giovane se n'andava ad eseguire quel che gli era imposto, il Vicario parlando co' suoi due zii, in mezzo ai quali trovavasi, diceva: - Intanto che si sgombera la lizza e che i combattenti si mettono in punto pel torneo, gli farem cantar qualcosa. - Luchino fece un atto non curante, ma il suo fratello Giovanni, che, sebben vescovo e da poco tempo anche cardinale, era amico di tutti gli spassi, di tutte le pompe, di tutte le morbidezze del viver secolaresco d'allora, domandò al nipote: - Dite un po', è forse quell'Arnaldo Vitale che pochi anni sono s'è guadagnato a Tolosa il premio della violetta di fino oro, aggiudicatogli dai sette mantenitori della gaia scienza?

- Appunto, - rispose Azzone.

Allora il prelato si fece a dirne mirabilia, ch'ei l'aveva sentito esaltare presso tutte le Corti d'Italia, e sapeva a mente alcune delle sue canzoni; e siccome non gli era sfuggito l'atto non curante di Luchino, ch'egli spesso riprendeva come rozzo e zotico in fatto di arti gentili, entrò a far l'elogio dei trovatori e dei menestrelli: che ai principi veniva fama e splendore dal tenerli amici; che al popolo piaceva più chi fosse più largo con tal sorta di gente; che Marco doveva in parte quel gran favore di cui godeva, alla liberalità che aveva sempre usate ai cantori: insomma ne disse tante e tante che fu troppo.

In generale, nel tempo in cui ci troviamo col nostro racconto, i trovatori, i menestrelli e i giullari, di cui brulicava tutta Europa, erano una scioperata genía che girando di paese in paese con un liuto o con una mandóla in collo, se la scialava a tutte le corti bandite, a tutte le feste, per tutti i palazzi e i castelli, eccitando e tenendo in onore la pazza prodigalità dei signori e dei principi. In secoli nei quali le comunicazioni tra paese e paese, tra provincia e provincia, erano scarse, lente e malagevoli, essi portavano attorno le novelle degli avvenimenti pubblici e dei casi privati; pettegoleggiavano dappertutto sfringuellavano d'ogni cosa, novellavan d'armi, di maneggi e d'amori, cantavano le glorie, o rivelavano le turpitudini dei grandi; spesso ne mettevano in cielo i delitti, o ne strascinavan le virtù pel fango, secondo che dava loro l'umore, o secondo che piacesse a chi li pagava: vili e spregiati strumenti di fama e d'infamia, per lo più si grattavan le orecchie, s'ugnevano, si lisciavano fra loro, qualche volta venivan anche a' capegli e a' denti, e davansi morsicchiate da levarne i brani; facevan presso a poco quello che fanno ai nostri giorni alcuni... non voglio dirvelo; e viveano come i cani, ai quali uno un tozzo di pane, un altro un calcio.

In mezzo a tanta ciurmaglia v'era però qualche galantuomo, qualche buon poeta, e un di que' pochi era certamente Arnaldo Vitale.

Egli comparve nel pergolo del Vicario vestito da trovatore; chè spogliatosi l'usbergo e ogni altro arnese, s'era messo in farsetto e in calze listate di bianco e cilestro; aveva in capo una berretta quadrata pur cerulea, con due piume candide che gli ombravan la guancia sinistra. Mostrava età di forse trenta anni; di folta chioma castagnina e ricciuta, di viso piacevolmente severo.

Tutti quelli che si trovavano nel pergolo del Vicario gli si misero d'attorno in cerchio, quelli che eran nei palchi vicini si protendevano in fuori: egli volse gli occhi in giro sulla nobile comitiva, quindi facendo un inchino ad Azzone gli domandò un tema.

- Ho sentito più volte, - disse il Vicario, - rammentar da mio padre, che stette tanto tempo in Francia, le avventure d'un Folchetto di Provenza, il quale da figliuol d'un fabbro che era, diventò Conte di Narbona, e morì poi Frate in un convento di Spagna: tu ne conoscerai tutti i particolari, che sei stato tanto tempo da quelle parti; or bene, ti piacerebb'egli di cantarmi quella storia in una serventese?

- Farò il poter mio per obbedire il manco indegnamente che m'è dato al comando d'un sì magnifico signore, - rispose Arnaldo: si appese al collo il liuto che teneva in mano, temprò le corde, e disse: - Trovo il suono e il motto; - che voleva dire nel nostro linguaggio moderno: improvviso la musica e la poesia. Allora si diede con dolci ricercate, con artificiosi passaggi, a preparar l'animo degli ascoltatori a quel genere di commovimento che voleva destarvi col verso: e intanto recatosi in stesso in atto d'uomo che sta meditando, volgeva gli occhi in alto, e le guance gli si coloravano d'una lieve fiamma, la fronte pareva aprirsi al raggio della creazione che sorgeva nel pensiero; il volto, la persona tutta era agitata dalla potenza dello spirito interno. Non si sentiva intorno uno zitto, tutti stavano in riverente e trepida aspettazione rivolti al trovatore; il quale aiutato da una flebile melodia del liuto, con voce non ben ferma da prima, ma che riusciva per ciò stesso più cara e più soave, incominciò:

 

Bello al pari d'una rosa

Che si schiude al sol di maggio

È Folchetto, un giovin paggio

Di Raimondo di Tolosa:

Prode in armi, ardito e destro,

Trovator di lai maestro.

 

Chi lo vede al di festa

Su un leardo pomellato

Fulminar per lo steccato

Con la salda lancia in resta,

A San Giorgio lo ragguaglia

Che il dragon vince in battaglia.

 

Se al tenor di meste note

Sciorre il canto poi l'intende,

Quando il biondo crin gli scende

In anella per le gote,

Tocco il cor di maraviglia

Ad un angiol l'assomiglia.

 

In sua corte lo desia

Qual signor più in armi vale,

Non è bella provenzale

Che il sospiro ei non ne sia;

Ma il fedel paggio non ama

Che il suo sire, e la sua dama.

 

D'un baron di Salamanca

Essa è figlia, e Nelda ha nome:

Nero ciglio, nere chiome,

Guancia al par d'avorio bianca;

Non è vergine in Tolosa

Più leggiadra o più sdegnosa.

 

All'amor del giovinetto

La superba non s'inchina.

«Sente ancor della fucina»

Fra dice con dispetto:

«No, sì basso il cor non pone

La figliuola d'un barone».

 

Piange il paggio e si lamenta

Notte e sulla mandóla;

Di lei canta, di lei sola,

La sua cobla e la sirventa:

La quintana corre a prova,

Lance spezza, e nulla giova.

 

Ond'ei langue come fiore

In sul cespite appassito:

Smunto il viso, n'è smarrito

Delle fragole il colore;

E si spegne a poco a poco

Ne' cerulei sguardi il foco.

 

Ne moría, ma gli fur pronte

Le larghezze del suo sere:

Ei lo cinse cavaliere,

Di Narbona lo fe' Conte;

E in un giorno gli diè sposa

La leggiadra disdegnosa.

 

 

Forte d'armi apparecchio s'aduna

Di Tolosa pei campi e pel vallo,

Che far triste un ribelle vassallo

Il signor di Provenza giurò.

Non vi manca bandiera nessuna

Di baron, di cittade soggetta:

Verso Antibo già il campo s'affretta,

Ne' suoi piani le tende piantò.

 

A Folchetto che a par gli cavalca

Dolcemente Raimondo favella:

«Perchè sempre sì mesto? la bella

Che sospiri, fra poco verrà.

Di Narbona il cammino già calca

Un corrier che a chiamarla ho spacciato;

Troppo presto da lei t'ho strappato,

Del tuo duolo mi strinse pietà».

 

Ecco il giorno in che Nelda s'attende,

Ecco un altro, ed un altro succede,

Passa il quarto, ed il messo non riede,

E la bella aspettata non vien.

La città combattuta s'arrende,

Già caduto è il ribelle stendardo:

Vien Folchetto al suo fido leardo,

Chè più nullo rispetto lo tien.

 

Alla volta del grato castello

Tutto un giorno viaggia soletto;

Poi svïandosi verso un borghetto,

Che di mezzo agli ulivi traspar,

Leva gli occhi al veron d'un ostello

Al cui piè l'onda irata si frange,

E vi scorge una donna che piange

Intendendo gli sguardi nel mar.

 

Al portar della bella persona,

Al sembiante, al vestir gli par dessa:

Palpitando al verone s'appressa:

Ella è Nelda, più dubbio non v'è.

Sulla strada il cavallo abbandona,

Di sospetto tremante a lei vola:

«Tu, mia sposa, - le grida, - qui sola?

E piangente?... di' come? perchè?».

 

Sciolta le chiome, pallida,

E pur secura in viso,

Schiudendo dalle trepide

Labbra un superbo riso,

La bella a lui rivolta:

«Scostati, - disse, - e ascolta:

 

«In me un'antica, ingenua

«Schiatta macchiasti, o vile;

«Che ti levò dal trivio,

«Ma non ti fea gentile

«Quel tuo signor villano

«Che mi ti diede in mano.

 

«Non io patir l'ingiuria

«Potei del sangue e il danno,

«E concedetti, ahi misera!

«A un cavalier britanno,

«Prezzo di mia vendetta,

«Questa beltà negletta.

 

«Ei m'ha tradita: al subito

«Romoreggiar ch'io sento

«Balzo fra il sonno, e tacite

«Veggio spiegate al vento

«Di quel fellon crudele

«Ratte fuggir le vele.

 

«Cader due volte, sorgere

«Due volte il sole io vidi,

«Soletta errando in lagrime

«Su questi ignoti lidi:

«Spettacol, mostra a dito

«Dal volgo impietosito.

 

«Or che mi resta? supplice

«L'onta del tuo perdono

«Implorerò, spregiandoti?

«Sì abbietta ancor non sono:

«Quanto vedesti, al mio

«Padre tu annunzia: Addio«.

 

Dice, e al terrazzo avventasi,

E ratto dalla sponda

D'un salto si precipita

Col capo in giù nell'onda:

Sonar pel curvo lido

S'intese un tonfo e un grido.

 

Fra i ciechi scogli infrantasi

Il delicato fianco,

Sparì; ma tosto emergere

Fu visto un velo bianco;

E l'acque in cerchi mosse

Farsi di sangue rosse.

 

Non diè una lagrima

Il cavaliere,

Qual è di nere

Armi vestito;

Soletto e tacito

Lunghesso il lito

Si dileguò.

 

I venti muggono,

Biancheggia l'onda;

Ei dalla sponda

D'una barchetta

Guarda la florida

Terra diletta

Che abbandonò.

 

In fra le nordiche

Nebbie viaggia;

Già sulla spiaggia

È d'Albïone;

Ed ecco affrontasi

Con quel barone

Che lo tradì.

 

Le lance abbassano,

Piglian del campo;

Ratti qual lampo

I due giannetti

Con tanta furia

S'urtâr coi petti,

Ch'un ne morì.

 

A un punto snudano

Entrambi il brando,

E fulminando

Di colpi crudi

Con vece assidua

Elmetti e scudi

Fan risonar.

 

Ma il grave anelito

Frenando in petto,

Ecco Folchetto

Al traditore,

Con fero giubilo,

In mezzo al core

Pianta l'acciar.

 

Pallida, pallida

Divien la faccia

Che la minaccia

Spira pur anco.

La destra il misero

Si preme al fianco,

Vacilla e muor.

 

Allor nel fodero

L'acciar ripone;

Guarda il barone

Che giace ucciso,

rasserenasi

Pertanto il viso

Del vincitor.

 

All'estremo confin della Spagna,

Sulla vetta scoscesa d'un monte,

Che dal piede nell'onde si bagna

Alla verde Provenza di fronte,

Sorge un chiostro che Bruno fondò.

Pochi eletti lassuso raccolti

Vivon d'erbe e di strane radici,

Coi capucci calati sui volti,

Cinto ognun di penosi cilici,

Che depor finch'ei vive non può.

 

Sonar gli archi d'un portico acuti

Fa una squilla a rintocchi percossa:

L'un con l'altro guardandosi muti

Stanno i monaci intorno a una fossa

Atteggiati di cupo dolor.

- Chi è quel vecchio che in terra si giace

Colle braccia incrociate sul petto? -

Il tremante chiaror d'una face

Gli erra incerto sul volto. - È Folchetto,

Il baron di Narbona che muor. -

 

Bianca bianca la barba fluente

Della tunica il cinto gli passa;

E all'alterno respir, mollemente

Ondeggiando, or si leva, or s'abbassa,

Come fanno le spume del mar.

Ma fra i casti pensieri di morte

Nella mente del vecchio serena,

Di quell'ora solenne più forte

Un'immagin ribelle balena,

Cui non valser tant'anni a domar.

 

Qual la vide nell'ultimo giorno

Col crin nero per gli omeri sciolto,

Vagolarsi ancor vede d'intorno

Tutta in lagrime, pallida il volto,

E pur bella, la sposa infedel.

- Santo vecchio! e ti spunta morendo

Una stilla segreta di pianto?

Che t'affanna? - Ah t'intendo, t'intendo:

Riveder lei che amasti già tanto

Non potrai fra gli eletti nel Ciel. -

 

 





2 Così nel testo. Probabilmente è un refuso per "comune" [nota per l'edizione elettronica Manuzio]





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