CAPITOLO XXXII
Marco uscì precipitosamente dalle camere della castellana, e
Ottorino gli tenne dietro, punto, anche in mezzo all'angoscia di quell'ora
fatale, da una pietosa sollecitudine per la vita del suo signore; e bisognoso
anch'esso in quel primo momento di torsi da una vista che gli dava troppo
schianto, di scuotersi, di operar qualche cosa, che lo facesse ricordar di sè
medesimo, che gli tenesse, dirò così, in sesto la mente smarrita da un colpo
tanto enorme.
Il gran capitano, facendosi scorrer le mani sulla fronte e
sugli occhi, come se avesse voluto torne via una nebbia, una scurità che gli
stava dinanzi, attraversò a lunghi passi un loggiato, poi salì una scala e
fermossi ad un uscio, dubbioso se dovesse entrarvi o no; ma si sentì tutt'ad un
tratto soffocare, provò il bisogno di trovarsi all'aperto, e continuò a salire
la scala per cui s'era avviato. Su, e su, tanto che giunse sul battuto d'una
torre altissima: ivi fermossi, girò gli occhi intorno a mirare il vasto
orizzonte che di là si scopriva, guardò un momento il sole involto di nubi
infocate, al fine chinò il mento sul petto, intrecciò le braccia, e colle
spalle appoggiate ad un merlo stette un pezzo in silenzio. Gli occhi erano
asciutti e immoti, il volto torvo e scomposto; sulla fronte spaziosa, che corrugavasi
ad ora ad ora con una rapida contrazione quasi di spasimo, si affacciavano e
discorrevano, dirò così, i fantasmi dei truci pensieri che si succedean nella
sua mente.
Dopo qualche tempo egli s'accorse del giovane che l'avea
seguitato lassù, e che ritto in piedi poco discosto da lui, lo stava guardando
in silenzio, e gli disse:
- Perchè l'hai abbandonata?...
- Ella si sta nelle mani dei suoi parenti, - rispose
Ottorino.
- È vero, - tornava a dire il Visconte, - a noi non si
conviene il restarsi a piangere, quando ci è da operare. Ora scendi da questa
scala: al primo pianerottolo è la camera del giudice, digli che mi mandi qui il
Pelagrua, chè voglio interrogarlo io, e tu ritorna pure con lui, chè mi giova
d'averti qui.
Ottorino parve esitare un momento, e Marco indovinando tosto
il suo pensiero:
- Va fidatamente, - gli replicò: - questo avanzo di vita so
che non è mio, finchè ho dei torti da riparare, finchè mi rimane sull'anima un
debito di sangue. Quando il dolore sarà pagato col dolore... quando... Ma no,
Marco non morrà della morte dei vili, disperando come un miscredente.
Il giovane partì, ed egli si rimase colle braccia avvolte
sul petto ad aspettare che il Pelagrua gli fosse condotto dinanzi.
Il Pelagrua trovavasi allora in castello. Diremo come se ne
fosse allontanato, e come vi ritornasse.
Dopo il colloquio ch'egli e Lodrisio, ebbero con Bice, i due
furfanti avean capito essere impossibile che potessero mai cavar da quella
infelice verun sesto pel loro scellerato disegno; e vedendola poi di dì in dì
scemar sempre di forze e svenire, si risolvettero al tutto di liberarsi da lei,
la quale non diventava nelle loro mani che un ingombro, un fastidio pericoloso.
Il castellano di Rosate, secondo l'intesa, la notte stessa che Marco era giunto
a Milano, e propriamente nel tempo ch'egli stava favellando con Ermelinda,
rintanò la sposa d'Ottorino e la sua ancella nel sotterraneo in cui divisava di
lasciarle morire; poscia se n'era ito a Fallavecchia, un paesello vicino a
Rosate, ove mantenea una certa sua tresca, ed ivi fermossi fino a giorno
avanzato.
Tornando poi in castello, lontano, potete ben pensare, dal
figurarsi le novità che intanto v'erano accadute, fu preso. Interrogato dal
giudice, dapprima parlava alto, ma quando intese che Marco era giunto, era lì,
che Bice era stata trovata, s'accusò morto.
Due guardie se lo presero in mezzo e lo fecero salire sulla
torre: egli, ad ogni scalino che faceva, si andava raccomandando ad Ottorino,
il quale gli veniva dietro, perchè l'aiutasse, perchè lo salvasse dalla prima
furia del suo padrone. Giunto nel cospetto di questo, gli si buttò dinanzi in
ginocchio, e tremando e battendo i denti, balbettava interrottamente: -
Misericordia! misericordia!... Io ho creduto... non fu per mal animo... solo
che voleva... ma è stato Lodrisio... Lodrisio che m'ha precipitato ...
Perdonatemi... e vi dirò... e vedrete...
Ma il Visconte, dopo aver gettato uno sguardo d' ira e di
abborrimento su quel miserabile, invece di dargli ascolto si mise a scorrere un
fascio di carte che una delle due guardie gli avea messo fra le mani per parte
del giudice; levando poi gli occhi da quelle, fece segno al soldati che si
ritraessero; quindi porse ad Ottorino tutto il plico tal quale stava, e gli
disse: - Sono le tue lettere state trovate nella camera di quella poveretta. -
Il giovane le prese e si mise a scorrerle.
Intanto Marco abbassò un'altra volta lo sguardo sul
castellano che gli stava prosternato dinanzi, e non cessava dal gemere, dal
supplicare; e dandogli d'un piede in una spalla: - Levati, sciagurato, - gli
tonò con voce tremenda. Il tristo obbedì. Alla vista di quel volto su cui anche
la paura e l'abbiezione avea qualche cosa di maligno e di feroce, il signore di
Rosate sentissi ribollire il sangue; fece alcuni passi innanzi e indietro del battuto
per rimettersi in calma, poi gli si fermò vicino, e incominciava a
interrogarlo.
- Quand'è che Lodrisio fu qui?
Ma prima che venisse la risposta, Ottorino avvicinossi a
Marco, e mostrando le carte avute pur allora da lui:
- È una falsità sfacciata e crudele, - dicea fremendo: -
queste lettere non sono mie.
Marco gli strappò di mano i fogli, e squadernandoli sul viso
al Pelagrua, il quale alle parole d'Ottorino s'era messo a tremar più forte,
gli domandò con voce mezzo spenta dall'ira: - Di chi sono dunque?
- È stato, - cominciava questi balbettando, - è stato... per
obbedire a voi, per servirvi meglio...
A tanto il Visconte perdette il lume degli occhi:
- Ah mostro dell'inferno! - ruggì come un furioso: e nel
punto medesimo gli avventò un siffatto punzone nel viso, che fracassatagli una
mascella, mandollo a gambe levate giù dalla torre, al piè della quale la
mattina fu poi trovato morto, infilzato su di un palo di quei che stavan
confitti nella fossa.
Dopo di ciò, Marco si ritrasse nelle sue camere, dove non
volle che alcuno, tampoco Ottorino, lo seguitasse; vi si rinchiuse, e stette
solo fino a gran notte, tramestando per gli armadi, scegliendo carta da carta,
ardendone molte, riponendone alcune, altre postillandone: scrisse varie
lettere, e fece il suo testamento, nel quale dopo aver provveduto d'una larga
pensione la vedova del Pelagrua, e dopo molti lasciti ai suoi scudieri, ai
paggi, a tutta la numerosa famiglia da lui trattenuta, nominò suo erede
Ottorino. A mezza notte fece chiamare il monaco che aveva assistita Bice, e
volle confessarsi da lui: ciò fatto, gittossi su d'una seggiola a bracciuoli, e
dormì forse un paio d'ore tranquillamente, a quel che disse dappoi un suo
famigliare, il quale senza che ei se ne accorgesse l'avea vegliato tacitamente
da una camera vicina. Quando si destò, chiese da bere; gli fu recata dell'acqua
in un'ampia coppa d'oro, e la tracannò tutta in un fiato; vedendo allora di non
poter più riattaccar sonno, e riuscendogli incomportabile lo starsi senza far
nulla aspettando l'aurora, uscì fuori su un loggiato, e si mise a passeggiare
innanzi e indietro come un'anima tormentata, intento sempre fra quel buio, fra
quel silenzio universale, a un fioco lume, a un basso mormorio di preghiere che
veniva da una cameretta di fronte.
Intanto Lodrisio, ch'era in Milano, travagliato da mille
sospetti, non vedendo tornare il messo spacciato al castellano di Rosate, avea
mandati alcuni suoi fedeli, che, spiando accortamente nei dintorni, l'aveano
avvisato d'ogni cosa. La sua lettera caduta nelle mani del Visconte, Bice
trovata nei sotterranei e morta dappoi, Ottorino posto in libertà, il
castellano interrogato e tolto di vita dallo stesso Marco, tutto gli era stato
riferito; ond'egli ben s'avvide, come scoperta ogni sua macchinazione, non gli rimanesse
più scusa nè sutterfugio per salvarsi dall'ira di quel terribile signore, con
tanta perfidia, con tanta crudeltà, sì lungamente aggirato. Il tristo già
s'immaginava di vederselo comparir dinanzi con quella sua furia indomabile a
domandargliene ragione; e, quantunque ardito e franco della sua persona,
quantunque uno dei più valenti cavalieri di quel tempo, non s'assicurava troppo
di poter durare a fronte di un avversario di quella taglia, di un avversario
che era riputato per la prima lancia di Lombardia. Oltre di che, se la cosa
dovea portarsi al giudizio dei ferri, si sarebbe venuto a propalar cose che
l'avrebbero coperto d'infamia pel resto dei suoi giorni.
Quel malvagio, messo a sì forte punto, gittossi al disperato
del tutto, e per isfuggir alla mala ventura che gli stava sopra pel tradimento
consumato, ne meditò e ne compì un nuovo, più vile, se è possibile, più
abbominevole dei primo.
Scrisse ad Azzone fingendosi ravveduto e dolente della sua
fellonia, gli rivelò tutte le trame di Marco per torgli lo Stato,
offerendogliene le più irrefragabili prove con una infinità di lettere, di note
e d'altri documenti, che erano in sua mano: mandò le scritture al loro
ricapito, lasciò in casa ai famigli, che venendo Marco a chieder di lui, gli
dicessero che egli era ito in palazzo a conferire alcune cose col Vicario. Ciò
fatto salta a cavallo, esce difilato da Porta Giovia, e non ismonta di sella
prima d'essersi posto in sicuro oltre i confini della signoria di Milano.
Marco cieco, fuori di sè stesso dall'angoscla, dal furore;
avendo in dispetto, non ch'altro, pur la terra che lo sosteneva, l'aria del
mattino che gli batteva per la fronte, il sole che si levava a illuminare la
sua via; gonfio il cuore d'una cupa e procellosa smania di vendetta, non
respirando altro che sangue e morte, corse a Milano; e ingannato dal falso
annunzio avuto nella casa di Lodrisio, si rivolse al palazzo del Vicario, dove
il lettore ben intende come ei fosse aspettato.
Lasciato in una prima sala uno scudiere che s'era tolto seco
andò innanzi solo, e domandò ad alcuni famigliari di quell'abborrito ch'ei
cercava.
- È là dentro, - gli rispose un d'essi, accennandogli un
uscio, e nello stesso tempo corse in atto ossequioso ad aprirglielo. Marco senza
sospetto alcuno si fa innanzi, passa la soglia, entra in un lungo stanzone; ed
ecco appena vi ha posto il piede, l'uscio gli si richiude addosso di colpo,
sonante di ferramenti; e in un batter d'occhio balzan fuori da vari nascondigli
sei uomini armati, tutti coperti di maglia, col mariotto in capo e la visiera
bassa, che lo assaliscono ad un tempo da ogni parte. Nel primo impeto gli fecer
due ferite, una nella gola, una in un fianco: poi gli si strinsero addosso
pigliandolo qual per le spalle, quale attraverso la persona, quale
avviticchiandosegli alle gambe per farlo cadere. Egli corse con una mano al
fianco sinistro cercandovi il pugnale, ma non ve lo trovò, chè uno degli
assalitori avea avuto l'accorgimento e la destrezza di levarglielo nel punto che
gli s'era gettato alla vita. Marco si vide perduto, nè volle però morire senza
contrasto: levò in alto un pugno, che nessuno potè tenergli, e lo calò con
tanta forza sul capo d'uno che gli avea data in quel punto una stoccata nel
petto, che il percosso stramazzò sul pavimento come un toro colpito dal maglio.
Ma gli altri continuando pur sempre a stargli serrati dattorno, lo trascinarono
tutto grondante di sangue presso una finestra che dava sulla via; ivi presolo
per le braccia, per la vita e per le gambe, lo sollevaron di peso, e datogli
una spinta lo precipitarono a capo in giù sul selciato, dove pochi momenti dopo
spirò.
Per Milano, per la Lombardia, per tutta Italia, si parlò poi
in cento modi della fine di quel glorioso capitano. La storia tenebrosa del suo
amore si frammischiò diversamente, come era da immaginarsi, a quella della sua
morte: si credette da alcuni, o si mostrò di credere per adulare i potenti, cui
premea troppo di levarsi d'addosso quell'infamia, che Marco medesimo, dopo
d'aver uccisa Bice per furor di gelosia, si fosse poi per disperazione
pugnalato di sua mano, e gettatosi da sè dalla finestra del palazzo. Queste
voci furono raccolte e tramandate da qualche scrittore contemporaneo, o troppo
corrivo, o troppo timido amico della verità. L'Azario, più riserbato, dice che
intorno alla sua morte non si può dir nulla di certo; e che del resto gli
veniva dato carico di molte cose che non eran vere, e se ne tacevan molte di
vere7.
Ma fuori di Lombardia, dove non giugnea il terrore dei Visconti,
nessuno dubitò che Marco non fosse stato assassinato per comando del nipote e
dei fratelli di lui. Giovanni Villani, per tacer degli altri, Giovanni Villani,
che avea conosciuto famigliarmente il nostro Marco a Firenze, ed avea avuto a
trattar seco più volte per le cose di Lucca, lo dice chiaramente; ed anzi viene
a render ragione dell'oscurità, dell'incertezza, che si trova, nei nostri
cronisti intorno a questo punto, coll'aggiunger subito le seguenti notabili
parole: «Di questa disonesta morte di Messer Marco, i Melanesi per comune
furono molto turbati, ma nullo n'osò parlare per paura».
Noi, per far conoscere quello che se ne pensasse a Lucca a
quel tempo, o per dirlo con più esattezza quel che ne pensasse un menestrello
di Lucca, riporteremo qui una Serventese che fu cantata a un banchetto di
cavalieri il giorno che giunse colà quella nuova.
IN MORTE DI MARCO VISCONTI
SERVENTESE
Sangue! sangue! rosseggian fumanti
D'un turrito palagio le soglie;
D'ogni parte, smarrita i sembianti,
Una plebe a furor vi s'accoglie;
Si rimescolan; brulica il suol.
Sventurati! chi siete?... Ben parmi...
O m'inganno?... Non più: vi ravviso
Al biscion che vi splende sull'armi,
All'onesta baldanza sul viso:
Milanesi, e perchè sì gran duol?
Ecco s'apre la calca atterrita:
Un soldato sugli occhi si pone
La man destra, e con l'altra m'addita
Nella polve riverso boccone
Un trafitto, che palpita ancor.
Egli è Marco! quel turbin di guerra,
Quella luce d'eccelso consiglio,
Che de' Guelfi per l'itala terra
Rintuzzò tante volte l'artiglio:
De' Lombardi la gloria e l'amor.
Ah! piangete quel fervido raggio
Che si spense sul volto del forte,
Su quel volto che spira il coraggio
Pur di sotto alla nube di morte!
Sì, piangete il reciso suo dì!...
Ma qual suon di terribili note
Dalla folla s'eleva e si spande?
Oh delitto! i fratelli, il nipote
L'empia mano levàr su quel Grande?
Dunque il sangue il suo sangue tradì?
- Mi ti accosta; distinto favella,
Tu che amico gli fosti: - E fu vero
Ch'ei piegasse all'amor di donzella
Il superbo, domato pensiero,
Come il grido d'intorno sonò?
Non risponde: - Di mezzo alla calca
Seco in groppa piangendo m'ha tolto,
Per ritorti sentier si cavalca,
Galoppiam d'una selva pel folto:
A un castello il corsier s'arrestò.
Si spalancan le porte, si scote
D'alto il ponte, tentenna, e giù viene;
Stridon cardini, cigolan rote,
Sonan sbarre, chiavacci e catene,
Ma nè un'anima nata compar.
Per le corti, pei portici in giro,
Per le logge nell'alto correnti,
Pur un'ombra non vedi; un respiro,
Un romor di pedate non senti,
Anco l'aria qui morta ti par.
Ma un lume languido
In sulla sera
Fra gli archi pingesi
D'una vetriera
In fondo ai portici,
Lontan, lontan.
Vien da una fiaccola,
La qual rischiara
D'illustre vergine
L'ignota bara,
Pei sotterranei
Accesa invan!
China, sul rigido
Guancial riposa
La faccia pallida
E rugiadosa,
In atto placido,
Quasi d'amor.
Pel collo eburneo,
Pel sen di neve,
Fino al piè stendesi
La chioma lieve,
Rendendo immagine
D'un velo d'or.
A un riso etereo
Schiusa è la bocca
Nascosta mammola
Ancor non tocca
Il grembo rorido
Apre così.
L'occhio virgineo
Mezzo velato,
Come d'un angelo
Addormentato,
Par che desideri
Ancora il dì.
Eletto spirito!
Se pur dal cielo
Amando visiti
Il tuo bel velo,
Ma qual sorge in lontananza
Mesto suon di sacre note,
Tremolante per le immote
Aure, lungo il vasto pian?
Sempre, sempre più s'avanza:
Cupo il ponte sonar senti
Sotto i piè d'ignote genti:
Passan, passan; vanno e van.
Si rischiaran l'ombre intanto:
Ecco i frati in cappe nere,
Che in due lunghe uguali schiere
Lenti incedono del par:
Sei baroni in ricco ammanto
Seguon sotto al sacro incarco
Del cadavere di Marco
Tutto chiuso nell'acciar.
Nella stessa oscura cella -
Entro un sol letto di morte
La più bella - ed il più forte
Poser taciti a giacer.
Lampeggiar parve d'un riso -
Al levar della celata
Presso il viso - dell'amata
Il sembiante del guerrier.
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