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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XVIII
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CAPITOLO XVIII

 

Le novelle del torneo furono portate la sera in casa del conte del Balzo dall'avvocato Lorenzo Garbagnate; Bice che appena era viva per lo spavento della notte precedente, per l'agonia di tutto quel giorno, passato framezzo a mille immagini di rischi in cui si trovava Ottorino, ne accoglieva avidamente ogni parola, e rianimavasi d'una novella vita, a guisa d'un fiore che sollevando il languido capo sullo stelo appassito, si riapre alla rugiada del mattino. Ma quando intese come il giovane dopo la vittoria baciasse riverentemente uno zendado azzurro che portava cinto al fianco, mostrando essere stato il pensiero della sua dama che l'avea fatto uscir glorioso dalla prova, l'innamorata fanciulla si sentì quasi venir meno per l'improvvisa dolcezza che le corse al cuore, laonde togliendosi per un istante all'altrui vista, si coperse il volto colle mani, e si lasciò vincer donnescamente.dal pianto. Tornata poi tosto nella sala, mille volte in quella sera sentissi salir una fiamma al volto all'udir ripetere l'amato nome che era nelle bocche di tutti: ella allora diceva fra stessa: - È mio -; e un tenero orgoglio le sorgea voluttuosamente in cuore.

Talvolta pensava pure a che duri termini fosse condotta; pensava al divieto fattole dal padre di mai più rivedere l'amato garzone, tornava colla mente a Marco; ma queste immagini si diradavano e svanivan tosto, vinte dalla piena del novello gaudio, come si sciolgono sotto la diffusa vampa del sole le nebbie della valle.

Gloriosa, beata d'aver posto l'amor suo in così degna altezza, di sapersi prediletta da lui, ch'era cresciuto a tanta fama, in quei momenti non poteva immaginarsi una sciagura; l'animo della fanciulla era tutto aperto alla speranza, l'avvenire le sorrideva dinanzi, e la fantasia vi scorreva per entro popolandolo di mille sogni, di mille dorate chimere.

I cavalieri e le dame convenute a veglia dal Conte, gli manifestaron la loro maraviglia ch'ei non si fosse lasciato vedere al torneo: parlandosi degli accidenti ivi occorsi, si venne a toccar la faccenda dell'occhio di Bronzin Caimo: in ogni altro tempo sarebbe stato un invitare il conte del Balzo al suo giuoco, chè dove era da piatire, da loicare, e' v'ingrassava; ma quel giorno avea tanto le lune a rovescio. che non ci fu verso di fargli pigliar caldo. Gli stava tutt'ora dinanzi il volto di Marco, gli sonavan nelle orecchie le sue parole, gli pesava sull'animo tutto quell'uomo: e la notizia del trionfo di Ottorino non aveva potuto operare in lui il miracolo operato nella figlia.

A poco a poco però si venne riavendo e pigliando fiato anch'esso, e infine poi vi fu uno scongiuro che ebbe forza d'incantargli la nebbia e di ravvivarlo tutto. Questo fu che un vecchio barone suo amico, prima di accommiatarsi, tiratolo in un canto gli disse che il Vicario Imperiale aveva chiesto di lui. Avete visto mai una magra rozza tutta malinconica, col capo basso, colle orecchie spenzolate, che non c'è modo di farla muovere per quanto un la venga frugando e punzecchiando; e che è, che non è? tutto ad un tratto spara un paio di calci, e via come una puledra; e si capisce poi che il carrettiere l'ha stuzzicata nel luogo dov'ha un guidalesco o una scorticatura? La cosa fu tal e quale.

- Dite da vero? ha chiesto di me? - domandava con grande sollecitudine il timido vanitoso.

- Ha chiesto di voi.

- E che cosa?... che cosa ha detto?

- Ha domandato perchè non siete intervenuto al torneo.

- Dunque bisognerà che domani non manchi di trovarmi per assistere alla giostra: non è la giostra che s'ha a tener domani?

- Sì, il secondo giorno è per la giostra, e sarà bene che v'andiate, che non paia... perchè... capite... il sapervi tanto amico di Marco, alle volte potrebbe far credere... che so io? che non siate amico del Vicario.

- Come? come?

- Che novità? Tutti sanno che fra Marco e il suo nipote Vicario c'è qualche salvatichezza.

- Io non so nulla di salvatichezza o non salvatichezza; io sono amico di tutti, e voglio essere in pace con tutti.

- E per questo appunto vi diceva, che domani non dovete mancare: è uno spettacolo per festeggiar la nomina d'Azzone... e se gli saltasse mai in capo di domandar di voi ancora, e che sentisse che non vi siete...

- Oh ci verrò, ci verrò senza fallo.

E tenne parola; il domani fu de' primi a comparire in un palco a canto a quello del Vicario; non era per anco allestito il campo, non eran per anco giunti i tenitori, ed egli era già , bello e tirato colla figlia e con un ricco seguito di donzelli e di paggi.

Quando il Vicario e i suoi due zii si affacciarono al pergolo, egli a far loro di berretto, a inchinarli, a gittar intorno le braccia, ma nessuno parve accorgersi di lui, nessuno parve distinguere il suo dai saluti che venivano dai palchi d'intorno, la qual cosa cominciò a somigliargli un po' strana. Seduti che furono tutti al loro posto, egli con quella sua barbetta tra il bianco e il rosso che non tenea mai ferma, con quei due occhietti grigi sempre in volta, con quella sua voce fessa e crocchiante sempre in aria, s'affannava pure per farsi notare, ma nessun gli badava più che non si badasse ad una coppia di cani che scorrazzavano per lo steccato abbaiandosi dietro; il che alla fine gli ebbe messo addosso una stizza che mai la maggiore.

Si cominciò la giostra: presentaronsi molti cavalieri a toccare quando l'uno quando l'altro degli scudi esposti in cima a varie aste conficcate in terra presso il padiglione dei tenitori; successero molti scontri, ma non vi fu pure un colpo segnalato; chi corse la lancia in fallo, chi staffeggiò da questo o da quel piede, chi si chinò sulla groppa del cavallo; v'ebbero due lance spezzate, e nulla più.

Ottorino non era mai stato chiamato nella lizza, che dopo le prove del giorno antecedente nessuno si arrischiava di misurarsi con lui.

Lo spettacolo durava già da due ore, e le cose andavan così fredde, che gli spettatori ne fur stufi e ristucchi fin sopra i capegli, e cominciarono a mormorare, poscia a fremere, in fine ad urlare bestialmente contro i cavalieri che avean si poca discretezza da non isbudellarsi un tantino per contentarli. Il popolo è cosi fatto, docile per lo più, maneggevole e pastoso; bisogna guardarsi bene dal toccarlo nei suoi spassi: allora è quando esce di pecora per farsi orso.

Ad acquetare quella bestia matta, comparvero gli araldi gridando che si sarebbe cessata la giostra per dar principio a un bigordo; così chiamavasi propriamente l'assalto dato ad un bastione, o ad un castello di legname, uno degli spettacoli favoriti di quel tempo. Ma in quella che si stava per pronunziare la formola usata per impor fine alle disfide, ecco si sente rimbombare nel bosco vicino il suono d'un corno: gli spettatori battendo delle mani, fecer segno che s'avesse ad aspettare il nuovo cavaliere annunciato da quel suono: vi furon pochi momenti di silenzio, poi fu visto entrare nello steccato un grande colla visiera chiusa, coll'armi di puro acciaio, senza colore, senza fregio, senza insegna nessuna; cavalcava un grosso stallone pugliese tutto nero come una pece, salvo che avea una stella in fronte ed era balzano da tre.

Il guerriero nuovamente comparso portava appeso all'arcione uno scudo liscio al par dell'altr'armi, volendo restare sconosciuto, ma gli venìa dietro uno scudiero con un altro palvese coperto d'uno zendado nero e lionato; colori che indicavano tristezza senza gioia. Quest'ultimo, lasciato il suo signore all'estremità della lizza che finiva col bosco, attraversò lo steccato per portare alla tenda dei giudici, piantata al lato opposto, quello scudo coperto. I giudici avean sagramento di non rivelar mai per caso nessuno il segreto di chi voleva combatter nascosto, ma dovean per legge riconoscere le sue armi, e pronunziare s'ei meritava l'onore d'essere accettato a misurarsi coi cavalieri tenitori.

Intanto erasi destata fra la moltitudine una gioia inquieta e curiosa che si manifestava da per tutto con un lungo bisbiglio.

Come lo scudiere fu entrato nella tenda dei giudici, il bisbiglio cessò, e fu dappertutto un silenzio pieno d'aspettazione.

Pochi momenti dopo i giudici usciron col palvese dello sconosciuto, che avean rivolto nello zendado come prima: lo posero in cima a un'asta, che conficcarono in terra, vi piegarono dinanzi un ginocchio, indi fecer segno ad un araldo, il quale gridò:

- È libero il campo al cavaliere. -

Allora l'ignoto, cui ne veniva data la balìa, attraversò esso pure a lento passo tutto lo steccato, fino alla tenda dei tenitori, e, fermatosi dinanzi allo scudo di Ottorino, invece di toccarlo colla lancia, come usavasi, lo strappò dal luogo in cui era posto, gettandolo per terra; poi ve lo tornò ad appiccare, ma col capo in giù, il che era il più grande oltraggio che potesse farsi a cavaliere, e importava una disfida a tutto transito, o, come noi diremmo, all'ultimo sangue.

Si levò un rumor vario tra la folla che era stata attenta a quegli atti, e ben sapea che cosa importassero. Taluno voleva indovinare chi fosse lo sfidatore, e la cagione di quell'odio mortale: i vecchi dicevano che il Vicario non avrebbe lasciato correre la disfida, i giovani gridavano che sarebbe stata una indegnità a volervisi opporre; molti palpitavano per Ottorino; molti che tenevano pur dalla sua, godevano di vedergli aperto il campo ad un nuovo trionfo; alcuni, invidiosi della sua gloria, giubilavano in segreto di quell'oscuro pericolo che gli stava sopra, e speravano di veder abbassata quell'altezza che faceva ombra al loro orgoglio, mentre il grosso degli spettatori senza avversione, senza amore, si apparecchiavano a godere di quello spettacolo a ristoro della lunga noia durata.

Ma che faceva intanto, come stava nel cuor suo la povera Bice? Ella che all'aprirsi della giostra, quando gli assalitori si presentavano per battere su alcuno degli scudi, trepidando tra la gloria e il periglio dell'amato capo, ora desiderava, ora tremava che fosse tocco lo scudo di Ottorino, s'era poi venuta rassicurando alla vista di tanti affronti senza sangue, e anelava da ultimo fidatamente di vedere il suo caro far prova di ; anzi colla mente turbata già pregustava il suo trionfo e le lodi dei cavalieri e delle dame, e la tacita e mal dissimulata maraviglia del padre. Ma quando intese il suono del corno, quando vide giungere l'ignoto cavaliere, riscossa all'improvviso come da un presentimento arcano, tremò tutta da capo a piedi, e le parve di sentir una voce che le gridasse nel cuore: - Guai al tuo sposo! -. Intanto che il terribile cavaliere attraversava lo steccato, avvicinandosi sempre al padiglione dei tenitori, ella lo guardava spaventata, come il fanciullo che vede avanzarsi lenta lenta la fantasima nel buio pauroso della notte: ogni passo ch'ei dava pareva che le togliesse una porzione di vita; quando fu alla fine della carriera, ella non poteva quasi più riavere l'anelito; il suono dello scudo rovesciato sul suolo le rimbombò profondamente nell'anima, e le tolse per un momento il lume degli occhi.

Il padre, che se ne accorse, pensò di cansarla da quel troppo duro punto, e presala per un braccio la veniva stimolando che si levasse per uscir di ; ma l'infelice, a cui l'aspettare lontana le novelle dell'affronto, con l'animo sempre volto al peggio, pareva ancora più insopportabile che non il vederne i casi cogli occhi propri, ricusò di seguirlo.

- Non sai chi è lo sfidato? - diceva il Conte con voce alterata.

- Lo so, è Ottorino - rispondeva risolutamente la fanciulla, che, ferma nel suo proposito, avea in quel punto raccolte tutte le forze dell'anima.

- Ma le armi... - seguitava il padre balbettando, - ma la disfida...

- Le armi sono appuntate e affilate, - tornava a dir Bice con volto fatto sicuro dalla disperazione; - la disfida è mortale, ho visto ogni cosa; ma non voglio levarmi di qui.

Intanto Ottorino era uscito dalla tenda tutto armato di ferro dal capo alle piante; s'accostò al suo cavallo da battaglia tenutogli da Lupo, e con tutto quel peso addosso, messa una mano sull'arcion davanti, levò da terra un salto spedito e leggiero, ed entrò netto in sella.

I giudici del campo tolsero due lance appuntate, coll'aste di sodo e pesante cerro, le ghiere d'argento e i calci ferrati; e poi ch'ebbero con uno stretto e squisito esame riconosciuto che si pareggiavano pienamente fra loro nella lunghezza, nel peso, nella qualità del legno, del ferro e dei guernimenti, ne diedero una allo sfidatore, l'altra allo sfidato, accennando ad ambedue che facessero il giro di tutta l'arena.

I due competitori incamminandosi del pari, cominciarono a dar la volta intorno, rasentando i palchi e lo stecconato, con dietro ciascuno il proprio scudiere. Lo sconosciuto, sempre chiuso nell'armi, moderava con aria agevole e non curante il poderoso corridore, che imbizzarrito dallo scoppiar degli applausi s'impennava, spiccava salti, e facea spumare il freno sbuffando e tempestando; egli in tanto si tenea fermo e ritto sugli arcioni con una posa sicura, con un garbo severo e pieno di natural leggiadria.

Lupo, che gli cavalcava dietro a pochi passi, ne osservava maravigliato la decente larghezza delle spalle, la bella proporzione di tutte le membra, l'ardito portar del capo e della persona, e non poteva a manco d'entrare in qualche apprensione pel suo signore. Notandone poi accuratamente le armi, s'accorse che il morione avea la barbuta inchiodata, e lo riconobbe per quel medesimo ch'era stato comperato il giorno innanzi da quel vecchio dalla schiavina color marrone.

Ottorino galoppava al fianco di quel grande, colla visiera alzata, fuor della quale si vedeva scappar qualche ciocca dei suoi neri capelli e scendergli sulla fronte piena di onesta giovanile baldanza. Egli avea sotto un bel giannetto d'Andalusia a scorza di castagna, non rubesto e terribile come lo stallone del suo avversario; ma pieno di fuoco, sentito, volonteroso, ubbidiente alla mano, alla voce, al cenno, sto per dire al pensiero del suo signore: lo volteggiava con molta maestria, facendogli alzare, sempre camminando, agili capriole e salti, graziose passate e scambi di corvette, sicchè pareva che si preparasse ad un festeggiamento d'armi, ad un carosello piuttosto che ad un affronto mortale.

Quando fur giunti innanzi al palco del conte del Balzo, Ottorino salutò cortesemente e il padre e la figlia; ma quegli appena diede segno d'essersi accorto di lui, e Bice anch'essa non gli rispose che con un'occhiata timida e fuggitiva; chè in quel punto, tirata come da una malìa prepotente, non potea ritrarre gli occhi dal cavaliere sconosciuto; ella vedeva il ferro della sua lancia lungo, aguzzo, luccicante, e le parea di sentirne la punta fredda in mezzo al cuore, e vi teneva addosso gli occhi come se l'avesse voluto struggere.

L'ignoto sfidatore, che non s'era mai vôlto da nessuna banda, piegò un cotal poco il capo verso il pergolo del conte del Balzo.

Compiuto il giro, fu dato il campo ai due competitori, essendosi diviso egualmente fra essi la terra e il sole, come si usava dire, essendo stati cioè collocati l'uno in faccia all'altro, coll'avvedimento, che ambedue fossero egualmente distanti dal centro della lizza, e che i raggi del sole avessero a battere fra essi in modo che il vantaggio e lo sconcio che potea venirne fosse eguale per tutt'e due.

L'immenso popolo affollato ai palchi, alle sbarre, alto all'indietro sopra panche e carri e tavolati posticci, sparso in maggior distanza su per gli alberi del bosco vicino, per le bertesche, per le altanelle delle poche case che erano in quei contorni, aspettava in silenzio: non v'era cuore che non palpitasse d'impazienza, d'invidia, di coraggio o di terrore; già stava per sonare il segnale dell'assalto, quando avvenne un caso che mandò sossopra in un tratto tutte quelle turbe; e poco mancò che non rovesciasse la vacillante potenza d'Azzone.

Lupo, che stava dietro ad Ottorino, ingannato da un accidentale movimento fatto in quel punto dal Vicario colla mano, lo credette il segnale dato al trombetta perchè sonasse l'assalto, e gridò con voce alta, che in quel silenzio fu intesa dall'un capo all'altro dello steccato: - Viva Marco Visconti! - quello era il grido di guerra del suo signore, il quale tosto che l'ebbe inteso levando in alto una mano coperta del guanto di ferro, ripetè anch'egli: - Viva Marco Visconti! - esso però, il suo competitore si mossero punto, non avendo udito lo squillo della tromba: ma la turba spettatrice che parteggiava in segreto tutta quanta per Marco, e sapeva così in nube che v'era in aria qualche macchinazione, credette che quel grido fosse il segno d'una congiura, un eccitamento a sollevarsi contra il Vicario; e in un momento migliaia e migliaia di voci vi risposero concordemente da tutte le parti, e molti fur visti metter mano all'armi, moversi ed aggrupparsi, interrogandosi insieme, e guardar intorno se si vedesse comparire una bandiera, un capo sotto cui raccogliersi. Se Marco fosse comparso in quel momento e si fosse mostrato al popolo, il colpo era fatto; le poche guardie del Vicario si ristrinsero spaventate intorno al suo palco; vi fu un momento in cui lo stesso Azzone e i suoi due zii Luchino e Giovanni si tenner perduti.

Nel maggior ribollimento, quando le grida eran più alte e feroci, il cavaliere sconosciuto, che non si era mosso dal suo posto, alzò una mano al morione, e fece l'atto di levarsi la visiera come se in quel punto fosse dimentico ch'ell'era inchiodata, ma non fu che un moto fuggitivo, e che parve involontario, perocchè riabbassò tosto il braccio, ed appoggiando il pugno chiuso sul cosciale di ferro, stette immobile guardando di sotto la buffa tutta quella confusione procellosa.

Intanto correvano intorno gli araldi, i maestri e gli aiutanti di campo a gridare, a far segno alla gente che si racquetassero, che tornassero al loro posto: difatti a poco a poco il temporale cominciò a sciogliersi, a dissiparsi, e svanì del tutto: i feroci giovani cui pizzicavan le mani, i timidi che non volevano restare a farsi pigiar nella calca, e i curiosi che facevan maggior ressa, ed erano i più, si recarono al loro posto, parte fremendo, parte ridendo, parte domandando che era stato.

Tornata la quiete e il silenzio, squillò la tromba, e i due combattenti si vennero incontro collo scudo innanzi al petto, e il capo piegato dietro allo scudo in guisa che la faccia ne rimanea coperta fino agli occhi.

Ma il cavaliere ignoto, il quale disegnava di correre la prima lancia con un colpo di destrezza, invece di pungere il cavallo dei due sproni, e dargli carriera sfogata, lo mise ad un frenato galoppo, e, quando fu giunto a tiro, presentò per isbieco lo scudo all'avversario che gli si serrava addosso a tutta furia, sicchè la lancia che lo colse sdrucciolò sul pulito acciaio senza potervi far colpo, e gli passò via rasente il fianco; mentr'egli, posta intanto la mira allo zendado azzurro che Ottorino s'era messo quel giorno ad armacollo, lo traforò entrandovi colla lancia fino al calcio, e nel trascorrere innanzi col cavallo gli riuscì di strapparglielo netto di dosso.

Un colpo così assestato, così magistrale, non potè esser valutato dagli spettatori, i quali reputandolo fatto a caso, cominciarono anzi a mormorare che si fossero corse le lance in fallo. Ma i due competitori trascorsero via volando, ciascuno dalla sua banda, e, voltati poi rapidamente i cavalli, come fur giunti ciascuno al punto dal quale era partito l'avversario la prima volta, si tornarono incontro furiosamente, a precipizio. Il cavaliere sconosciuto veniva anch'egli questa fiata di tutto corso, stringendo con tanta forza le ginocchia, che il robusto stallone gli si piegava sotto e si vedeva aprir la bocca per riavere il fiato. Scontratisi in quell'impeto a mezzo della lizza, Ottorino ruppe la lancia alla penna dello scudo del suo competitore che non si piegò un dito sulla sella, ma ferì a un punto il giovane alla visiera, e lo portò netto sul terreno un trar di lancia lontano dal cavallo, il quale, tostochè si sentì scariche le groppe, s'arrestò sulle quattro zampe, e volgeva la testa indietro come aspettando che il padrone tornasse a montarlo.

Ma il padrone stava disteso sulla sabbia colle braccia aperte senza dar segno di vita. Lupo balzò ratto in terra, gli aperse tremando la visiera, e trovò che gli usciva sangue dalle narici, dalla bocca e dagli orecchi. Accorsero due sergenti, e trattogli l'elmo, lo portarono a braccia fino alla tenda: le gambe gli cadevan giù spenzolate, il capo gli ondeggiava ad ogni passo rovesciato all'indietro coi capelli fluttuanti e insanguinati.

Dopo pochi momenti uscì un araldo dal padiglione, e gridò: - È vivo.

Allora il vincitore, che col moto del capo, sempre chiuso nell'elmo, avea accompagnato il ferito mentre lo traevano alla tenda, che non l'avea mai rivolto da quella dopo che ve l'avea visto scomparire, levò una mano al cielo e si rizzò sugli arcioni in un atto che significava manifestamente la sua gioia per quell'annunzio; poscia gittò la lancia, diede di sproni al cavallo ed uscì di galoppo dallo steccato dileguandosi nel bosco dond'era venuto. Lo scudiero di lui, levato lo scudo coperto dall'asta su cui stava confitto, gli tenne dietro.

Venne poi raccolta da terra la lancia gettata dal cavaliere scomparso, e se ne trovò il ferro spezzato: la maggior parte tenne che si fosse rotto nello scontro, ma vi fu alcuno che avea notato come il cavaliere sconosciuto, al primo sentir gridare dal suo avversario quelle parole: - Viva Marco, - si fosse avvicinato ad un palco, e cacciato il ferro della lancia fra la connessura di due asse. l'avesse messo a leva e fatto saltare, scavezzandolo pel mezzo.

Tutti eran d'accordo che se la lancia fosse stata salda, la forza del colpo era tale, che avrebbe forato la visiera e passato banda banda il capo dell'abbattuto.

 

 




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