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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XIX
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CAPITOLO XIX

 

Qui la nostra storia, saltando a piè pari lo spazio d'un mese, ci trasporta fino alla città di Lucca, della quale in quel tempo di mezzo era diventato signore Marco Visconti; ed ecco in qual modo. L'imperatore, costretto ad abbandonar la Toscana dacchè le cose sue e dell'antipapa erano andate a traverso, prima di darle l'addio s'era ingegnato di cavarne tutto quel che poteva, e fra tanti bei ritrovamenti, uno dei più leggiadri era stato quello di vendere le città amiche a danaro contante. Questa gentilezza era toccata appunto a Lucca: il Bavaro infedele l'avea tolta ai figli di Castruccio, suo potente favoreggiatore, per darla a Francesco Castracani degl'Interminelli, il quale gli snocciolò non so dir quanti bei mila fiorini d'oro. Ma i Lucchesi, che non potevan masticarla d'essere stati mercanteggiati a quel modo come un branco di pecore, partito l'imperatore, eransi raccomandati a Marco, il quale capitato qualche tempo prima al Ceruglio, si era guadagnata quella banda di Alemanni ribelli, sicchè potea farne il piacer suo. Il Visconte calò con seicento barbute in aiuto di quei di Lucca, scacciò il Castracani dal mal acquistato dominio, e fu eletto egli medesimo signore e capitano della città per lui liberata da un esoso padrone, d'una che dovette darsi di buona voglia a quel principe d'illustri natali, di chiara fama, stato già amico strettissimo di quel celebre Castruccio, sotto la cui signoria ella era diventanta così potente e formidabile.

Correva il sesto giorno da quel fatto: Marco avea ancora di continuo gente in faccenda a ricevere le sommissioni delle terre e dei castelli del territorio che gli si davan volonterosi, a correre, a devastare, a incendiare quelli che s'era rivoltati ricusandogli obbedienza; e già attaccava nuovi fili col conte Fazio per fare a Pisa lo stesso gioco che avea fatto a Lucca, e tôrre quella città dalle mani di messer Tarlatino di Pietra Mala, a cui era stata ceduta dal Bavaro.

La mattina di quel sesto giorno egli l'avea spesa in ricevere e spedir messaggi ai principi, ai comuni di Toscana e di Romagna che miravano con vari sentimenti d'invidia, di tema e di speranza, sorgere quel nuovo principe di cui era difficile indovinare l'animo nascosto; il resto della giornata era corso fra i tripudi e gli omaggi, di che la moltitudine non è mai avara coi nuovi principi: gli sonavano ancora nelle orecchie le grida onde aveano echeggiato le vie di Lucca ch'egli avea trascorse a cavallo, seguito dai maggiorenghi, dai baroni, dai consoli delle arti, per recarsi alla chiesa di San Martino a venerare il Volto Santo.

Fattasi ora  già tarda, data licenza ai consiglieri e alla nobiltà della sua nuova Corte, il Visconte passeggiava in un vasto salone del palazzo del Comune, stato pochi mesi prima abitato dal famoso suo amico Castruccio, volgendo di tanto in tanto gli occhi verso una finestra gotica che rispondeva sulla piazza, dalla qual finestra si scopriva qualche torre, qualche guglia splendente allora d'un'infinità di lumi; giù nella piazza un gran falò spandeva un chiaror rosso e mal fermo sul popolo che vi si agitava d'intorno, che vi banchettava gozzovigliando, che cantava rispetti e canzoni in lode del novello signore: in lontananza, su per le colline curvate in giro una quantità di baldorie; dappertutto un concerto di campane che sonavano a doppio o a festa.

Marco si fermò un momento a contemplare quello spettacolo, come uno sposo che contempla in una festa l'adorna e lieta bellezza della sua giovine sposa il primo delle nozze; quindi togliendosi dalla finestra gli vennero levati gli occhi ad un ritratto di Castruccio che pendeva dalla parete sopra al camino, e quella vista gli guastò ogni gioia, gli scompigliò tutto l'incanto; accostossi ad un seggiolone, vi sedette, e tenendo tuttavia gli occhi nell'effigie dell'amico, morto pochi mesi prima, diceva fra :

- A Roma, quando pieno di vita e di gloria egli era l'occhio destro dell'imperatore, quando tutte le città guelfe, e il re Roberto, e ìl papa, tremavano al suo nome, quand'io sentiva l'orgoglio d'essergli amico, e sperava per opera sua d'ottener la signoria di Milano, se fosse venuto un indovino a dirgli: «Castruccio, fra pochi mesi tutto sarà finito, e tu starai sotterra»; che annunzio! fresco d'anni e di vigore, nel fior della potenza... pure la vita è così incerta, così caduca... ed egli sapeva d'esser mortale: ma se quell'indovino avesse seguitato così: «Vedi costui che ti sta al fianco? quest'uomo che tu cerchi di far grande nella sua terra, questo Marco che t'aiutò, per quanto era in lui, a salire all'altezza a cui ti se' levato, e che ti onora e ti ama più che un fratello, lo vedi? or sappi, ch'egli fra non molto sarà signore nella tua città, che la tua casa sarà la sua casa, che la tua vedova, che i figli tuoi andranno raminghi di terra in terra cercando un asilo che verrà loro negato, ed egli ne otterrà il retaggio»; oh che avrebbe risposto quell'altero spirito? che cuore sarebbe stato il suo?... Ed io, che avrei detto io?... Or va tu, e fa ragione sull'avvenire! miserabile creatura che è l'uomo!... Una sì illustre e sì potente città ti cade in grembo da stessa in un momento, mentre t'affatichi da tanti anni per farti signore d'un'altra che ti sfugge dinanzi come una larva. Non ti par egli d'esser di quegl'infervorati, che mentre si struggono a cercar l'oro per alchimia, s'abbattono a trovar per via qualche maraviglioso segreto di natura, cui non avean pur mai sognato?. -

Si affacciò un'altra volta alla finestra, stette alcun tempo guardando giù nella piazza e girando gli occhi all'intorno, poscia sclamò: - La bella città che è Lucca! ... - Ma non è Milano, - soggiunse tosto con un sospiro. - Esser principe dove sei stato soggetto, comandare dove hai obbedito, esser grande in mezzo agli amici ai quali è dolce la tua grandezza, farne parte ad essi... e... sì, anche in mezzo ai nemici tuoi, e vederli rodersi, e trionfare della loro abbiezione, questa è vita!... - Qui ridenti colli sparsi di vigne e di oliveti, qui pure splendidi cavalieri, vaghe donzelle, ricchezze, cortesia... ma tutto è muto al cuore di Marco. -

Intanto ch'egli volgea per la mente tali pensieri, il popolo che lo vedeva ritto in piedi e fermo dietro le vetriere, si affollò sotto alla finestra gridando: - Viva Marco! Viva Marco! - Rottogli da quel frastuono il filo delle sue idee, egli rispose col chinar del capo, coll'abbassar cortese delle mani spiegate, poi si ritrasse impazientito di , ed entrando in una camera vicina: - Stolidi! insensati! -, seguitava a dir fra , - temete forse che sia per mancarvi un padrone? Viva Marco! e che cosa sperate da questo Marco? e chi è egli? e che sapete voi se possa, se voglia quello che ne sperate? - Che esultanza, che tripudio! se in Lucca fu altrettanto per la vittoria d'Altopascio, bastava... Oh chi desse fede a quelle vostre grida! ... un tempo mi avrebbero forse inebriato... Ormai so quanto ci corra dalla domenica dell'ulivo al venerdì santo, dall'osanna al crucifige. -

Un paggio avvicinossi all'uscio, e venuto innanzi, poichè ne ebbe ottenuta licenza, fece un profondo inchino, e porse a Marco un fascetto di lettere, dicendo: - Dispacci di Lombardia: il corriere è giù nella sala rossa, dice d'esser uno dei vostri familiari, e che si chiama Pelagrua. - Aspetti, - rispose Marco congedando il paggio con un cenno del capo. Accostatosi ad una lucerna si mise a scorrere le soprascritte delle lettere, gittandole ad una ad una su d'un tavolino, di mano in mano che dal carattere veniva riconoscendo di chi fossero. S'abbattè poi in una, alla vista della quale fece un atto di maraviglia, scosse un campanello d'argento, ed al paggio, comparso tosto a quel suono, domandava: - Non è un solo messo che le ha recate tutte? - e accennava le lettere. - Tutte quel vostro familiare, - rispose il paggio, - tranne una che fu lasciata in palazzo da un corriere che seguitò tosto il viaggio per alla volta di Roma. - Va bene, - disse Marco, e il ragazzo uscì.

Allora il Visconte gettando sul tavolino anche quell'ultima lettera che gli era rimasta in mano, seguitava a dir fra con un certo ghigno amaro: - Il magnifico mio nipote! non è poca degnazione codesta! -, e pigliatane poi una che avea messa da banda nel far la prima rassegna, l'aperse, e si mise a leggerla. Era una lettera di Lodrisio, il suo consigliere. Dal che Marco avea lasciata Milano, costui l'era sempre venuto ragguagliando di quanto vi accadeva: ogni settimana, un corriere era sempre in viaggio colle sue lettere e colle risposte di Marco scritte in cifra, com'erano rimasti fra loro, per condurre di concerto la trama avviata e pigliar partito secondo i casi.

Appena era corsa voce che l'imperatore si volgeva verso Lombardia, Lodrisio cominciava a sollecitar Marco, perchè volesse metterglisi dietro cogli Alemanni ribelli del Ceruglio, e pigliarlo alle spalle, com'egli stesso avea deliberato da prima: intanto esso Lodrisio avrebbe fatto levar Milano a rumore, e sarebbe uscito ad incontrarlo colle truppe cittadine, avverse tuttavia ad Azzone, e che non volevano a patto veruno ricevere le bande affamate e ladre del falso imperatore. Ma a quel tempo Marco non era ancora a tiro; i soldati ribelli del Ceruglio non eran tanto suoi ch'egli potesse assicurarsi di condurli a combattere contro la propria persona del loro naturale signore; d'altra parte, egli avea già fra mano qualche trattato intorno all'impresa di Lucca, dalla buona riuscita della quale non isperava altro a quel tempo che di cavare una buona somma di danaro da spendere appunto per rendersi sempre più affezionati e obbedienti quei Tedeschi di cui s'era fatto capo.

Ma, come'accade nelle brighe del mondo, scappato quel momento, che tutto parea maturo, momento delicato e sfuggevole e che volea esser côlto al volo, la faccia delle cose s'era venuta mutando; e nuovi casi imprevisti e che non si potevan prevedere, perchè non condotti da nessun umano consiglio, aveano scompigliata in Milano tutta la macchina della congiura.

Quel fervore d'affetto che avea la moltitudine per Marco s'era venuto a poco a poco scemando, dacchè non si spandevano più su di lei le sue larghezze, dacchè non lo vedevan più cavalcare per Milano, come soleva, bello, splendido, cortese, in mezzo a una ricca Corte di cavalieri e di scudieri; non udivan più il romore de' suoi banchetti; più correvano quei suoi motti arguti, che raccolti dai più intimi amici di lui, passavano rapidamente di bocca in bocca, e piacevan tanto alla plebe adulata a scapito dei grandi.

I capi-parte delle città lombarde, che lo favorivano in segreto, s'erano anch'essi scoraggiati dal veder le cose andar tanto per la lunga, senza che si pigliasse un partito; molti poi avean cominciato, fin da un pezzo ancor più in , ad essere malcontenti per certe stranezze alle quali Marco si lasciava ire agevolmente dopo che s'era sprofondato in quella frenesia d'amore, sconosciuta ancora nella sua radice, ma di cui ogni dava in fuori qualche rampollo.

Rimaneva ancora un forte appoggio alla causa di lui negli ecclesiastici mandati dal pontefice Giovanni per favorire i suoi disegni; ma questi pure, quando ebber visto che il loro amico non si movea dal Ceruglio, e che intanto il Bavaro s'avanzava a gran giornate verso Lombardia, sentirono la necessità di appigliarsi a qualche nuovo partito, se non voleano dar perduta affatto in questi paesi la causa della Chiesa, e trovarsi essi tutti fra le mani di Azzone, il quale, offeso intanto che era debole, se ne sarebbe ricordato tosto che si fosse trovato forte della forza del Bavaro.

gli ecclesiastici ebbero a penar gran fatto a trovar questo nuovo partito; che se l'avvenire era scuro per essi, Azzone non lo vedeva punto chiaro nemmen per . Egli aveva inteso che l'imperatore avanzandosi verso Lombardia con un esercito indisciplinato e rivoltoso, colla rabbia addosso ch'era facile supporgli, era fuor dei gangheri principalmente con lui, sì perchè non gli avesse per anco pagate interamente le somme promessegli per l'investitura, e sì perchè sospettava ch'ei fosse d'accordo con Marco per non lasciargli tornare alle bandiere le genti del Ceruglio. Tremava il nuovo signore di Milano, e tremavano i suoi due zii Luchino e Giovanni, di quell'uomo iracondo, avaro, infedele, che avea tradito tutti i ghibellini d'Italia, che gli avea fatti stentar essi medesimi per tanti mesi nei forni di Monza, e non potevano sostenere il pensiero di aversi a trovare un'altra volta in sua balìa.

Con tali disposizioni dovea esser troppo facile un accomodamento:  in fatti Azzone fece i primi passi verso il clero, lasciò correre qualche parola di sommessione, e il clero lo ricevette a braccia aperte. Il primo accordo fu quello di chiarirsi risolutamente contro il Bavaro, e di contrastargli a tutto potere il territorio. Per questo modo il nuovo signore di Milano trovò salute nelle stesse vie che erano state preparate alla sua perdita; perocchè, fatto amico della Chiesa, tutte le forze che da tanto tempo gli si venivan suscitando contro, si trovarono in un tratto fra le sue mani preste alla sua difesa.

Queste cose eran già tutte note a Marco fin da prima: la lettera di Lodrisio l'informava ora come Milano s'andasse fortificando in fretta e in furia per resistere all'imperatore; come Monza, Lodi e molte altre città e molti castelli avessero mandato promettendo di volersi lasciar distruggere dai fondamenti piuttosto che aprirgli le porte; e che, quanto al primo disegno, non c'era per allora da farvi su alcun fondamento, dacchè ormai tutti i partiti s'erano ristretti intorno ad Azzone per resistere al nemico comune: stesse egli sull'ali senza dichiararsi per nessuno, cosicchè, vedendo prevaler le forze dell'imperatore, col ricondurgli le sue bande del Ceruglio potesse farselo amico, ed ottenere da lui il vicariato ch'egli avrebbe tolto senza fallo al nipote in pena della sua ribellione; e se il Bavaro avesse avuto la peggio, si facesse merito col Vicario vincitore, dell'aver distratte le forze del Ceruglio, sì che non gli venissero addosso nelle maggiori strette.

Lo confortava a star di buon animo, chè i loro maneggi non erano scoperti, chè la riconciliazione del clero col Vicario era ben lungi dall'esser piena e sincera; e lo veniva stimolando a tener vive le pratiche col cardinal Bertrando del Poggetto, con Avignone e con Firenze, per aiutarsi, quando che fosse, delle loro forze al ripigliar dei fili allentati sì, ma non rotti, della congiura.

Poi ch'ebbe finito di leggere, Marco gittò dispettosamente quel foglio sul tavolino, dicendo: - E pur sempre infingimenti e doppiezze! a che dura scuola mi vien educando costui... oh! io non era nato per questa vile età!... Pure... - ma senza finir altrimenti la frase incominciata, pigliò ed aperse la lettera d'Azzone. Il nipote Vicario l'informava anch'egli per disteso de' nuovi avvenimenti, gli esponeva le cagioni che l'avean costretto a dichiararsi contro il Bavaro, lo pregava che tenesse occupati i Tedeschi del Ceruglio perchè non venissero a rinforzare il suo nemico; e che avvalorasse de' suoi buoni uffici le offerte d'amistà e d'alleanza fatte a vari comuni di Toscana e di Romagna; in fine gli domandava alcuni avvisi intorno al modo di fortificar Milano.

Le altre lettere di vari signori lombardi eran tutte presso a poco d'un tenore; scuse dell'essersi accostati ad Azzone costretti dalla necessità, proteste di fede alla causa di Marco, più o meno impacciate, e tutte fredde assai più dell'ordinario. Marco sogghignava nel veder quell'avvoltura, quel viluppo di parole e di frasi, sotto le quali i suoi vecchi amici cercavano di nascondere la loro slealtà: egli avea troppa esperienza degli uomini per provarne sdegno o maraviglia. - Mi reputan ben venuto al poco costoro -, diceva in cuor suo: - ma quando mi sapranno signore di Lucca, e le cose di Lombardia siansi schiarite, torneranno a diventarmi buoni e cari. -

Allora fece chiamare il Pelagrua. Questi, che non potea rinvenire dallo stupore d'aver trovato il suo padrone principe d'una sì potente città, quando non s'aspettava che di vederlo alla testa d'una masnada ribelle, in un castellotto di Val di Nievole; entrando nella sala gli si chinava profondamente, e volea cominciar a dire della sua maraviglia, del suo contento; ma il Visconte gli ruppe le parole in bocca domandandogli: - Hai tu veduto Lodrisio prima di partire?

- Sì, mi diede egli stesso le lettere che vi ho recate.

- E in che termini si trova egli col Vicario?

- In quelli ch'ei vuole: è tutto cosa sua: pensate voi, è a lui che sono state affidate le fortificazioni al ponte dell'Archetto, che, per quel che dicono, è il lato più importante della città.

- Dunque i Milanesi sono risoluti di mostrar il viso davvero?

- Il viso e i denti, e fan di buono.

- Dimmi un po', come stiamo ad armi?

- Si sono spazzate tutte le botteghe degli armaiuoli; giorno e notte si lavora a far picche ed aste; presto poi doveano essere in ordine sedici manganelle, otto petriere grosse, non so dir quante stondegarde, e quanti battifredi; si stanno fortificando i bastioni e vi si piantano nove grosse torri di legname; ogni porta ha spiegata la sua bandiera: al toccar della campana grossa della Signoria, tutti quelli che possono portar l'armi devono accorrere al loro rione, e in manco d'un'ora quarantamila combattenti sono sulle mura.

Marco a queste parole si sentiva tutto infiammato, gli scintillavano gli occhi, gli rideva il volto di gioia e di coraggio. Egli sapeva meglio d'ogn'altro che quella uniformità di voleri, quello stesso fuoco che animava egualmente tutti i cittadini, avrebbe (se qualche cosa potea pur farlo) dato fondamento alla popolarità del Vicario, e disordinato sempre più la trama ch'egli preparava da tanto tempo con sì ostinata sollecitudine; ma il pregio del suo paese natìo, l'onore della sua dolce Milano, andava innanzi ad ogni cosa.

- Senti, - parlò egli al suo castellano: - dirai a Lodrisio, già glielo scriverò, ma diglielo non di manco, che badi a rinforzare i bastioni di Porta Ticinese, dove sono i mulini presso al Tesinello, affinchè la città non abbia a mancar di pane; che faccia chiudere e ingorgare le acque tanto che passino sopra al ponte di Sant'Eustorgio; e tu fa che il mio castello di Rosate si trovi preparato a sostenere un assalto, se mai venisse il ticchio al Bavaro di bazzicarvi d'intorno.

- Dunque, rispondeva il Pelagrua esitando, - volete dichiararvi a viso scoperto?... Lodrisio m'avea raccomandato che vi dicessi anche a voce...

- Non ho chiesto consigli a Lodrisio, e manco a te, - disse Marco con volto severo. - Mando gli ordini nelle mie terre della Martesana e di Castel Seprio che forniscano Rosate d'uomini e di vettovaglia: il Pelavicino ne comanderà la gente, tu intenderai alle grasce: e mettetevelo ben nella memoria tutt'e due, guai se il cortile del mio castello vede la faccia d'un soldato del Bavaro, finchè dieci dei nostri ponno star in piedi, finchè rimangono da rosicchiare le ossa dell'ultima rozza delle mie stalle.

Il castellano si affrettò a rispondere che non avrebbe mancato a tutto quel che gli era imposto: allora il signore gli fece segno d'andarsene, e quei se n'andava; ma non era giunto all'uscio, che Marco pentitosi lo richiamò, dicendo:

- E che novelle mi dài di Ottorino?

- Dal che ebbe da voi quella solenne tentennata, non s'è più veduto in Milano: per altro so di buon luogo, ch'ei s'è fatto portare al suo forte di Castelletto, dove penò ben quindici o venti giorni a sanare: adesso correva voce che fosse ito incontro al Bavaro, per porsi al suo soldo.

- Non è vero! - disse Marco risolutamente.

- Pure ve n'ha degli altri, - rispondeva con sommissione il Pelagrua, - ve n'ha degli altri Milanesi che sono passati dalla banda dell'imperatore, v'è Giacobino da Landriano, e Uberto Bregondio, e Marino Bescapè, e...

- Quanti vuoi, ma Ottorino no; codesto è un carico che gli vien dato, è una calunnia infame!

Il castellano non s'arrischiò di replicar parola; Marco dopo un momento gli domandava con più calma:

- E il conte del Balzo è egli tuttavia a Milano?

- È a Milano: voleva ben egli battersela a Limonta tosto che usciron le prime voci dell'avvicinarsi del Bavaro, e del pericolo d'un assedio; ma venne fuori un bando che nessuno potesse abbandonar la città; si temette che coll'andarsene de' signori il popolo non avesse a scoraggiarsi.

- E dunque Ottorino, - tornava a dir Marco, - non l'ha più veduta quella casa?

- Dal della giostra in poi potete star sicuro che non vi ha messo piede: vi dirò, che per adempire agli ordini che m'avete lasciati, mi sono guadagnato uno scudiere del Conte; mi costa un occhio del capo il briccone, ma via, mi serve poi da amico, e non si volge sossopra una mano in quella casa che io nol risappia un'ora dopo.

Marco non rispose, e il mariuolo tirava innanzi: - Se però voleste assicurarvene un tratto... e pigliarvi una soddisfazione... potete fidarvi di me... so come vanno manipolati certi intingoli ... E anche Lodrisio m'avea giusto incaricato di dirvi ... che la vostra rottura con Ottorino non può a manco di tenerlo in sospetto... che insomma quel giovane... sa troppe cose... è troppo pericoloso... e bisognerebbe... farlo tacere.

Il Visconte, che s'accorse dove andava a parar quella velenosa insinuazione, rispose con un freddo sorriso: - Dirai a Lodrisio che dorma tranquilli i suoi sonni, che Ottorino lo conosco, ed entro io mallevadore della sua fedeltà in ogni tempo, in ogni fortuna. Egli può odiarmi, può volermi morto... ma tradirmi... tradirmi no.

- Oh non è ch'io... diceva solo... del resto, mi guarderei bene dal torcergli un capello.

- Sì, guardatene, - rispose Marco, e tacque per un momento, esitando, come quegli cui premeva pure di tirare ad altro il discorso, e non sapea da che parte farsi per non lasciar intendere dov'ei volesse riuscire. Finalmente scappò fuori di secco in secco con questa domanda:

- E che cosa si è detto in Milano del cavaliere sconosciuto che scavalcò Ottorino?

- Se ne son dette tante! chi voleva che fosse il figlio del Ruscone, chi un cavaliere del re Roberto; ma egli, il giovane ferito, tosto che fu tornato nel sentimento, ebbe a dir con certi suoi amici, che non v'era in Italia altri che voi da poter far un colpo come quello.

- Ma non gli fu guasta la persona? n'è ben rinfrancato, è vero? - domandò premurosamente il Visconte.

- Non gli è pur rimasto uno sfregio; tutto lesto e fiorito come prima; tanto che per questo lato la figliuola del Conte non avrebbe a scapitarne...

- E che è di lei? - interruppe Marco.

- Di chi?

- Di Bi... di quella che dicevi, della figliuola del Conte.

- Ecco qui, dopo la giostra, per quattro o cinque giorni fu all'olio santo, più di che di qua; poi cominciò a riavere il fiato; e il padre e la madre, che vanno pazzi del fatto suo, a starle d'attorno, a covarla, a farle mille moine; tanto che, tra il lasciami stare e il non voglio, l'han tornata nell'esser di prima; adesso fa ancora un po' della fastidiosa, le solite leziosaggini delle fanciulle viziate; ma non è nulla. -

Il Visconte, all'udire il suo servitore parlare con quell'aria beffarda d'una creatura, alla quale egli non volgea mai l'animo senza esser preso da un brivido riverente, non potè più contenersi, e levando la voce esclamò: - Bada di chi parli e a cui, paltoniere sfacciato! o per la vera croce! ch'io ti darò tal ricordo che n'avrai a portar il segno finchè il capo ti duri sulle spalle. - Il dir questo e l'accennargli l'uscio con una mano, e il metterlo fuori, fu tutt'una: il Pelagrua balbettando qualche parola di scusa se n'andò via come un cane scottato, e aspettando che il padrone lo facesse chiamare un'altra volta per congedarlo, si mise ad almanaccare su quelle parole, su quello sdegno.

Egli avea sempre creduto, al par degli altri, che Marco non vedesse in Bice che un impedimento al parentado d'Ottorino colla figlia del Ruscone; sapea che quel parentado era voluto da lui, e conoscendo la sua natura, non gli poteva parere strano quanto di più rovinoso avesse tentato mai per una picca in che fosse entrato. Allorchè lo vide combattere contra il suo cugino (e il castellano era il solo a parte del segreto, chè il Visconte s'era servito di lui per aver chi lo provvedesse del morione, e chi gli trovasse uno scudiero sconosciuto in quei dintorni), avvisò che quella non fosse altro che una sua vendetta dell'avergli il giovane falsata la parola. Quando Marco, prima di partire, gli ordinò di vegliare sopra Ottorino, se mai praticasse in casa del conte del Balzo, il Pelagrua non entrò in nessun sospetto, non fece altro pensiero; e però egli era ben lontano dall'immaginarsi ora l'impressione che faceva il suo discorso sull'animo del padrone. Ma quell'ira improvvisa fu come un lampo che gli rischiarò in un tratto la mente: ei vide che ci dovea esser mistero sotto; cominciò a pensare che Marco potesse esser preso egli medesimo della fanciulla, di cui si mostrava così tenero e permaloso, corse colla mente a tutte le faccende passate che gli eran parse un po' ardue da spiegarsi; e con quella nuova indicazione tutto gli diventò agevole e piano.

Marco, come fu solo, si pose al tavolino, scrisse cinque o sei lettere, e poi fece chiamare novamente il suo castellano al quale le consegnò, dandogli varie istruzioni intorno al modo di ricapitarle; gli parlò ancora del suo castello di Rosate e delle difese da apparecchiarvi; e poi gli disse: - Quanto ad Ottorino tengo per fermo ch'ei non si lascerà vedere in Milano, e che, se anche ci capitasse mai, il conte del Balzo non lo accetterà in casa sua: ad ogni modo gli terrai l'occhio addosso, come hai fatto fin qui; e accadendo qualche novità, avvisamene tosto.

- Lo farò, - rispose il Pelagrua, - ma se venissi a scoprire... già, a quel che si dice, la fanciulla gli deve essere stata già promessa... e un par di nozze son presto fatte... ancorchè il padre...

- Impedirle, - disse Marco.

- Ma come? perchè se...

- In ogni modo, - ritornò a dir Marco, - impedirle, regolarsi secondo le cose, e ragguagliarmi tosto; - e ciò detto, lo congedò.

Il Pelagrua uscì; ma nell'andarsene volse alla sfuggita uno sguardo indagatore al volto del suo padrone, sul quale compariva un turbamento tanto più visibile quanto maggiore era lo sforzo ch'ei facea per nasconderlo.

- T'ho capito: e sono a casa -, disse allora in cuor suo il mariuolo: scese nel cortile, montò a cavallo, e facendo scoppiar la frusta uscì del palazzo, e s'avviò verso Lombardia.

Soletto, di notte, galoppando galoppando, quel tristo veniva discorrendola tra :

- Oh non v'ha dubbio! ci giocherei un occhio del capo... adesso l'ho trovato il bandolo di tutta quella matassa che mi parea tanto arruffata; adesso capisco..., e quando mi capitò a Rosate tutto sconcio e fuor di come un matto, e quando voleva partire per la Toscana, e poi no e poi sì; e che si mise in cammino, e poi tornò indietro... già dello stravagante n'ha sempre avuto, ma diavolo! era troppo poi!... Poverino eh?... e non è però un fanciullo che abbia levato ieri il capo dal grembo della mamma... E se fosse di dire almanco: ell'è una gran principessa, una regina di corona; se fosse di dire, è un occhio di sole; ma no, intrabescarsi, andarsi a imbertonare a quel modo d'una donzelletta, che, non dirò ch'ella abbia il viso vôlto di dietro... Sì, è bella, ma capitale! ve n'ha delle meglio di lei; e poi, una schifa superbetta, e quel che è peggio, quel che colma lo staio, cotta fradicia, spolpata d'un'altro... Oh mi vien pur da ridere... quell'omone! Marco Visconti! non si va più in su, si crederebbe che dovesse esser fatto d'un'altra pasta... e cascarci a occhi chiusi, e dare in tali bambolaggini?... Va , sta in sul tirato, gonfiati, leva le corna, e questo fusto ch'è qui, cui nessuno bada più che ad un cane, adesso col filo che gli hai dato in mano ti farà volger come gli torna... Oh l'ha da esser la mia fortuna codesta, l'ha da essere... Cospetto, e come se l'era presa per quella frasca! - Bada di chi parli!... - Poveri uomini grandi, come siete piccoli!».

Eccitò colla voce il cavallo che intanto aveva allentato il galoppo, toccollo cogli sproni, e si rimise sulle fantasie di prima. - Quello che non mi può entrare, che mi farebbe buttar via, si è come non sia montato in bestia affatto, ed abbia potuto serbar misura con quello scavezzacollo che gli ha levata su la sninfia. A veder che gli balza la palla in mano, e può torselo d'addosso con una parola; e no, bisogna che ne pigli egli stesso le difese, e che salti negli occhi a chi gli si esibisce per fargli servigio... Quanto a Lodrisio, non è minchione lui, è carità pelosa la sua: gli saprebbe buono lo sbrigarsi del cugino per poter, fra le altre cose, entrar ne' suoi beni di Castelletto, ma vorrebbe porre la manifattura in collo all'amico; sì ch'io non l'intendo la ragia! l'intendo benissimo, l'intendo... Ma quest'altro qui, che gli fa a lui? quando se lo può levar dinanzi, che vuol di più?... Via, è pazzo l'uomo, pazzo, pazzo tre volte... Non vuole che se gli torca un capello! guardarsene bene! ma le nozze impedirle!... Bravo, vi son servitore! e se i due innamorati saran per darsi la mano, io entrerò loro in mezzo per ispartirli eh? e dirò, signori miei, state indietro, un po' più discosti, chè il mio padrone non vuole!... Oh! con Lodrisio è tutt'altra faccenda! diritto per la sua via, senza tante frasche, e zara a chi tocca... Egli vuol pur ridere quando gli dirò di codesti amori. Basta, piglierò lingua da lui, chè in ogni caso voglio aver franche le spalle. -

Intanto che il castellano di Rosate faceva tali conti addosso al padrone, questi, che s'era coricato, ma non potea pigliar sonno, precorrendo coll'immaginazione il suo servitore, il quale galoppava verso Milano, già stava in mezzo a quella sua cara città, e gli pareva ora d'esser nel palazzo del Vicario, e conferir con lui e coi fratelli le cose dell'assedio, ora di scorrere per le vie e per le piazze, e visitar gli arsenali e le maestranze, e veder macchine ed armi, e incoraggiare colla voce e coll'esempio i cittadini alla difesa delle mura. Ma dietro quelle immagini scorrenti e variate di luoghi, di cose, di persone, una ve n'avea che gli durava fissa, immobile, pertinace; sotto ai moltiplici commovimenti che gli si venivan successivamente destando nel cuore, vi perseverava un senso profondo che ne occupava il più intimo; un senso or più or men distinto, velato qualche volta dagli altri affetti, ma fuso però sempre insieme con essi, e dante a tutti tempera e modo; un senso che era in quel trambustìo, dirò così, come il basso continuo in una sinfonia d'organo.

 

 




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