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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XXI
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CAPITOLO XXI

 

Il Conte assegnò al pievano di Limonta una camera a parte, e volle che sedesse ogni giorno alla sua mensa: chiamò pure in famiglia la moglie del barcaiuolo, la nostra Marta, la quale fu allogata nel quartiere occupato da Ambrogio, dov'ella accudiva alle faccende della casa in compagnia di quattro o cinque altre donne fatte venire apposta per quella straordinaria manifattura di rizzare ed acconciar letti, far bucati, cuocer minestre, rigovernare stoviglie per tanta gente.

La povera donna, in mezzo a quel gran da fare, era sempre col pensiero fra le sue montagne, non le si toglieva mai dalla mente il piano limpido e vasto del lago, la striscia argentina, serpeggiante fra i massi, del fiumicello, ch'era solita mirare da una finestra: ogni mattina destandosi si figurava di trovarsi nella sua capanna, di veder quelle brune sue muraglie, il desco che vi sorgeva nel mezzo, quei remi coricati per terra, quelle seggiole, quel letticciuolo... e insieme a tutte quelle care e pur dolorose memorie, un'altra ne sorgea mai sempre, più cara, più dolorosa di tutte: dolorosa ahi troppo! assiduamente, indicibilmente dolorosa al cuore d'una madre; ma non era più quello spasimo, quel coltello dei primi giorni: il tempo, l'umile confidenza nel Signore, aveano sparso qualche balsamo sulla sua ferita; il trovarsi ora la poveretta vicina al suo Michele, dopo d'aver palpitato in segreto d'esserne divisa, il potergli prestare ella di sua mano i servigi consueti, l'adoprarsi che faceva anche per gli altri suoi compatriotti, colla pia persuasione di concorrere anch'ella, come poteva, alla difesa del proprio paese e della fede; tutto questo le dava un certo riposo al cuore, nuovo, nuovo affatto dopo il tremendo giorno della sua disgrazia: essa trovava pure nella faccenda di tutto il giorno, sentiva, dirò così, uscir dalla fatica, dalla stanchezza medesima delle membra, un ristoro inusato, una tal quale placida malinconia che avea pure qualche dolcezza: pregava, e la sua preghiera era più molle, più affettuosa; piangeva, e il pianto non era arido come prima; le lagrime le scorreano placide ed abbondanti, e parea che le togliessero un peso dal cuore. che la ristorassero tutta quanta.

La buona vecchia si strinse tosto in molta dimestichezza colla famiglia del falconiere: Marianna, Ambrogio, Lupo e Lauretta le avean posto amore, e la riguardavano come una parente, ed ella non restando mai dal trafficare per casa per ammannire, per governare, per dar sesto dove bisognava, parlava pur sempre delle sue montagne, del suo lago.

Solo con Bernardo non potè mai dirsela: quel lasagnone non aveva rimesso un punto della sua caparbietà nel favorire il Bavaro e l'antipapa; non usciva di casa per non rischiare di farsi rompere il capo in grazia di quelle dottrine che non eran più all'usanza, ma nell'interno della famiglia non restava mai di borbottare, di tempestare, di tribolare or questo or quello, e l'ospite limontina non era risparmiata più degli altri nelle sue ire dottrinali, nelle sue scismatiche fantasticaggini.

Intanto giugnevano le novelle dell'esercito del Bavaro che veniva innanzi: erano due, tre, quattromila barbute; e un numero infinito di pedoni: Cane della Scala mandava in suo aiuto quattrocento militi; molti signori ghibellini di varie città di Lombardia, molte fra le più potenti famiglie di Milano stessa aveano levato lo stendardo, ed accorrevano coi loro vassalli in aiuto dell'imperatore: le sue forze erano enormi, gli apparecchi per l'assalto spaventosi.

Fu allora che giunse da Lucca il Pelagrua, e, conferito segretamente con Lodrisio, corse a munire il castello di Rosate: poco dopo arrivò un altro corriere con lettere pel Vicario, e si sparse la novella che Marco era signore di Lucca e del suo territorio. La festa che se ne fece in Milano è più facile immaginarsela che descriverla; si tenea per fermo che quel singolare avvenimento fosse l'effetto di una trama ordita di lunga mano coi guelfì di Toscana affine di pigliar il falso imperatore nel mezzo; e questa opinione giovò ad accrescere sempre più la confidenza e il coraggio de' Milanesi.

Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, giungono da Monza gli avvisi che il Bavaro v'era giunto dinanzi, e che gli erano state chiuse le porte in faccia: si esercitano giorno e notte le sentinelle e le ronde, sono disposti esploratori e drappelli di truppa di luogo in luogo, giorno e notte si lavora a furia a compier le macchine e le fortificazioni: vengono oggi, vengon domani; ed ecco il ventun di maggio comparir da lontano gli stendardi imperiali; ecco una infinità d'uomini e di cavalli, un traino maraviglioso di carriaggi e di salmerie.

In quel tempo Milano era compresa entro il giro d'una fossa stata già scavata più d'un secolo e mezzo prima, per fortificar la città contra Federico Barbarossa, che è la fossa medesima nella quale, molto tempo dopo quello in cui ci troviamo colla nostra storia, vennero introdotte delle acque navigabili, e prese il nome di Naviglio. Dove al d'oggi sono i ponti, allora, voglio dire nel 1329, erano le porte principali e le postierle della città.

L'imperatore pose dapprima il campo al ponte dell'Archetto, poscia si avanzò verso la postierla di SantAmbrogio, ed egli colla sua corte prese ad abitare il monastero di San Vittore, che rimaneva fuori del recinto della città, giusto dirimpetto alla detta postierla. I Milanesi assediati vedevano nella notte risplendere di molti lumi quel vasto edifizio, udivano il rumor dei banchetti che il Bavaro vi tenea, e s'ingegnavano di gettarvi dentro qualche sasso col mezzo d'una petriera che avean piantata sulla cima di quella torre che sorge ancora a canto al ponte di Sant'Ambrogio, gridando quanto ne usciva loro dalla gola queste strane parole conservate dal Fiamma, o glabrione ebriose, bibe, bibe, ho, ho, babii, babo3.

Il maggiore sforzo dell'imperatore in quell'assedio fu diretto contra il borgo di Porta Ticinese, sperando che, ove gli venisse fatto d'impadronirsi dei molini che ivi eran fabbricati, la città sarebbe stata costretta ad arrendersi per la fame; ma quella parte, per avviso appunto di Marco, era stata fortificata più d'ogni altra: vi seguirono molti fatti d'arme, e i nostri, non che ne potessero mai venire sloggiati, ottennero sempre vantaggio sugli assalitori4.

L'assedio durava da più d'un mese, quando fu dato avviso a Lupo da certi capitani, che la notte sarebber entrate dalla postierla d'Algiso alcune vettovaglie di che la città cominciava a provar difetto: stesse egli sull'avviso di far calare il ponte tosto che ne avesse i segnali concertati. Lupo era stato creato capo dei Limontini, e posto a guardia di quella postierla, dacchè le lance del monastero di Sant'Ambrogio erano state levate di e messe in una torre appunto nel borgo di Porta Ticinese, dov'era maggior bisogno di gente disciplinata e avvezza al mestiere dell'armi.

Vien la notte: i nostri montanari erano sparsi lungo il terrapieno che tirava verso Porta Comasina; Lupo stava in cima della torre a canto della postierla guardando; dopo molto aspettare vide finalmente comparire un lume sul campanile del convento di San Simpliciano: era il segnale inteso, al quale s'affrettò di rispondere schiudendo una lanterna cieca, e posandola per un momento fra due merli della torre; ciò fatto, cala giù nell'altro piano ove dormiva Ambrogio suo padre, Michele il barcaiuolo, e quattro altri Limontini, e dice loro: - Su, che siamo a tempo. - I chiamati si levano, corrono alle feritoie, stanno in orecchi: tutto tace da quella banda, e non s'ode che il rumor dei passi di due sentinelle che vegghiavano al basso della torre. Di a qualche tempo si fa sentire un fragor sordo che viene innanzi, è un fragor di ruote e di cavalli.

- Diavolo! - disse Lupo, - par che sia un carro.

- È un carro senza dubbio, - rispose Ambrogio.

- Che animali di villani! - riprese Lupo, - c'era mo necessità di venir con un carro e far tanto fracasso? non potevan portarla a spalle la roba? o alla peggio caricarne dei muli?

L'aria era buia, sicchè la vista non potea tirare più d'un venti passi: un uomo s'avanza sull'orlo della fossa, batte tre volte le mani con una certa misura, e dice: - Sant'Ambrogio.

- Per chi? - gli domandò Lupo.

- Per Luchino e pel paese, - replicò il primo.

- Il segnale è quello; - disse sommessamente il figlio del falconiere, e levando poi la voce un po' più: - Perchè venir con un carro e rischiare di farsi cogliere dalle ronde tedesche?

- È fieno per le stalle del Conte, - rispose ancora quel da basso.

Fu calato il ponte levatoio e quattro cavalli che tiravano un carro di fieno vennero innanzi fin sotto l'arcone, tanto che la prima coppia toccava col muso la saracinesca abbassata: ad una voce del capo dei Limontini la saracinesca alzossi, e scorrendo fragorosa e sonante fra le scanalature dei due pilastri incapati di fianco, s'andò a nascondere su per la volta: allora l'uomo che guidava il carro fece fare alcuni passi ai cavalli, poi gli arrestò con non so che scusa. - Innanzi! - gli gridò Lupo; ma quegli invece di obbedire diede un fischio, e una frotta di soldati, uscendo di dietro la chiesa di San Marco dov'erano appiattati, corsero di galoppo a quella volta.

- Giù il cancello! giù il cancello! - gridò Lupo. Si levano i contrappesi, la saracinesca piomba, ma nel cadere incontra il carro di fieno che v'era sotto, e riman sospesa in alto. - Leva il ponte! - Non si può più levare; v'è al di fuori chi lo tien giù con funi e puntelli.

- Tradimento! tradimento! Ambrogio, Michele, Limontini, tradimento!

Il guardiano della torre mette a bocca un corno, e chiama soccorso; gli sparsi lungo lo steccato accorrono da tutte le bande: le due sentinelle, il falconiere, il barcaiuolo, quattro o cinque altri, si mettono tosto al lati del carro, e menando colpi alla cieca riescono a tener indietro alcuni pedoni che facean forza d'entrare: nello stesso momento Lupo balza addosso ai cavalli attaccati al carro e li tempesta col tronco d'un'asta, e li ferisce colla punta, e gli inanima e gli spaventa colla voce: quelli puntando, facendo arco delle schiene, piegandosi colla pancia per terra, giungono a smovere tanto o quanto il carico ad onta della resistenza che vi opponevano le enormi barre di ferro affondate nel fieno che avea acconsentito al peso: gridò ben egli, il figlio del falconiere, due o tre volte ancora, che si sollevasse il cancello per un momento tanto da poter dispacciare il carro che passasse innanzi; ma in quella confusione, in quel parapiglia, con quel baccano, la sua voce non fu intesa. Intanto i cavalli alamanni giungono a furia, il ponte risuona sotto le zampe ferrate, già alcuni son penetrati sotto la vôlta, dov'è un buio, uno scompiglio, un gridare, un ricambiar di colpi spaventoso: se non che in mezzo a quel fracasso si distingue ad un tratto un fragore di ferriere scorrenti, quindi s'innalza uno strido acutissimo di dolore. Un ultimo sforzo avea in quel punto liberato il carro di sotto al peso che lo teneva impacciato, e la saracinesca cadendo era venuta addosso ad una barbuta alamanna che vi si trovava sotto.

Comparvero alcune fiaccole a rischiarare quella scena di terrore: cinque o sei cavalieri tedeschi, che erano già trascorsi oltre, vennero uccisi dai nostri, e sotto l'arco del ponte si cominciò un accanito combattimento fra quei di fuori che a forza di leve volevano rialzare la saracinesca e quei di dentro che facevano ogni sforzo per impedirli: ferivansi gli uni e gli altri a furore con picche e spiedi e zagaglie, che si vibravano fra i bastoni ripigliati dall'enorme cancello che divideva le due parti; ma gli Alamanni avean la peggio, impediti, com'erano, dagli spuntoni di che dalla loro banda erano armate le traverse, spuntoni sui quali venivano spesso a percuotere e ad infilzarsi sospinti uomini e cavalli.

Lupo vide sulla via di San Marco una nuova frotta di nemici accorrere a rinfrescare la pugna; ordinò ad alcuni dei suoi, che giugnevano intanto da tutte le bande, che salendo sulla torre vi facessero giocare una manganella: fra pochi momenti cominciò a venir dall'alto una tempesta di pietre; cominciò dalle feritoie a volar un nembo di saette, e gli Alamanni ebber di grazia d'abbandonar l'impresa, e di darla a gambe.

Levato il ponte, chè non v'era più chi lo impedisse, e tornato tutto quieto, si venne per calare affatto la saracinesca, e vi trovaron sotto un bel cavallo baio d'Ungheria preso insieme col suo padrone. Il cavallo, a cui quello smisurato peso era caduto sul fil delle reni, avea fracassato le gambe di dietro; il soldato vi era tenuto per un piede, e tutt'e due si divinghiavano e facevan forza per uscir di sotto a quel pondo doloroso. Il povero animale, schiacciato contro terra le parti deretane, colle orecchie aguzze e la criniera ritta sul collo, cogli occhi infocati, che gli volevano schizzar fuori dalla testa, colle narici spalancate, alzava il capo di tanto in tanto, e voleva levarsi sulle zampe dinanzi che stendeva in fuori e ritraeva contro al petto, curvandole e raspando ferocemente; mordeva quanti se gli avvicinavano, e metteva un ringhio di dolore: l'uomo con un piè rotto fra le gambe rotte del cavallo e la saracinesca addosso, ad ogni prova che l'animale facea per aiutarsi veniva scosso e trabalzato con indicibile strazio: si scontorceva, si aggrappava, ed ora levandosi s'un ginocchio e giungendo le mani pregava nel suo tedesco che gli donasser la vita per amor di Dio, ora ricogliendo da terra la spada, la brandiva ferocemente, e così impedito, così malconcio come era, mostrava pure di non volersi lasciar uccidere senza difesa. Veduto in quell'atto al chiarore delle faci, col volto tutto ispido di peli che tiravano al rosso, cogli occhi grigi scintillanti, stralunati, pieni di rabbia, di spasimo e di paura, parea un lupo preso nella tagliuola nel momento che il pastore gli vien addosso col bastone levato per dargli sul capo.

I nostri montanari ebbero compassione di lui, e cavatolo di sotto alla trappola, lo portarono in casa, dove fu curato dalla vecchia Marta che s'impicciava di racconciare ossa slogate e rotte, ed era tenuta in Limonta per la più gran medichessa. La povera donna, nella semplicità del suo cuore, non credette di peccare contro la carità del prossimo esercitandola verso un nemico, il quale, dal momento che non potea più nuocere, tornava a diventar prossimo anche lui.

Quella stessa notte, poco più d'un'ora dopo il vano tentativo fatto dai Tedeschi, il Pelagrua, avvolto in un mantello bigio col cappuccio sugli occhi, e sotto panno tutto armato di ferro, comparve in casa di Lodrisio Visconti, di cui trovò la porta socchiusa; entrovvi, e, riconosciuto da alcuni soldati che vi stavan di guardia, passò in una sala dove gli venne incontro il padrone, il quale lo stava aspettando con aria inquieta.

- Solo? a quest'ora? - disse Lodrisio, - e così, com'è andata?

- Il diavolo mi porti e venga il vermocane a tutti quei maledetti montanari! - rispose il Pelagrua sbarazzandosi dal mantello.

- Che! ti sarebbe fallito il colpo?

- Tutto alla peggio.

- Ah poltron traditore! - gridò il cavaliere andandogli colle pugna sul viso, - non so chi mi tenga ch'io non ti sconci colle mie mani quel po' d'effigie di cristiano che hai su quel muso da fariseo.

- Sentite, - diceva il Pelagrua, senza mostrare d'essere gran fatto spaventato da quell'ira, - da me non è mancato: la fu in grazia di quella forca di Lupo, quello scudiere d'Ottorino, che conoscete; non m'ha dato tempo di staccare i cavalli, ed ebbi di buono di potergli scappare dalle unghie, e venir qui a darvene l'avviso.

- E qualcheduno t'avrà riconosciuto.

- No, chè avea il cappuccio sugli occhi, e poi non ci si vedeva.

- E i Tedeschi?

- Furono cacciati indietro.

- Da un branco di villani côlti alla sprovveduta? com'è possibile?

Qui il castellano di Rosate si fece a narrargli per filo e per segno tutta la faccenda com'era ita.

L'altro, al racconto della brava difesa fatta dai Limontini, sentiva nascersi quella stizza che prova un uccellatore contro i tordi che scappano dalla ragna e sono così ribaldi da non volersi lasciare schiacciar il capo per dargli gusto: - Canaglia! - sclamava, - birboni! ma sono stato io il goffo, io, che ho affidato tanto negozio ad un poltrone: sono stato io, e mi sta il dovere: or va che ti sei giuocata la tua fortuna. S'io diventava signore di Milano, non t'avrebbe fatto freddo mai più, e tu non saresti morto castellano di Marco.

- Quanto a questo, poteva rischiare di farmi impiccare più alla spedita castellano del mio, - rispose freddamente il mariuolo; - ma che vale? già lo sapeva, che chi non risica non rosica, e però non mi sono risparmiato, e da me, come vi diceva, non è rimasto. Pensate voi, fra le altre cose ci avrei avuta tanta soddisfazione di poter sonarla a que' montanari birboni che mi vollero far quel mal giuoco a Limonta, e fu in grazia loro che ho dovuto sbrattar il paese dove stava a tutto agio e consolazione meglio d'un principe.

Lodrisio si batteva la fronte con una palma, e andava ripetendo: - Mandarmi fallito un simil colpo! rovinarmi di siffatta ragione!

- Quanto v'ha di bene, - seguitava il Pelagrua, - si è che nessuno sospetta di noi: la pratica è stata menata così sottilmente, per vie così coperte, per tali avvolgimenti, che... basta, non perchè ci abbia, avuto mano io, ma sfido il diavolo a trovarne il bandolo. Il pericolo l'ho corso io tutto quanto, e voi...

- Sta a vedere, scimunito doloroso! - gridò Lodrisio interrompendolo, - che t'avrò anche a rifare i danni, e vorrai che abbia ad appiccare un voto perchè cadendo non mi sono scavezzato che le gambe, quando mi poteva anche fiaccare il collo. Via, levamiti dinanzi: domani sera uscirai per tornare al tuo castello di Rosate, che maladetto sia il momento che te n'ho cavato! Intanto fa di spiare intorno che cosa si pensi della faccenda di questa notte; prima di partire me ne avviserai: va, che alla prova mi sei riuscito un dappoco. Non mi resta più a dirti che una cosa: bada che non t'esca motto di tutto quello che è corso fra noi, o meglio per te se ti cascasse la lingua.

- Quanto a questo, - rispose il Pelagrua, - dormite pure a occhi chiusi, gli è come se aveste parlato con quel muro colà: acqua in bocca, e non vi ho pur veduto.

Partito il castellano di Rosate, Lodrisio rimase solo a digerire la rabbia che quel contrattempo gli avea messa in corpo. Egli avea conosciuto il Pelagrua a Rosate, poco tempo prima che Marco partisse pel Ceruglio, e, come si dice che i sangui s'affrontano, s'eran tosto accozzati, già s'intende, senza che nessuno uscisse del grado suo, l'uno come patrono, l'altro come cliente: diventati in un tratto carne e unghia, anima e cuore, s'erano accordati di aiutare a tutta possa le macchinazioni di Marco, avendo collocata ogni loro speranza d'ingrandimento nella riuscita di quelle. Ma quando il castellano recò di Toscana la novella che Marco era stato eletto signore di Lucca, i mariuoli si trovarono sconcertati, tenendo per sicuro che, occupato egli di quelle nuove faccende, contento di quanto si trovava in mano, non avrebbe più oltre voluto commettersi nelle cose di qui, dove tutto da qualche tempo parea andargli per la mala via, e però pensarono di provvedere essi stessi al fatto loro, afferrando la prima occasione che si fosse offerta. La occasione non tardò a venire: il Bavaro, disperando di ottener Milano colla forza dell'armi, si dispose d'averla per tradimento: poich'ebbe indarno sollecitati vari capitani, con larghe promesse di danaro, di titoli e dignità, si rivolse a Lodrisio, già riconosciuto per uno spirito turbolento e ambizioso, come quello che avea più volte fallita la fede ai Torriani e ai Visconti, e gli promise niente meno che la signoria di questa città, se gli bastava l'animo di dargliela in mano. Il tristaccio pigliò subito il boccone, fece intendere la briga al Pelagrua, e questi uscito del castello di Rosate, manipolò tutto quel rigiro che andò poi a finire nella sconciatura che abbiam riferito di sopra.

Ora Lodrisio pensava dolorosamente al superbo edifizio che si vedea cader dinanzi, pensava al mal partito a che si trovava ridotto.

Col Bavaro, mancato quel colpo, non vi poteva esser più altro appicco: le sue bande tedesche scoraggiate, tribolate dalle sortite frequenti dei nostri, si tenevano insieme a gran pena; lo sforzo d'Italia (così si chiamavano i collegati) mancante di paghe e di foraggi, tradito, malmenato, abbandonava alla spicciolata il campo; e ben si vedeva che presto l'imperatore sarebbe stato costretto a levar l'assedio e a tornarsene a casa per la più corta: con Azzone non poteva sperare di far bene i fatti suoi, ch'egli capiva d'essergli sospetto, sebbene ne ricevesse ogni giorno un mondo di carezze. Da che parte voltarsi dunque? a che tavola dar di piglio nel suo naufragio?

Allorchè il Pelagrua, insieme colla novella del principato di Lucca ottenuto dal suo padrone; avea recata a Lodrisio l'altra non meno strana dell'amore di Marco per la figliuola del conte del Balzo, Lodrisio avea subito intraveduto in quell'amore un filo per tener il Visconte attaccato alle cose di qui; in seguito poi, i trattati intavolati col Bavaro, che dovean portarlo ad un'altezza a cui ne' sogni della sua superbia non era pur mai prima d'allora salito, gli avean fatto svanire quel pensiero, come allo spalancarsi delle finestre la luce ampia e diffusa del giorno confonde e manda in dileguo lo scarso chiarore d'un povero lumicino che arde in una cameretta; ma in quella guisa appunto che se le finestre si richiudono, quel povero lumicino torna a farsi vivo e a parer buono, così, poichè ogni altro consiglio fu spento nella fantasia dell'ambizioso, si riaccese e ravvivò quella prima quantunque tenue e lontana speranza.

Che un capriccio di femmina (così egli qualificava l'amor di Marco per Bice) potesse tanto sul cuore dell'amico da condurlo al rischio di giocarsi una signoria, come quella che si trovava in mano, non era pensiero che potesse pur cadere per un momento in un'animo della tempra di quello di Lodrisio. Questo no: ma quel capriccio, diceva egli, potrà tenergli viva, stuzzicargli in cuore l'immagine d'un'altra signoria un tantin più ghiotta che non quella di Lucca, d'una signoria vagheggiata, sospirata da lui per tanto tempo. Un picciol peso non basta egli alcuna volta a dare il tratto della bilancia? Or bene, questo picciol peso si compiaceva d'averlo egli in mano, e prometteva a stesso di porlo a tempo nel guscio che volea: far traboccare.

 





3 O pelato ebrioso, bevi, bevi. Il babii, babo, probabilmente non avea alcun senso, e si accoppiava al bibe, bibe, ho, ho! per fare assonanza, e per compiere un tal qual metro (N.d.A.).



4 Il Giulini crede che il monastero, detto anticamente delle Signore Bianche sotto il muro, posto appunto in principio del borgo di Porta Ticinese, acquistasse allora, in memoria dei fatti gloriosi dei nostri il nome della Vittoria che vediamo datogli nelle carte subito dopo quel tempo; nome che conserva ancora ai nostri la chiesa ch'era unita a quel monastero (N.d.A.).





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