CAPITOLO XVII
È impossibile significar con parole l'entusiasmo destato da
quel canto: il Vicario si levò dal suo seggiolone, corse ad abbracciare il
trovatore, e, dopo d'averlo colmato di lodi, gli disse: - So che la vostra
cortesia v'ha messo a piede, sarebbe troppa vergogna per me il lasciarvi partir
così dai miei domini; voglio dunque che accettiate per amor mio un palafreno ed
un ronzino; - si volse poi ad uno scudiere, e datogli l'ordine che fossero
tosto allestiti i due cavalli, gli disse all'orecchio, che dovesse aggiungervi
un ricco abito e una buona somma di danaro.
Il cardinale si tolse dall'indice un anello d'oro con un
grosso smeraldo, e lo pose egli stesso in dito al Vitale; Luchino, per non
restar indietro, gli regalò un pugnaletto col manico aspro di borchie dorate, e
così tutti i cavalieri che si trovarono nel palco fecero a gara ad offrirgli,
quale una cosa, quale un'altra; le dame e le donzelle anch'esse, fatte ardite
dalla maraviglia, gli si strinsero tutte d'intorno, e tutte lo vollero
presentare d'una qualche gentilezza, accompagnando il dono con tale modesta
urbanità di parole e di maniere da renderlo l'un cento più caro e pregiato.
Certo che al lettore parrà strabocchevole quel plauso per
una canzone ch'egli avrà trovata un'assai magra cosa; ma noi lo preghiamo a
considerare, che altro si è lo starsene solo nella sua camera con un librattolo
in mano, a rilevare, a pesar freddamente e avvisatamente (per non dir di
peggio) verso per verso, sillaba per sillaba, non avendo sott'occhio che il
bianco della carta e il nero dei caratteri; altro il sentirne una sfuriata
traboccar di vena dal labbro d'un bello e prode giovane, che coll'atto animato
del volto impronta le parole, e le avvalora coll'incanto d'una voce armoniosa,
sposata a magistrali melodie del liuto, ora molli e soavi, ora severe e forti,
secondo che il sentimento lo richiede: melodie tanto più efficaci perchè nate
essè medesime ad un punto col verso sotto le dita dell'ispirato trovatore; e
tutto questo in mezzo a un'adunanza numerosa e infervorata di garzoni e di
donzelle, dove l'impressione d'ognuno degli ascoltatori viene a raddoppiarsi
all'aspetto di quella che si manifesta nei compagni, e, causa ed effetto
tutt'insieme, mischiasi e cresce a guisa di fiammelle congiunte che si levano
in una vampa d'incendio.
Appena che il trovatore fu uscito, Azzone affacciossi al
pergolo, e quello fu il segnale di dar principio al torneo. L'arena erasi
sgombrata d'ogni impedimento; il popolo che ne entrava e ne usciva a suo grado,
finchè s'era corsa la quintana e l'ariete, n'era stato escluso: calate tutte le
sbarre intorno allo steccato, un araldo ne fece il giro a cavallo gridando
quattro volte ai quattro lati del medesimo: «Udite, udite, udite il bando dalla
parte del magnifico messer Azzone Vicario del serenissimo signore Lodovico
Imperatore de' Romani. Che nessuno sia tanto ardito di entrar nella lizza
finchè dura il torneamento, di favorire, o sfavorire, alcuno dei combattenti
con fatti, con parole, o con cenni, a pena di perdere il cavallo e l'armatura,
se chi commette il forfatto è cavaliere o scudiere; di perder l'orecchio, se è
artigiano o villano; il pugno, se è servo; il corpo, se è persona infame».
Finito questo, sei giudici del torneo, vestiti di lunghe
robe di seta, s'affacciarono ad una loggia vicina al palco del Vicario. innanzi
alla quale fu inalberato un gonfalone inquartato d'argento e di scarlatto.
In mezzo a tanta moltitudine non avreste più sentito uno
zitto: tutti eransi affollati ai parapetti delle torricelle, dei loggiati e dei
palchi; lo stecconato all'ingiro, dove non era piantato alcun edilizio,
brulicava di persone pigiate, calcate addosso alla sbarra; e gli occhi di tutti
eran rivolti quali all'uno, quali all'altro degli estremi opposti della lizza,
dove erano piantate due vaste e ricche tende, rosse quelle a destra del
Vicario, bianche quelle a sinistra.
Ed ecco ad uno squillo di tromba uscir dai due padiglioni
bianchi dodici cavalieri colla sopravveste bianca, e le piume bianche nel
cimiero, ed altrettanti scudieri, divisati di verde; mentre dai due padiglioni
opposti uscivano egualmente dodici cavalieri e dodici scudieri, quelli colla
soprasberga e le piume rosse, questi coll'assisa gialla.
Capo della squadra de' bianchi era il nostro Ottorino; un
prode giovane milanese detto Sacramoro guidava la compagnia dei rossi: le due
fazioni che dovean combattere insieme ad armi spuntate o cortesi, si vennero
incontro a passo lento e fermaronsi ambedue sotto al palco del Vicario, il
quale fu salutato da tutti i cavalieri coll'abbassar delle lance che tenevano
sulla coscia.
I palafreni, riccamente bardamentati, aveano un corno di
ferro in mezzo alla fronte, e più file di sonagli appiccate ai pettorali. Ogni
cavaliere portava nello scudo i suoi propri colori dipinti a doghe, a onde, a
scacchi, a traverse, mescolati in molte e capricciose maniere, colle insegne
ciascuno del proprio casato e le imprese sue, ond'essere riconosciuto
particolarmente nella mischia. Oltre di ciò avean tutti uno zendalo, quale
d'uno, quale d'un altro colore; e chi lo portava stretto al fianchi, chi a
bandoliera, e chiamavasi il favor della dama, perchè era o faceva sembiante
d'essere un dono della persona amata, alla quale, secondo le regole della
cavalleria, ciascuno dovea rivolger la mente prima di commettersi a qualche
rischio, di dar principio a qualche impresa, per ritrarne virtù di coraggio da
poterne uscir con onore.
Abbiam detto che erano veri presentuzzi da innamorati, o
facean viso di esserlo, perocchè non tutti i cavalieri saranno stati sempre
sempre innamorati, non tutti gli innamorati avranno trovata la dama della loro
opinione; ma siccome a quel tempo la mancanza d'amore in un cavaliere era come
una villania, direi quasi una irreligione, chi non era innamorato facea le
viste d'esserlo, chi non avea la dama che gli cingesse i suoi colori, se li
cingeva da sè, e lasciava che i curiosi vi mullinasser sopra.
A tanto era venuta crescendo nei cavalieri la pazzia, la
febbre, la rabbia dell'amore, e la picca di non la voler ceder d'un dito su
questo particolare a nessuno, che non era cosa rara di trovar qualche balocco
tutto vestito di ferro, esso e il cavallo, andar girone d'uno in un altro
paese, d'una in un'altra corte, disfidando a battaglia ogni cavaliere in che
s'abbattesse, se non accordava di bel patto che la dama da esso amata era la
più vaga e la più virtuosa, e l'amor suo per quella il più sfegatato del mondo;
bietolone senza sale, che per quel sugo gettava da cavallo, storpiava,
ammazzava altri bietoloni suoi pari, finchè non s'abbatteva in un muso più duro
che con un buon colpo di spada o di lancia non facesse l'opera pia di cavargli
il pazzo del capo mandandolo a rincalzare i cavoli.
Allo spegnersi della cavalleria codesto bel vezzo di far
dello spasimato a credenza, passò, almeno qui da noi, nei poeti; di qui quello
sciame, quella sfucinata, quella maramaglia di freddolosi, incresciosi,
piagnolosi petrarchisti, che innondarono per tanti anni l'Italia di sonetti e
di canzoni sugli occhi, sulla bocca, sul piede, sulla mano, sulle chiome e che
so io, di tante e tante tiranne tutte più belle l'una dell'altra. Fortuna, che
i poeti son d'una tempra più benigna, e per lo più non se la pigliano che colle
orecchie del prossimo; se no, i nostri padri volevano star freschi.
Ma torniamo alla storia. Dopo d'aver salutato il Vicario, le
due compagnie che erano schierate in una sola fila innanzi al pergolo si
divisero l'una dall'altra, e voltatesi le groppe, una avviossi a manca, l'altra
a diritta, allontanandosi fino ai due estremi opposti, venendosi quindi
incontro, e salutandosi quando si affrontarono a mezzo del cammino. I generosi
cavalli sbuffando, pareva che fremessero impazienti dell'aringo; i cavalieri
colle visiere levate, colle lance alte procedevano tutti stretti insieme, salvo
il capo della schiera che andava innanzi agli altri: gli elmi, le corazze e gli
scudi, i fregi d'oro e d'argento lampeggiavano ai raggi del sole, ormai giunto
a mezzo della sua carriera; si vedevano ondeggiar nel corso le sopravvesti e le
coperture dei cavalli; piume e pennacchi e bandieruole sventolare per aria.
L'armaiuolo nostro conoscente, tosto ch'ebbe visto arrivare
il Vicario, lasciata la sua bottega posticcia a guardia d'un fattorino, era corso
al lato sinistro dello steccato presso i due padiglioni bianchi, dove era
aspettato dalla moglie.
Una mezza dozzina di giovani suoi lavoranti gli avean
mantenuto il posto, e fattogli far largo, subito ch'ebber visto spuntare tra la
folla il suo berretto colla piuma da maestro corazzaio; e però egli potè
collocarsi a tutto suo agio presso la sua donna, colle braccia appoggiate alla
sbarra.
- Guarda se non gli va assestata come un guanto, - disse il
Birago ad un suo garzone, accennandogli la corazza di Ottorino, il quale in
quel punto gli passava dinanzi.
Il garzone voleva rispondere qualche cosa, ma la moglie
dell'armaiuolo non gliene dette tempo, chè pigliando il marito per un braccio:
- Ditemi un po', Giacomolo, - gli domandava, - quel cavaliere là, il terzo
della fila, è egli cieco d'un occhio, che lo tien coperto da una benda? e
concio com'è, ven qui a far d'armi?
- Egli ha la veduta buona da tutt'e due come me e come te, -
rispose l'armaiuolo; - io lo conosco, è Bronzin Caimo, di que' Caimi che stavano
una volta a Sant'Ambrogio, ed ora stanno presso il Broletto Nuovo; la storia di
quell'occhio bendato te la dirò io. Costui fece un pezzo il patito d'una dama
de' Lampugnani, ma lei non voleva sentir parlare del fatto suo, ch'era un
povero scempiatello; e per levarselo un tratto da dosso, gli fece intendere che
non potea più vedersi dinanzi un baggiano, che fuor delle nostre mura nessuno
sapea chi si fosse. Gliel'ha detto con un po' più di garbo, ma infine riusciva
a questo; allora quel poveraccio che ti fa lui? apposta la dama che passeggiava
una sera in un suo giardino, le si butta in ginocchioni dinanzi, le piglia una
mano, e con quella si fa chiudere un occhio, e poi giura e fa voto di non aprir
mai più quell'occhio finchè non avesse scavalcati tre cavalieri; e di non
comparirle mai più dinanzi se non coi due occhi aperti, voleva dire, se non
dopo d'aver compito il voto.
- Oh che razza di voti! - sclamò la donna del Birago - ma
tengono poi?
- Tengono sicuro, e vedi, in grazia di questo adesso è
diventato anche lui un uomo da qualche cosa, chè andando attorno a pizzicar
questioni da per tutto, è stato buttato da cavallo non so dir quante volte; e
una volta ebbe slogata una spalla, un'altra tornò a casa con un braccio rotto,
una terza con una costola sfondata; ma dàgli e picchia e suona e martella, in
tre anni, o tre anni e mezzo che sia, è riuscito anche lui a scavalcarne due; e
adesso vien qui, chè dove si menan le mani non manca mai; e se gli riesce di
far votar la sella al terzo, si scoprirà l'occhio e presenterassi alla dama, la
quale non potrà a manco di farselo parer buono.
In quella passava innanzi alla nostra coppia la schiera dei
rossi. Sacramoro che la precedeva, mostrava fuor dell'elmo una faccia
abbronzita dal sole con due occhi grifagni; una cicatrice gli attraversava le
labbra presso la guancia sinistra, e veniva giù fino alla punta del mento:
largo del petto e delle spalle, terribile di presenza, cavalcava un bel morello
di Macedonia coll'atto non curante d'un uomo che è avvezzo a trovarsi a rischi
ben maggiori.
- Guarda, guarda! - disse il Birago accennandolo alla
moglie, - è una delle prime lance del Milanese; ha guerreggiato in Alemagna, in
Francia e in Palestina.
- Mi piace più il capo dei bianchi, - rispondeva la donna; -
mostra anche lui che gli basta la vista quanto a quell'altro, ma ha faccia più
da cristiano.
- È un virtuoso giovane anche quello, - rispose il marito; -
si provvede anch'esso alla mia bottega; ma ti so dire che codesto Sacramoro
vuol riuscirgli un osso duro da rosicchiare.
- E perchè mo, - tornava a domandare la donna, - perchè quei
due là, - e accennava nella fila dei bianchi, che compiuto il giro s'era
schierata innanzi ai padiglioni, - portano lo scudo d'un sol colore senza
fregio nessuno?
- Questo significa che sono cavalieri nuovi; finchè non sia
passato un anno dal dì che sono stati creati, o non abbian fatto qualche
prodezza, devon portar lo scudo a quel modo, d'un solo colore, e tutto liscio.
Ma zitto, chè s'incomincia.
Una tromba diede infatti il primo segno, e i cavalieri
schierati di fronte ai due capi della lizza, abbassarono tutti insieme le
visiere; sonò il secondo segno, e posero le lance in resta; al terzo, l'una
schiera gridando: - Sant'Ambrogio e Ottorino! - l'altra: - San Giorgio e
Sacramoro! - si precipitarono in un punto l'una contro l'altra a tutta
carriera, e scontraronsi nel mezzo della lizza col fragore della tempesta. Nel
primo impeto lance spezzate, cavalieri buttati di sella, cavalli che si danno
al petto l'un contro l'altro, che s'intrecciano insieme le zampe davanti, che
si mordono, che scappano galoppando per l'arena cogli arcioni vôti e le briglie
pendenti; grida di gioia, di furore, d'incoraggiamento e di comando; una
confusione, un viluppo, in mezzo a un nembo di polvere che vela, che avvolge,
che confonde ogni cosa: poco dopo, staffieri che accorrono a pigliare i
palafreni scappati, scudieri che aiutano i loro signori a rimontare in sella,
sergenti che cavan fuori della mischia qualche malconcio; e intorno allo
steccato, grida, plausi e domande degli spettatori incerti da qual parte penda
la vittoria.
Gettate le lance dopo il primo abbattimento, i cavalieri
poser mano alle spade, chiamate di marra, perchè spuntate e senza filo: ma
salde, pesanti, e tali insomma che calate sull'elmo d'un cristiano da quelle
braccia che non avean fatto mai altro mestiere, se il colpo veniva bene,
fracassavano qualche volta il capo che v'era dentro. o almanco almanco
l'intronavan in modo da farlo tentennar per un bel pezzo. Intanto gli araldi, i
maestri e gli aiutanti di campo, i quali stavan osservando se si combatteva
lealmente, e se tutti facevano il dover loro, non restavan dal gridare: -
Cavalieri! cavalieri! ricordatevi di chi siete figli e non tralignate.
Il combattimento durò forse più di un'ora con varia fortuna:
ma alla fine i bianchi parevano sconfitti; quattro dei loro erano stati portati
alle tende sconciamente feriti; gli altri, incalzati dagli avversari, andavan
cedendo il campo; e già il Vicario che giudicava il loro caso spacciato,
volendo risparmiar sangue, stava per dare il segnale che si cessasse; quando
Ottorino, ricordandosi di Bice e delle parole ch'ella gli avea mandato dicendo
pel suo scudiero, si sentì tutto infiammare di rabbia e di vergogna, gettossi
lo scudo dietro le spalle, afferrò disperatamente la spada a due mani, e si
spinse contro il capo dei rossi, che quel dì avea fatto miracoli, gridando: -
Guardati, Sacramoro!
Il minacciato si coperse tosto il capo coll'ampio pavese, e
intanto spinse il ferro di punta, e toccò inutilmente l'assalitore sulla
corazza; ma questi vedendo l'avversario difeso in modo che il colpo da lui
disegnatogli al capo sarebbe riuscito vano, invece di calare la spada dall'alto
al basso, la rivoltò per aria, menolla furiosamente di traverso, ed entrando
sotto lo scudo, colse Sacramoro nella guancia destra dell'elmo con tanta forza,
che il percosso stramazzò dall'altra parte del cavallo, e fu portato alla tenda
dei rossi colla mascella fracassata, e poco men che morto.
Allora Ottorino si mise a gridare: - Sant'Ambrogio,
Sant'Ambrogio! - gli scoraggiati ripresero animo, i vincitori cominciarono a
smarrirsi, a dar indietro; il nostro giovane tirava giù colpi spaventosi
ruggendo come un leone; i suoi compagni, facendo anch'essi l'ultimo sforzo, lo
aiutavano valorosamente: in un istante si mutò la faccia delle cose; due altri
della fazione dei rossi furono gettati da cavallo; quelli che eran rimasti in
sella, non avendo più un capo intorno a cui raccogliersi, scorrazzavano qua e
là scompigliatamente, inseguìti e battuti sempre dagli avversari. contra i
quali era ormai vana ogni difesa: allora il Vicario fece segno colla mano,
squillò una tromba, e la zuffa cessò.
Intanto che la turba gridava, batteva le mani, gettava in
aria pannilini e berretti, facendo plauso e festa ai vincitori, fur visti sette
od otto fra araldi, maestri ed aiutanti di campo, avventarsi a spron battuto
addosso ad un cavaliere della fazione dei rossi e cacciarlo dallo steccato a
bastonate col tronco della lancia; punizione che veniva inflitta, secondo le
leggi de' tornei, a chi non cessasse dall'armi tosto che ne era dato il
segnale.
I combattenti che potevan reggersi in arcione o sulle loro
gambe si presentarono innanzi al palco dei giudici, dove vennero ad uno ad uno
chiamati per nome da un araldo, e dietro le testimonianze che ne rendevano di
mano in mano gli ufficiali del torneo, venne giudicato che tutti s'eran portati
virtuosamente da buoni e leali cavalieri; salvo che due, l'uno dei bianchi, cui
fu dato carico d'aver ferito l'avversario in una coscia, correndo la lancia,
che non era buon colpo, come quello che non istava fra le quattro membra, ed
uno dei rossi, che fu accusato d'aver dato al cavallo. Ma quanto al primo,
l'avversario medesimo che avea tocca la ferita ne fece le difese, mostrando che
la botta gli era stata portata allo scudo, ma che il ferro della lancia
sdrucciolando era venuto a conficcarglisi fuor del luogo disegnato, contro
l'evidente intenzione del feritore; e quanto all'altro, gli riuscì di
giustificarsi col far attestare da un aiutante del campo che il cavallo del suo
competitore aveva levato la testa nel punto ch'ei calava la spada.
In seguito furono nominati anche quelli che si trovavano
nelle tende, che erano dieci, sette feriti e tre morti; e venne definito che
tutti s'eran portati bene e valorosamente.
Ma tra i feriti chi ebbe la maggior disdetta, senza essere
dei più malconci, fu il nostro Bronzin Caimo, l'eroe dall'occhio bendato: a
costui nel primo scontro, entrando il ferro d'una lancia pel fesso della
visiera che lasciava luogo alla veduta, gli s'era conficcato (guardate mo se il
diavolo ci mise le corna) proprio nell'occhio scoperto, in quello dal quale
avea bene. Buona notte! egli rimase al buio, e, caduto da cavallo, fu menato
alla tenda, dove con divota caparbietà non volle levarsi, nè patir che gli
fosse levata la fascia dall'occhio che gli rimaneva ancora. Fu riferita la cosa
ai giudici, i quali non seppero come decidere. Se ne parlò poi in seguito per
un gran pezzo, se ne fece un gran discutere, un acerbo disputare fra i
cavalieri e le dame, che lo dicevano un bel caso, collo stesso sapore con cui
sentiamo dir talvolta ad un avvocato: questa è una bella causa; ad un medico:
questa è una bella malattia; ogni avviso aveva i suoi campioni; si citavano
tutte le leggi romane e quelle di Mosè, autori latini e provenzali, profeti e
romanzieri, filosofi e trovatori: si ricorreva agli esempi cavati dalle storie
dei sette figli di Amone, d'Amadigi di Gaula, di Girone il Cortese, e d'ogni
più famoso paladino di Francia e d'Inghilterra. La controversia andò innanzi
alle primarie Corti d'Amore che risiedevano in varie città d'Europa, e fu
definita in più maniere; dalle decisioni di queste si fece appello finalmente
alla Corte plenaria di Provenza, la quale dopo un maturo esame, dopo una lunga
e dotta discussione, dopo d'aver consultati i primi dottori, sentenziò
solennemente a favore dell'occhio del Caimo, vale a dire ch'ei potesse
scoprirlo. Il timorato amante, il quale in tutto quel tempo era sempre stato
cieco, levò finalmente la benda fatale, rivide la luce, dopo forse tre anni; e
coll'occhio che gli era avanzato tornò alla vita di prima per compiere il voto
di quel terzo che gli rimaneva tuttavia da scavalcare (guardate costanza del
buon tempo antico!). Quando Dio volle, scavalcò anche quello. Che gioia!... Ma
che direste voi, che quella crudelaccia della sua dama, cui non dovean garbar
troppo i ciechi d'un occhio, andò a cavar fuori un altro uncino, e gli disse
che la promessa era di non comparirle dinanzi se non coi due occhi aperti, e
però ora che non ne avea che un solo, si guardasse bene di non lasciarsi mai
più vedere.
Ma torniamo nello steccato. I cavalieri nuovi, secondo le
leggi de' tornei, fecero un presente dell'elmo che avean portato, agli araldi
del campo; ma qui pure insorse un altro contrasto, perocchè uno dei detti
cavalieri nuovi avea già corso una lancia in un passo d'armi tenutosi a Como
poco tempo prima, e vi fu chi pretese ch'egli non fosse obbligato a lasciar
l'elmo agli araldi, non essendo quelle le prime armi ch'ei faceva; ma fu deciso
che l'elmo era dovuto, per la ragione che l'affronto a cui avea presa parte la
prima volta era stato una mislea, vale a dire, che non s'era combattuto colla
spada; e miser fuori quella famosa sentenza in fatto di giostre e di tornei,
che la spada franca la lancia, ma la lancia non franca la spada.
I bianchi furono proclamati vincitori; raccolti i voti, non
pur dei giudici e degli uffiziali del campo, ma eziandio delle dame e delle
donzelle, fu deciso che Ottorino s'era mostrato il più valente, e gli fu
aggiudicato il premio: un cavallo bianco, bardamentato pur di bianco un elmo ed
uno scudo d'argento: così finì quella giornata.
La moglie del nostro armaiuolo fu così contenta, così
superba delle glorie di quel bel giovane, com'essa lo chiamava, che non sapeva
finire di dirne; e la rimestò tanto e tanto, che il dolce marito cominciò a
marinare, a sbuffare, e mancò poco che la non gli montasse da maladetto senno.
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