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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XVII
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CAPITOLO XVII

 

È impossibile significar con parole l'entusiasmo destato da quel canto: il Vicario si levò dal suo seggiolone, corse ad abbracciare il trovatore, e, dopo d'averlo colmato di lodi, gli disse: - So che la vostra cortesia v'ha messo a piede, sarebbe troppa vergogna per me il lasciarvi partir così dai miei domini; voglio dunque che accettiate per amor mio un palafreno ed un ronzino; - si volse poi ad uno scudiere, e datogli l'ordine che fossero tosto allestiti i due cavalli, gli disse all'orecchio, che dovesse aggiungervi un ricco abito e una buona somma di danaro.

Il cardinale si tolse dall'indice un anello d'oro con un grosso smeraldo, e lo pose egli stesso in dito al Vitale; Luchino, per non restar indietro, gli regalò un pugnaletto col manico aspro di borchie dorate, e così tutti i cavalieri che si trovarono nel palco fecero a gara ad offrirgli, quale una cosa, quale un'altra; le dame e le donzelle anch'esse, fatte ardite dalla maraviglia, gli si strinsero tutte d'intorno, e tutte lo vollero presentare d'una qualche gentilezza, accompagnando il dono con tale modesta urbanità di parole e di maniere da renderlo l'un cento più caro e pregiato.

Certo che al lettore parrà strabocchevole quel plauso per una canzone ch'egli avrà trovata un'assai magra cosa; ma noi lo preghiamo a considerare, che altro si è lo starsene solo nella sua camera con un librattolo in mano, a rilevare, a pesar freddamente e avvisatamente (per non dir di peggio) verso per verso, sillaba per sillaba, non avendo sott'occhio che il bianco della carta e il nero dei caratteri; altro il sentirne una sfuriata traboccar di vena dal labbro d'un bello e prode giovane, che coll'atto animato del volto impronta le parole, e le avvalora coll'incanto d'una voce armoniosa, sposata a magistrali melodie del liuto, ora molli e soavi, ora severe e forti, secondo che il sentimento lo richiede: melodie tanto più efficaci perchè nate essè medesime ad un punto col verso sotto le dita dell'ispirato trovatore; e tutto questo in mezzo a un'adunanza numerosa e infervorata di garzoni e di donzelle, dove l'impressione d'ognuno degli ascoltatori viene a raddoppiarsi all'aspetto di quella che si manifesta nei compagni, e, causa ed effetto tutt'insieme, mischiasi e cresce a guisa di fiammelle congiunte che si levano in una vampa d'incendio.

Appena che il trovatore fu uscito, Azzone affacciossi al pergolo, e quello fu il segnale di dar principio al torneo. L'arena erasi sgombrata d'ogni impedimento; il popolo che ne entrava e ne usciva a suo grado, finchè s'era corsa la quintana e l'ariete, n'era stato escluso: calate tutte le sbarre intorno allo steccato, un araldo ne fece il giro a cavallo gridando quattro volte ai quattro lati del medesimo: «Udite, udite, udite il bando dalla parte del magnifico messer Azzone Vicario del serenissimo signore Lodovico Imperatore de' Romani. Che nessuno sia tanto ardito di entrar nella lizza finchè dura il torneamento, di favorire, o sfavorire, alcuno dei combattenti con fatti, con parole, o con cenni, a pena di perdere il cavallo e l'armatura, se chi commette il forfatto è cavaliere o scudiere; di perder l'orecchio, se è artigiano o villano; il pugno, se è servo; il corpo, se è persona infame».

Finito questo, sei giudici del torneo, vestiti di lunghe robe di seta, s'affacciarono ad una loggia vicina al palco del Vicario. innanzi alla quale fu inalberato un gonfalone inquartato d'argento e di scarlatto.

In mezzo a tanta moltitudine non avreste più sentito uno zitto: tutti eransi affollati ai parapetti delle torricelle, dei loggiati e dei palchi; lo stecconato all'ingiro, dove non era piantato alcun edilizio, brulicava di persone pigiate, calcate addosso alla sbarra; e gli occhi di tutti eran rivolti quali all'uno, quali all'altro degli estremi opposti della lizza, dove erano piantate due vaste e ricche tende, rosse quelle a destra del Vicario, bianche quelle a sinistra.

Ed ecco ad uno squillo di tromba uscir dai due padiglioni bianchi dodici cavalieri colla sopravveste bianca, e le piume bianche nel cimiero, ed altrettanti scudieri, divisati di verde; mentre dai due padiglioni opposti uscivano egualmente dodici cavalieri e dodici scudieri, quelli colla soprasberga e le piume rosse, questi coll'assisa gialla.

Capo della squadra de' bianchi era il nostro Ottorino; un prode giovane milanese detto Sacramoro guidava la compagnia dei rossi: le due fazioni che dovean combattere insieme ad armi spuntate o cortesi, si vennero incontro a passo lento e fermaronsi ambedue sotto al palco del Vicario, il quale fu salutato da tutti i cavalieri coll'abbassar delle lance che tenevano sulla coscia.

I palafreni, riccamente bardamentati, aveano un corno di ferro in mezzo alla fronte, e più file di sonagli appiccate ai pettorali. Ogni cavaliere portava nello scudo i suoi propri colori dipinti a doghe, a onde, a scacchi, a traverse, mescolati in molte e capricciose maniere, colle insegne ciascuno del proprio casato e le imprese sue, ond'essere riconosciuto particolarmente nella mischia. Oltre di ciò avean tutti uno zendalo, quale d'uno, quale d'un altro colore; e chi lo portava stretto al fianchi, chi a bandoliera, e chiamavasi il favor della dama, perchè era o faceva sembiante d'essere un dono della persona amata, alla quale, secondo le regole della cavalleria, ciascuno dovea rivolger la mente prima di commettersi a qualche rischio, di dar principio a qualche impresa, per ritrarne virtù di coraggio da poterne uscir con onore.

Abbiam detto che erano veri presentuzzi da innamorati, o facean viso di esserlo, perocchè non tutti i cavalieri saranno stati sempre sempre innamorati, non tutti gli innamorati avranno trovata la dama della loro opinione; ma siccome a quel tempo la mancanza d'amore in un cavaliere era come una villania, direi quasi una irreligione, chi non era innamorato facea le viste d'esserlo, chi non avea la dama che gli cingesse i suoi colori, se li cingeva da , e lasciava che i curiosi vi mullinasser sopra.

A tanto era venuta crescendo nei cavalieri la pazzia, la febbre, la rabbia dell'amore, e la picca di non la voler ceder d'un dito su questo particolare a nessuno, che non era cosa rara di trovar qualche balocco tutto vestito di ferro, esso e il cavallo, andar girone d'uno in un altro paese, d'una in un'altra corte, disfidando a battaglia ogni cavaliere in che s'abbattesse, se non accordava di bel patto che la dama da esso amata era la più vaga e la più virtuosa, e l'amor suo per quella il più sfegatato del mondo; bietolone senza sale, che per quel sugo gettava da cavallo, storpiava, ammazzava altri bietoloni suoi pari, finchè non s'abbatteva in un muso più duro che con un buon colpo di spada o di lancia non facesse l'opera pia di cavargli il pazzo del capo mandandolo a rincalzare i cavoli.

Allo spegnersi della cavalleria codesto bel vezzo di far dello spasimato a credenza, passò, almeno qui da noi, nei poeti; di qui quello sciame, quella sfucinata, quella maramaglia di freddolosi, incresciosi, piagnolosi petrarchisti, che innondarono per tanti anni l'Italia di sonetti e di canzoni sugli occhi, sulla bocca, sul piede, sulla mano, sulle chiome e che so io, di tante e tante tiranne tutte più belle l'una dell'altra. Fortuna, che i poeti son d'una tempra più benigna, e per lo più non se la pigliano che colle orecchie del prossimo; se no, i nostri padri volevano star freschi.

Ma torniamo alla storia. Dopo d'aver salutato il Vicario, le due compagnie che erano schierate in una sola fila innanzi al pergolo si divisero l'una dall'altra, e voltatesi le groppe, una avviossi a manca, l'altra a diritta, allontanandosi fino ai due estremi opposti, venendosi quindi incontro, e salutandosi quando si affrontarono a mezzo del cammino. I generosi cavalli sbuffando, pareva che fremessero impazienti dell'aringo; i cavalieri colle visiere levate, colle lance alte procedevano tutti stretti insieme, salvo il capo della schiera che andava innanzi agli altri: gli elmi, le corazze e gli scudi, i fregi d'oro e d'argento lampeggiavano ai raggi del sole, ormai giunto a mezzo della sua carriera; si vedevano ondeggiar nel corso le sopravvesti e le coperture dei cavalli; piume e pennacchi e bandieruole sventolare per aria.

L'armaiuolo nostro conoscente, tosto ch'ebbe visto arrivare il Vicario, lasciata la sua bottega posticcia a guardia d'un fattorino, era corso al lato sinistro dello steccato presso i due padiglioni bianchi, dove era aspettato dalla moglie.

Una mezza dozzina di giovani suoi lavoranti gli avean mantenuto il posto, e fattogli far largo, subito ch'ebber visto spuntare tra la folla il suo berretto colla piuma da maestro corazzaio; e però egli potè collocarsi a tutto suo agio presso la sua donna, colle braccia appoggiate alla sbarra.

- Guarda se non gli va assestata come un guanto, - disse il Birago ad un suo garzone, accennandogli la corazza di Ottorino, il quale in quel punto gli passava dinanzi.

Il garzone voleva rispondere qualche cosa, ma la moglie dell'armaiuolo non gliene dette tempo, chè pigliando il marito per un braccio: - Ditemi un po', Giacomolo, - gli domandava, - quel cavaliere , il terzo della fila, è egli cieco d'un occhio, che lo tien coperto da una benda? e concio com'è, ven qui a far d'armi?

- Egli ha la veduta buona da tutt'e due come me e come te, - rispose l'armaiuolo; - io lo conosco, è Bronzin Caimo, di que' Caimi che stavano una volta a Sant'Ambrogio, ed ora stanno presso il Broletto Nuovo; la storia di quell'occhio bendato te la dirò io. Costui fece un pezzo il patito d'una dama de' Lampugnani, ma lei non voleva sentir parlare del fatto suo, ch'era un povero scempiatello; e per levarselo un tratto da dosso, gli fece intendere che non potea più vedersi dinanzi un baggiano, che fuor delle nostre mura nessuno sapea chi si fosse. Gliel'ha detto con un po' più di garbo, ma infine riusciva a questo; allora quel poveraccio che ti fa lui? apposta la dama che passeggiava una sera in un suo giardino, le si butta in ginocchioni dinanzi, le piglia una mano, e con quella si fa chiudere un occhio, e poi giura e fa voto di non aprir mai più quell'occhio finchè non avesse scavalcati tre cavalieri; e di non comparirle mai più dinanzi se non coi due occhi aperti, voleva dire, se non dopo d'aver compito il voto.

- Oh che razza di voti! - sclamò la donna del Birago - ma tengono poi?

- Tengono sicuro, e vedi, in grazia di questo adesso è diventato anche lui un uomo da qualche cosa, chè andando attorno a pizzicar questioni da per tutto, è stato buttato da cavallo non so dir quante volte; e una volta ebbe slogata una spalla, un'altra tornò a casa con un braccio rotto, una terza con una costola sfondata; ma dàgli e picchia e suona e martella, in tre anni, o tre anni e mezzo che sia, è riuscito anche lui a scavalcarne due; e adesso vien qui, chè dove si menan le mani non manca mai; e se gli riesce di far votar la sella al terzo, si scoprirà l'occhio e presenterassi alla dama, la quale non potrà a manco di farselo parer buono.

In quella passava innanzi alla nostra coppia la schiera dei rossi. Sacramoro che la precedeva, mostrava fuor dell'elmo una faccia abbronzita dal sole con due occhi grifagni; una cicatrice gli attraversava le labbra presso la guancia sinistra, e veniva giù fino alla punta del mento: largo del petto e delle spalle, terribile di presenza, cavalcava un bel morello di Macedonia coll'atto non curante d'un uomo che è avvezzo a trovarsi a rischi ben maggiori.

- Guarda, guarda! - disse il Birago accennandolo alla moglie, - è una delle prime lance del Milanese; ha guerreggiato in Alemagna, in Francia e in Palestina.

- Mi piace più il capo dei bianchi, - rispondeva la donna; - mostra anche lui che gli basta la vista quanto a quell'altro, ma ha faccia più da cristiano.

- È un virtuoso giovane anche quello, - rispose il marito; - si provvede anch'esso alla mia bottega; ma ti so dire che codesto Sacramoro vuol riuscirgli un osso duro da rosicchiare.

- E perchè mo, - tornava a domandare la donna, - perchè quei due , - e accennava nella fila dei bianchi, che compiuto il giro s'era schierata innanzi ai padiglioni, - portano lo scudo d'un sol colore senza fregio nessuno?

- Questo significa che sono cavalieri nuovi; finchè non sia passato un anno dal che sono stati creati, o non abbian fatto qualche prodezza, devon portar lo scudo a quel modo, d'un solo colore, e tutto liscio. Ma zitto, chè s'incomincia.

Una tromba diede infatti il primo segno, e i cavalieri schierati di fronte ai due capi della lizza, abbassarono tutti insieme le visiere; sonò il secondo segno, e posero le lance in resta; al terzo, l'una schiera gridando: - Sant'Ambrogio e Ottorino! - l'altra: - San Giorgio e Sacramoro! - si precipitarono in un punto l'una contro l'altra a tutta carriera, e scontraronsi nel mezzo della lizza col fragore della tempesta. Nel primo impeto lance spezzate, cavalieri buttati di sella, cavalli che si danno al petto l'un contro l'altro, che s'intrecciano insieme le zampe davanti, che si mordono, che scappano galoppando per l'arena cogli arcioni vôti e le briglie pendenti; grida di gioia, di furore, d'incoraggiamento e di comando; una confusione, un viluppo, in mezzo a un nembo di polvere che vela, che avvolge, che confonde ogni cosa: poco dopo, staffieri che accorrono a pigliare i palafreni scappati, scudieri che aiutano i loro signori a rimontare in sella, sergenti che cavan fuori della mischia qualche malconcio; e intorno allo steccato, grida, plausi e domande degli spettatori incerti da qual parte penda la vittoria.

Gettate le lance dopo il primo abbattimento, i cavalieri poser mano alle spade, chiamate di marra, perchè spuntate e senza filo: ma salde, pesanti, e tali insomma che calate sull'elmo d'un cristiano da quelle braccia che non avean fatto mai altro mestiere, se il colpo veniva bene, fracassavano qualche volta il capo che v'era dentro. o almanco almanco l'intronavan in modo da farlo tentennar per un bel pezzo. Intanto gli araldi, i maestri e gli aiutanti di campo, i quali stavan osservando se si combatteva lealmente, e se tutti facevano il dover loro, non restavan dal gridare: - Cavalieri! cavalieri! ricordatevi di chi siete figli e non tralignate.

Il combattimento durò forse più di un'ora con varia fortuna: ma alla fine i bianchi parevano sconfitti; quattro dei loro erano stati portati alle tende sconciamente feriti; gli altri, incalzati dagli avversari, andavan cedendo il campo; e già il Vicario che giudicava il loro caso spacciato, volendo risparmiar sangue, stava per dare il segnale che si cessasse; quando Ottorino, ricordandosi di Bice e delle parole ch'ella gli avea mandato dicendo pel suo scudiero, si sentì tutto infiammare di rabbia e di vergogna, gettossi lo scudo dietro le spalle, afferrò disperatamente la spada a due mani, e si spinse contro il capo dei rossi, che quel avea fatto miracoli, gridando: - Guardati, Sacramoro!

Il minacciato si coperse tosto il capo coll'ampio pavese, e intanto spinse il ferro di punta, e toccò inutilmente l'assalitore sulla corazza; ma questi vedendo l'avversario difeso in modo che il colpo da lui disegnatogli al capo sarebbe riuscito vano, invece di calare la spada dall'alto al basso, la rivoltò per aria, menolla furiosamente di traverso, ed entrando sotto lo scudo, colse Sacramoro nella guancia destra dell'elmo con tanta forza, che il percosso stramazzò dall'altra parte del cavallo, e fu portato alla tenda dei rossi colla mascella fracassata, e poco men che morto.

Allora Ottorino si mise a gridare: - Sant'Ambrogio, Sant'Ambrogio! - gli scoraggiati ripresero animo, i vincitori cominciarono a smarrirsi, a dar indietro; il nostro giovane tirava giù colpi spaventosi ruggendo come un leone; i suoi compagni, facendo anch'essi l'ultimo sforzo, lo aiutavano valorosamente: in un istante si mutò la faccia delle cose; due altri della fazione dei rossi furono gettati da cavallo; quelli che eran rimasti in sella, non avendo più un capo intorno a cui raccogliersi, scorrazzavano qua e scompigliatamente, inseguìti e battuti sempre dagli avversari. contra i quali era ormai vana ogni difesa: allora il Vicario fece segno colla mano, squillò una tromba, e la zuffa cessò.

Intanto che la turba gridava, batteva le mani, gettava in aria pannilini e berretti, facendo plauso e festa ai vincitori, fur visti sette od otto fra araldi, maestri ed aiutanti di campo, avventarsi a spron battuto addosso ad un cavaliere della fazione dei rossi e cacciarlo dallo steccato a bastonate col tronco della lancia; punizione che veniva inflitta, secondo le leggi de' tornei, a chi non cessasse dall'armi tosto che ne era dato il segnale.

I combattenti che potevan reggersi in arcione o sulle loro gambe si presentarono innanzi al palco dei giudici, dove vennero ad uno ad uno chiamati per nome da un araldo, e dietro le testimonianze che ne rendevano di mano in mano gli ufficiali del torneo, venne giudicato che tutti s'eran portati virtuosamente da buoni e leali cavalieri; salvo che due, l'uno dei bianchi, cui fu dato carico d'aver ferito l'avversario in una coscia, correndo la lancia, che non era buon colpo, come quello che non istava fra le quattro membra, ed uno dei rossi, che fu accusato d'aver dato al cavallo. Ma quanto al primo, l'avversario medesimo che avea tocca la ferita ne fece le difese, mostrando che la botta gli era stata portata allo scudo, ma che il ferro della lancia sdrucciolando era venuto a conficcarglisi fuor del luogo disegnato, contro l'evidente intenzione del feritore; e quanto all'altro, gli riuscì di giustificarsi col far attestare da un aiutante del campo che il cavallo del suo competitore aveva levato la testa nel punto ch'ei calava la spada.

In seguito furono nominati anche quelli che si trovavano nelle tende, che erano dieci, sette feriti e tre morti; e venne definito che tutti s'eran portati bene e valorosamente.

Ma tra i feriti chi ebbe la maggior disdetta, senza essere dei più malconci, fu il nostro Bronzin Caimo, l'eroe dall'occhio bendato: a costui nel primo scontro, entrando il ferro d'una lancia pel fesso della visiera che lasciava luogo alla veduta, gli s'era conficcato (guardate mo se il diavolo ci mise le corna) proprio nell'occhio scoperto, in quello dal quale avea bene. Buona notte! egli rimase al buio, e, caduto da cavallo, fu menato alla tenda, dove con divota caparbietà non volle levarsi, patir che gli fosse levata la fascia dall'occhio che gli rimaneva ancora. Fu riferita la cosa ai giudici, i quali non seppero come decidere. Se ne parlò poi in seguito per un gran pezzo, se ne fece un gran discutere, un acerbo disputare fra i cavalieri e le dame, che lo dicevano un bel caso, collo stesso sapore con cui sentiamo dir talvolta ad un avvocato: questa è una bella causa; ad un medico: questa è una bella malattia; ogni avviso aveva i suoi campioni; si citavano tutte le leggi romane e quelle di Mosè, autori latini e provenzali, profeti e romanzieri, filosofi e trovatori: si ricorreva agli esempi cavati dalle storie dei sette figli di Amone, d'Amadigi di Gaula, di Girone il Cortese, e d'ogni più famoso paladino di Francia e d'Inghilterra. La controversia andò innanzi alle primarie Corti d'Amore che risiedevano in varie città d'Europa, e fu definita in più maniere; dalle decisioni di queste si fece appello finalmente alla Corte plenaria di Provenza, la quale dopo un maturo esame, dopo una lunga e dotta discussione, dopo d'aver consultati i primi dottori, sentenziò solennemente a favore dell'occhio del Caimo, vale a dire ch'ei potesse scoprirlo. Il timorato amante, il quale in tutto quel tempo era sempre stato cieco, levò finalmente la benda fatale, rivide la luce, dopo forse tre anni; e coll'occhio che gli era avanzato tornò alla vita di prima per compiere il voto di quel terzo che gli rimaneva tuttavia da scavalcare (guardate costanza del buon tempo antico!). Quando Dio volle, scavalcò anche quello. Che gioia!... Ma che direste voi, che quella crudelaccia della sua dama, cui non dovean garbar troppo i ciechi d'un occhio, andò a cavar fuori un altro uncino, e gli disse che la promessa era di non comparirle dinanzi se non coi due occhi aperti, e però ora che non ne avea che un solo, si guardasse bene di non lasciarsi mai più vedere.

Ma torniamo nello steccato. I cavalieri nuovi, secondo le leggi de' tornei, fecero un presente dell'elmo che avean portato, agli araldi del campo; ma qui pure insorse un altro contrasto, perocchè uno dei detti cavalieri nuovi avea già corso una lancia in un passo d'armi tenutosi a Como poco tempo prima, e vi fu chi pretese ch'egli non fosse obbligato a lasciar l'elmo agli araldi, non essendo quelle le prime armi ch'ei faceva; ma fu deciso che l'elmo era dovuto, per la ragione che l'affronto a cui avea presa parte la prima volta era stato una mislea, vale a dire, che non s'era combattuto colla spada; e miser fuori quella famosa sentenza in fatto di giostre e di tornei, che la spada franca la lancia, ma la lancia non franca la spada.

I bianchi furono proclamati vincitori; raccolti i voti, non pur dei giudici e degli uffiziali del campo, ma eziandio delle dame e delle donzelle, fu deciso che Ottorino s'era mostrato il più valente, e gli fu aggiudicato il premio: un cavallo bianco, bardamentato pur di bianco un elmo ed uno scudo d'argento: così finì quella giornata.

La moglie del nostro armaiuolo fu così contenta, così superba delle glorie di quel bel giovane, com'essa lo chiamava, che non sapeva finire di dirne; e la rimestò tanto e tanto, che il dolce marito cominciò a marinare, a sbuffare, e mancò poco che la non gli montasse da maladetto senno.

 

 




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