CAPITOLO XVIII
Le novelle del torneo furono portate la sera in casa del
conte del Balzo dall'avvocato Lorenzo Garbagnate; Bice che appena era viva per
lo spavento della notte precedente, per l'agonia di tutto quel giorno, passato
framezzo a mille immagini di rischi in cui si trovava Ottorino, ne accoglieva
avidamente ogni parola, e rianimavasi d'una novella vita, a guisa d'un fiore
che sollevando il languido capo sullo stelo appassito, si riapre alla rugiada
del mattino. Ma quando intese come il giovane dopo la vittoria baciasse
riverentemente uno zendado azzurro che portava cinto al fianco, mostrando
essere stato il pensiero della sua dama che l'avea fatto uscir glorioso dalla
prova, l'innamorata fanciulla si sentì quasi venir meno per l'improvvisa
dolcezza che le corse al cuore, laonde togliendosi per un istante all'altrui
vista, si coperse il volto colle mani, e si lasciò vincer donnescamente.dal
pianto. Tornata poi tosto nella sala, mille volte in quella sera sentissi salir
una fiamma al volto all'udir ripetere l'amato nome che era nelle bocche di
tutti: ella allora diceva fra sè stessa: - È mio -; e un tenero orgoglio le
sorgea voluttuosamente in cuore.
Talvolta pensava pure a che duri termini fosse condotta;
pensava al divieto fattole dal padre di mai più rivedere l'amato garzone,
tornava colla mente a Marco; ma queste immagini si diradavano e svanivan tosto,
vinte dalla piena del novello gaudio, come si sciolgono sotto la diffusa vampa
del sole le nebbie della valle.
Gloriosa, beata d'aver posto l'amor suo in così degna
altezza, di sapersi prediletta da lui, ch'era cresciuto a tanta fama, in quei
momenti non poteva immaginarsi una sciagura; l'animo della fanciulla era tutto
aperto alla speranza, l'avvenire le sorrideva dinanzi, e la fantasia vi
scorreva per entro popolandolo di mille sogni, di mille dorate chimere.
I cavalieri e le dame convenute a veglia dal Conte, gli
manifestaron la loro maraviglia ch'ei non si fosse lasciato vedere al torneo:
parlandosi degli accidenti ivi occorsi, si venne a toccar la faccenda dell'occhio
di Bronzin Caimo: in ogni altro tempo sarebbe stato un invitare il conte del
Balzo al suo giuoco, chè dove era da piatire, da loicare, e' v'ingrassava; ma
quel giorno avea tanto le lune a rovescio. che non ci fu verso di fargli
pigliar caldo. Gli stava tutt'ora dinanzi il volto di Marco, gli sonavan nelle
orecchie le sue parole, gli pesava sull'animo tutto quell'uomo: e la notizia
del trionfo di Ottorino non aveva potuto operare in lui il miracolo operato
nella figlia.
A poco a poco però si venne riavendo e pigliando fiato
anch'esso, e infine poi vi fu uno scongiuro che ebbe forza d'incantargli la
nebbia e di ravvivarlo tutto. Questo fu che un vecchio barone suo amico, prima
di accommiatarsi, tiratolo in un canto gli disse che il Vicario Imperiale aveva
chiesto di lui. Avete visto mai una magra rozza tutta malinconica, col capo
basso, colle orecchie spenzolate, che non c'è modo di farla muovere per quanto
un la venga frugando e punzecchiando; e che è, che non è? tutto ad un tratto
spara un paio di calci, e via come una puledra; e si capisce poi che il
carrettiere l'ha stuzzicata nel luogo dov'ha un guidalesco o una scorticatura?
La cosa fu tal e quale.
- Dite da vero? ha chiesto di me? - domandava con grande
sollecitudine il timido vanitoso.
- Ha chiesto di voi.
- E che cosa?... che cosa ha detto?
- Ha domandato perchè non siete intervenuto al torneo.
- Dunque bisognerà che domani non manchi di trovarmi là per
assistere alla giostra: non è la giostra che s'ha a tener domani?
- Sì, il secondo giorno è per la giostra, e sarà bene che
v'andiate, che non paia... perchè... capite... il sapervi tanto amico di Marco,
alle volte potrebbe far credere... che so io? che non siate amico del Vicario.
- Come? come?
- Che novità? Tutti sanno che fra Marco e il suo nipote
Vicario c'è qualche salvatichezza.
- Io non so nulla di salvatichezza o non salvatichezza; io
sono amico di tutti, e voglio essere in pace con tutti.
- E per questo appunto vi diceva, che domani non dovete
mancare: è uno spettacolo per festeggiar la nomina d'Azzone... e se gli
saltasse mai in capo di domandar di voi ancora, e che sentisse che non vi
siete...
- Oh ci verrò, ci verrò senza fallo.
E tenne parola; il domani fu de' primi a comparire in un
palco a canto a quello del Vicario; non era per anco allestito il campo, non
eran per anco giunti i tenitori, ed egli era già là, bello e tirato colla
figlia e con un ricco seguito di donzelli e di paggi.
Quando il Vicario e i suoi due zii si affacciarono al
pergolo, egli a far loro di berretto, a inchinarli, a gittar intorno le
braccia, ma nessuno parve accorgersi di lui, nessuno parve distinguere il suo
dai saluti che venivano dai palchi d'intorno, la qual cosa cominciò a
somigliargli un po' strana. Seduti che furono tutti al loro posto, egli con
quella sua barbetta tra il bianco e il rosso che non tenea mai ferma, con quei
due occhietti grigi sempre in volta, con quella sua voce fessa e crocchiante
sempre in aria, s'affannava pure per farsi notare, ma nessun gli badava più che
non si badasse ad una coppia di cani che scorrazzavano per lo steccato
abbaiandosi dietro; il che alla fine gli ebbe messo addosso una stizza che mai
la maggiore.
Si cominciò la giostra: presentaronsi molti cavalieri a
toccare quando l'uno quando l'altro degli scudi esposti in cima a varie aste
conficcate in terra presso il padiglione dei tenitori; successero molti
scontri, ma non vi fu pure un colpo segnalato; chi corse la lancia in fallo,
chi staffeggiò da questo o da quel piede, chi si chinò sulla groppa del
cavallo; v'ebbero due lance spezzate, e nulla più.
Ottorino non era mai stato chiamato nella lizza, che dopo le
prove del giorno antecedente nessuno si arrischiava di misurarsi con lui.
Lo spettacolo durava già da due ore, e le cose andavan così
fredde, che gli spettatori ne fur stufi e ristucchi fin sopra i capegli, e
cominciarono a mormorare, poscia a fremere, in fine ad urlare bestialmente
contro i cavalieri che avean si poca discretezza da non isbudellarsi un tantino
per contentarli. Il popolo è cosi fatto, docile per lo più, maneggevole e
pastoso; bisogna guardarsi bene dal toccarlo nei suoi spassi: allora è quando
esce di pecora per farsi orso.
Ad acquetare quella bestia matta, comparvero gli araldi
gridando che si sarebbe cessata la giostra per dar principio a un bigordo; così
chiamavasi propriamente l'assalto dato ad un bastione, o ad un castello di
legname, uno degli spettacoli favoriti di quel tempo. Ma in quella che si stava
per pronunziare la formola usata per impor fine alle disfide, ecco si sente
rimbombare nel bosco vicino il suono d'un corno: gli spettatori battendo delle
mani, fecer segno che s'avesse ad aspettare il nuovo cavaliere annunciato da
quel suono: vi furon pochi momenti di silenzio, poi fu visto entrare nello
steccato un grande colla visiera chiusa, coll'armi di puro acciaio, senza
colore, senza fregio, senza insegna nessuna; cavalcava un grosso stallone
pugliese tutto nero come una pece, salvo che avea una stella in fronte ed era
balzano da tre.
Il guerriero nuovamente comparso portava appeso all'arcione
uno scudo liscio al par dell'altr'armi, volendo restare sconosciuto, ma gli
venìa dietro uno scudiero con un altro palvese coperto d'uno zendado nero e
lionato; colori che indicavano tristezza senza gioia. Quest'ultimo, lasciato il
suo signore all'estremità della lizza che finiva col bosco, attraversò lo
steccato per portare alla tenda dei giudici, piantata al lato opposto, quello
scudo coperto. I giudici avean sagramento di non rivelar mai per caso nessuno
il segreto di chi voleva combatter nascosto, ma dovean per legge riconoscere le
sue armi, e pronunziare s'ei meritava l'onore d'essere accettato a misurarsi
coi cavalieri tenitori.
Intanto erasi destata fra la moltitudine una gioia inquieta
e curiosa che si manifestava da per tutto con un lungo bisbiglio.
Come lo scudiere fu entrato nella tenda dei giudici, il
bisbiglio cessò, e fu dappertutto un silenzio pieno d'aspettazione.
Pochi momenti dopo i giudici usciron col palvese dello
sconosciuto, che avean rivolto nello zendado come prima: lo posero in cima a
un'asta, che conficcarono in terra, vi piegarono dinanzi un ginocchio, indi
fecer segno ad un araldo, il quale gridò:
- È libero il campo al cavaliere. -
Allora l'ignoto, cui ne veniva data la balìa, attraversò
esso pure a lento passo tutto lo steccato, fino alla tenda dei tenitori, e,
fermatosi dinanzi allo scudo di Ottorino, invece di toccarlo colla lancia, come
usavasi, lo strappò dal luogo in cui era posto, gettandolo per terra; poi ve lo
tornò ad appiccare, ma col capo in giù, il che era il più grande oltraggio che
potesse farsi a cavaliere, e importava una disfida a tutto transito, o, come
noi diremmo, all'ultimo sangue.
Si levò un rumor vario tra la folla che era stata attenta a
quegli atti, e ben sapea che cosa importassero. Taluno voleva indovinare chi
fosse lo sfidatore, e la cagione di quell'odio mortale: i vecchi dicevano che
il Vicario non avrebbe lasciato correre la disfida, i giovani gridavano che
sarebbe stata una indegnità a volervisi opporre; molti palpitavano per
Ottorino; molti che tenevano pur dalla sua, godevano di vedergli aperto il
campo ad un nuovo trionfo; alcuni, invidiosi della sua gloria, giubilavano in
segreto di quell'oscuro pericolo che gli stava sopra, e speravano di veder
abbassata quell'altezza che faceva ombra al loro orgoglio, mentre il grosso
degli spettatori senza avversione, senza amore, si apparecchiavano a godere di
quello spettacolo a ristoro della lunga noia durata.
Ma che faceva intanto, come stava nel cuor suo la povera
Bice? Ella che all'aprirsi della giostra, quando gli assalitori si presentavano
per battere su alcuno degli scudi, trepidando tra la gloria e il periglio
dell'amato capo, ora desiderava, ora tremava che fosse tocco lo scudo di
Ottorino, s'era poi venuta rassicurando alla vista di tanti affronti senza sangue,
e anelava da ultimo fidatamente di vedere il suo caro far prova di sè; anzi
colla mente turbata già pregustava il suo trionfo e le lodi dei cavalieri e
delle dame, e la tacita e mal dissimulata maraviglia del padre. Ma quando
intese il suono del corno, quando vide giungere l'ignoto cavaliere, riscossa
all'improvviso come da un presentimento arcano, tremò tutta da capo a piedi, e
le parve di sentir una voce che le gridasse nel cuore: - Guai al tuo sposo! -.
Intanto che il terribile cavaliere attraversava lo steccato, avvicinandosi
sempre al padiglione dei tenitori, ella lo guardava spaventata, come il
fanciullo che vede avanzarsi lenta lenta la fantasima nel buio pauroso della
notte: ogni passo ch'ei dava pareva che le togliesse una porzione di vita; quando
fu alla fine della carriera, ella non poteva quasi più riavere l'anelito; il
suono dello scudo rovesciato sul suolo le rimbombò profondamente nell'anima, e
le tolse per un momento il lume degli occhi.
Il padre, che se ne accorse, pensò di cansarla da quel
troppo duro punto, e presala per un braccio la veniva stimolando che si levasse
per uscir di là; ma l'infelice, a cui l'aspettare lontana le novelle
dell'affronto, con l'animo sempre volto al peggio, pareva ancora più
insopportabile che non il vederne i casi cogli occhi propri, ricusò di
seguirlo.
- Non sai chi è lo sfidato? - diceva il Conte con voce
alterata.
- Lo so, è Ottorino - rispondeva risolutamente la fanciulla,
che, ferma nel suo proposito, avea in quel punto raccolte tutte le forze
dell'anima.
- Ma le armi... - seguitava il padre balbettando, - ma la
disfida...
- Le armi sono appuntate e affilate, - tornava a dir Bice
con volto fatto sicuro dalla disperazione; - la disfida è mortale, ho visto
ogni cosa; ma non voglio levarmi di qui.
Intanto Ottorino era uscito dalla tenda tutto armato di
ferro dal capo alle piante; s'accostò al suo cavallo da battaglia tenutogli da
Lupo, e con tutto quel peso addosso, messa una mano sull'arcion davanti, levò
da terra un salto spedito e leggiero, ed entrò netto in sella.
I giudici del campo tolsero due lance appuntate, coll'aste
di sodo e pesante cerro, le ghiere d'argento e i calci ferrati; e poi ch'ebbero
con uno stretto e squisito esame riconosciuto che si pareggiavano pienamente
fra loro nella lunghezza, nel peso, nella qualità del legno, del ferro e dei
guernimenti, ne diedero una allo sfidatore, l'altra allo sfidato, accennando ad
ambedue che facessero il giro di tutta l'arena.
I due competitori incamminandosi del pari, cominciarono a
dar la volta intorno, rasentando i palchi e lo stecconato, con dietro ciascuno
il proprio scudiere. Lo sconosciuto, sempre chiuso nell'armi, moderava con aria
agevole e non curante il poderoso corridore, che imbizzarrito dallo scoppiar
degli applausi s'impennava, spiccava salti, e facea spumare il freno sbuffando
e tempestando; egli in tanto si tenea fermo e ritto sugli arcioni con una posa
sicura, con un garbo severo e pieno di natural leggiadria.
Lupo, che gli cavalcava dietro a pochi passi, ne osservava
maravigliato la decente larghezza delle spalle, la bella proporzione di tutte
le membra, l'ardito portar del capo e della persona, e non poteva a manco
d'entrare in qualche apprensione pel suo signore. Notandone poi accuratamente
le armi, s'accorse che il morione avea la barbuta inchiodata, e lo riconobbe
per quel medesimo ch'era stato comperato il giorno innanzi da quel vecchio
dalla schiavina color marrone.
Ottorino galoppava al fianco di quel grande, colla visiera
alzata, fuor della quale si vedeva scappar qualche ciocca dei suoi neri capelli
e scendergli sulla fronte piena di onesta giovanile baldanza. Egli avea sotto
un bel giannetto d'Andalusia a scorza di castagna, non rubesto e terribile come
lo stallone del suo avversario; ma pieno di fuoco, sentito, volonteroso, ubbidiente
alla mano, alla voce, al cenno, sto per dire al pensiero del suo signore: lo
volteggiava con molta maestria, facendogli alzare, sempre camminando, agili
capriole e salti, graziose passate e scambi di corvette, sicchè pareva che si
preparasse ad un festeggiamento d'armi, ad un carosello piuttosto che ad un
affronto mortale.
Quando fur giunti innanzi al palco del conte del Balzo,
Ottorino salutò cortesemente e il padre e la figlia; ma quegli appena diede
segno d'essersi accorto di lui, e Bice anch'essa non gli rispose che con
un'occhiata timida e fuggitiva; chè in quel punto, tirata come da una malìa
prepotente, non potea ritrarre gli occhi dal cavaliere sconosciuto; ella vedeva
il ferro della sua lancia lungo, aguzzo, luccicante, e le parea di sentirne la punta
fredda in mezzo al cuore, e vi teneva addosso gli occhi come se l'avesse voluto
struggere.
L'ignoto sfidatore, che non s'era mai vôlto da nessuna
banda, piegò un cotal poco il capo verso il pergolo del conte del Balzo.
Compiuto il giro, fu dato il campo ai due competitori,
essendosi diviso egualmente fra essi la terra e il sole, come si usava dire,
essendo stati cioè collocati l'uno in faccia all'altro, coll'avvedimento, che
ambedue fossero egualmente distanti dal centro della lizza, e che i raggi del
sole avessero a battere fra essi in modo che il vantaggio e lo sconcio che
potea venirne fosse eguale per tutt'e due.
L'immenso popolo affollato ai palchi, alle sbarre, alto
all'indietro sopra panche e carri e tavolati posticci, sparso in maggior
distanza su per gli alberi del bosco vicino, per le bertesche, per le altanelle
delle poche case che erano in quei contorni, aspettava in silenzio: non v'era
cuore che non palpitasse d'impazienza, d'invidia, di coraggio o di terrore; già
stava per sonare il segnale dell'assalto, quando avvenne un caso che mandò
sossopra in un tratto tutte quelle turbe; e poco mancò che non rovesciasse la
vacillante potenza d'Azzone.
Lupo, che stava dietro ad Ottorino, ingannato da un
accidentale movimento fatto in quel punto dal Vicario colla mano, lo credette
il segnale dato al trombetta perchè sonasse l'assalto, e gridò con voce alta,
che in quel silenzio fu intesa dall'un capo all'altro dello steccato: - Viva
Marco Visconti! - quello era il grido di guerra del suo signore, il quale tosto
che l'ebbe inteso levando in alto una mano coperta del guanto di ferro, ripetè
anch'egli: - Viva Marco Visconti! - Nè esso però, nè il suo competitore si
mossero punto, non avendo udito lo squillo della tromba: ma la turba
spettatrice che parteggiava in segreto tutta quanta per Marco, e sapeva così in
nube che v'era in aria qualche macchinazione, credette che quel grido fosse il
segno d'una congiura, un eccitamento a sollevarsi contra il Vicario; e in un
momento migliaia e migliaia di voci vi risposero concordemente da tutte le
parti, e molti fur visti metter mano all'armi, moversi ed aggrupparsi,
interrogandosi insieme, e guardar intorno se si vedesse comparire una bandiera,
un capo sotto cui raccogliersi. Se Marco fosse comparso in quel momento e si
fosse mostrato al popolo, il colpo era fatto; le poche guardie del Vicario si
ristrinsero spaventate intorno al suo palco; vi fu un momento in cui lo stesso
Azzone e i suoi due zii Luchino e Giovanni si tenner perduti.
Nel maggior ribollimento, quando le grida eran più alte e
feroci, il cavaliere sconosciuto, che non si era mosso dal suo posto, alzò una
mano al morione, e fece l'atto di levarsi la visiera come se in quel punto
fosse dimentico ch'ell'era inchiodata, ma non fu che un moto fuggitivo, e che parve
involontario, perocchè riabbassò tosto il braccio, ed appoggiando il pugno
chiuso sul cosciale di ferro, stette immobile guardando di sotto la buffa tutta
quella confusione procellosa.
Intanto correvano intorno gli araldi, i maestri e gli
aiutanti di campo a gridare, a far segno alla gente che si racquetassero, che
tornassero al loro posto: difatti a poco a poco il temporale cominciò a
sciogliersi, a dissiparsi, e svanì del tutto: i feroci giovani cui pizzicavan
le mani, i timidi che non volevano restare a farsi pigiar nella calca, e i
curiosi che facevan maggior ressa, ed erano i più, si recarono al loro posto,
parte fremendo, parte ridendo, parte domandando che era stato.
Tornata la quiete e il silenzio, squillò la tromba, e i due
combattenti si vennero incontro collo scudo innanzi al petto, e il capo piegato
dietro allo scudo in guisa che la faccia ne rimanea coperta fino agli occhi.
Ma il cavaliere ignoto, il quale disegnava di correre la
prima lancia con un colpo di destrezza, invece di pungere il cavallo dei due
sproni, e dargli carriera sfogata, lo mise ad un frenato galoppo, e, quando fu
giunto a tiro, presentò per isbieco lo scudo all'avversario che gli si serrava
addosso a tutta furia, sicchè la lancia che lo colse sdrucciolò sul pulito
acciaio senza potervi far colpo, e gli passò via rasente il fianco; mentr'egli,
posta intanto la mira allo zendado azzurro che Ottorino s'era messo quel giorno
ad armacollo, lo traforò entrandovi colla lancia fino al calcio, e nel
trascorrere innanzi col cavallo gli riuscì di strapparglielo netto di dosso.
Un colpo così assestato, così magistrale, non potè esser
valutato dagli spettatori, i quali reputandolo fatto a caso, cominciarono anzi
a mormorare che si fossero corse le lance in fallo. Ma i due competitori trascorsero
via volando, ciascuno dalla sua banda, e, voltati poi rapidamente i cavalli,
come fur giunti ciascuno al punto dal quale era partito l'avversario la prima
volta, si tornarono incontro furiosamente, a precipizio. Il cavaliere
sconosciuto veniva anch'egli questa fiata di tutto corso, stringendo con tanta
forza le ginocchia, che il robusto stallone gli si piegava sotto e si vedeva
aprir la bocca per riavere il fiato. Scontratisi in quell'impeto a mezzo della
lizza, Ottorino ruppe la lancia alla penna dello scudo del suo competitore che
non si piegò un dito sulla sella, ma ferì a un punto il giovane alla visiera, e
lo portò netto sul terreno un trar di lancia lontano dal cavallo, il quale,
tostochè si sentì scariche le groppe, s'arrestò sulle quattro zampe, e volgeva
la testa indietro come aspettando che il padrone tornasse a montarlo.
Ma il padrone stava disteso sulla sabbia colle braccia
aperte senza dar segno di vita. Lupo balzò ratto in terra, gli aperse tremando
la visiera, e trovò che gli usciva sangue dalle narici, dalla bocca e dagli
orecchi. Accorsero due sergenti, e trattogli l'elmo, lo portarono a braccia
fino alla tenda: le gambe gli cadevan giù spenzolate, il capo gli ondeggiava ad
ogni passo rovesciato all'indietro coi capelli fluttuanti e insanguinati.
Dopo pochi momenti uscì un araldo dal padiglione, e gridò: -
È vivo.
Allora il vincitore, che col moto del capo, sempre chiuso
nell'elmo, avea accompagnato il ferito mentre lo traevano alla tenda, che non
l'avea mai rivolto da quella dopo che ve l'avea visto scomparire, levò una mano
al cielo e si rizzò sugli arcioni in un atto che significava manifestamente la
sua gioia per quell'annunzio; poscia gittò la lancia, diede di sproni al
cavallo ed uscì di galoppo dallo steccato dileguandosi nel bosco dond'era
venuto. Lo scudiero di lui, levato lo scudo coperto dall'asta su cui stava
confitto, gli tenne dietro.
Venne poi raccolta da terra la lancia gettata dal cavaliere
scomparso, e se ne trovò il ferro spezzato: la maggior parte tenne che si fosse
rotto nello scontro, ma vi fu alcuno che avea notato come il cavaliere
sconosciuto, al primo sentir gridare dal suo avversario quelle parole: - Viva
Marco, - si fosse avvicinato ad un palco, e cacciato il ferro della lancia fra
la connessura di due asse. l'avesse messo a leva e fatto saltare, scavezzandolo
pel mezzo.
Tutti eran d'accordo che se la lancia fosse stata salda, la
forza del colpo era tale, che avrebbe forato la visiera e passato banda banda
il capo dell'abbattuto.
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