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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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  • CAPITOLO XXXII
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CAPITOLO XXXII

 

Marco uscì precipitosamente dalle camere della castellana, e Ottorino gli tenne dietro, punto, anche in mezzo all'angoscia di quell'ora fatale, da una pietosa sollecitudine per la vita del suo signore; e bisognoso anch'esso in quel primo momento di torsi da una vista che gli dava troppo schianto, di scuotersi, di operar qualche cosa, che lo facesse ricordar di medesimo, che gli tenesse, dirò così, in sesto la mente smarrita da un colpo tanto enorme.

Il gran capitano, facendosi scorrer le mani sulla fronte e sugli occhi, come se avesse voluto torne via una nebbia, una scurità che gli stava dinanzi, attraversò a lunghi passi un loggiato, poi salì una scala e fermossi ad un uscio, dubbioso se dovesse entrarvi o no; ma si sentì tutt'ad un tratto soffocare, provò il bisogno di trovarsi all'aperto, e continuò a salire la scala per cui s'era avviato. Su, e su, tanto che giunse sul battuto d'una torre altissima: ivi fermossi, girò gli occhi intorno a mirare il vasto orizzonte che di si scopriva, guardò un momento il sole involto di nubi infocate, al fine chinò il mento sul petto, intrecciò le braccia, e colle spalle appoggiate ad un merlo stette un pezzo in silenzio. Gli occhi erano asciutti e immoti, il volto torvo e scomposto; sulla fronte spaziosa, che corrugavasi ad ora ad ora con una rapida contrazione quasi di spasimo, si affacciavano e discorrevano, dirò così, i fantasmi dei truci pensieri che si succedean nella sua mente.

Dopo qualche tempo egli s'accorse del giovane che l'avea seguitato lassù, e che ritto in piedi poco discosto da lui, lo stava guardando in silenzio, e gli disse:

- Perchè l'hai abbandonata?...

- Ella si sta nelle mani dei suoi parenti, - rispose Ottorino.

- È vero, - tornava a dire il Visconte, - a noi non si conviene il restarsi a piangere, quando ci è da operare. Ora scendi da questa scala: al primo pianerottolo è la camera del giudice, digli che mi mandi qui il Pelagrua, chè voglio interrogarlo io, e tu ritorna pure con lui, chè mi giova d'averti qui.

Ottorino parve esitare un momento, e Marco indovinando tosto il suo pensiero:

- Va fidatamente, - gli replicò: - questo avanzo di vita so che non è mio, finchè ho dei torti da riparare, finchè mi rimane sull'anima un debito di sangue. Quando il dolore sarà pagato col dolore... quando... Ma no, Marco non morrà della morte dei vili, disperando come un miscredente.

Il giovane partì, ed egli si rimase colle braccia avvolte sul petto ad aspettare che il Pelagrua gli fosse condotto dinanzi.

Il Pelagrua trovavasi allora in castello. Diremo come se ne fosse allontanato, e come vi ritornasse.

Dopo il colloquio ch'egli e Lodrisio, ebbero con Bice, i due furfanti avean capito essere impossibile che potessero mai cavar da quella infelice verun sesto pel loro scellerato disegno; e vedendola poi di in scemar sempre di forze e svenire, si risolvettero al tutto di liberarsi da lei, la quale non diventava nelle loro mani che un ingombro, un fastidio pericoloso. Il castellano di Rosate, secondo l'intesa, la notte stessa che Marco era giunto a Milano, e propriamente nel tempo ch'egli stava favellando con Ermelinda, rintanò la sposa d'Ottorino e la sua ancella nel sotterraneo in cui divisava di lasciarle morire; poscia se n'era ito a Fallavecchia, un paesello vicino a Rosate, ove mantenea una certa sua tresca, ed ivi fermossi fino a giorno avanzato.

Tornando poi in castello, lontano, potete ben pensare, dal figurarsi le novità che intanto v'erano accadute, fu preso. Interrogato dal giudice, dapprima parlava alto, ma quando intese che Marco era giunto, era , che Bice era stata trovata, s'accusò morto.

Due guardie se lo presero in mezzo e lo fecero salire sulla torre: egli, ad ogni scalino che faceva, si andava raccomandando ad Ottorino, il quale gli veniva dietro, perchè l'aiutasse, perchè lo salvasse dalla prima furia del suo padrone. Giunto nel cospetto di questo, gli si buttò dinanzi in ginocchio, e tremando e battendo i denti, balbettava interrottamente: - Misericordia! misericordia!... Io ho creduto... non fu per mal animo... solo che voleva... ma è stato Lodrisio... Lodrisio che m'ha precipitato ... Perdonatemi... e vi dirò... e vedrete...

Ma il Visconte, dopo aver gettato uno sguardo d' ira e di abborrimento su quel miserabile, invece di dargli ascolto si mise a scorrere un fascio di carte che una delle due guardie gli avea messo fra le mani per parte del giudice; levando poi gli occhi da quelle, fece segno al soldati che si ritraessero; quindi porse ad Ottorino tutto il plico tal quale stava, e gli disse: - Sono le tue lettere state trovate nella camera di quella poveretta. - Il giovane le prese e si mise a scorrerle.

Intanto Marco abbassò un'altra volta lo sguardo sul castellano che gli stava prosternato dinanzi, e non cessava dal gemere, dal supplicare; e dandogli d'un piede in una spalla: - Levati, sciagurato, - gli tonò con voce tremenda. Il tristo obbedì. Alla vista di quel volto su cui anche la paura e l'abbiezione avea qualche cosa di maligno e di feroce, il signore di Rosate sentissi ribollire il sangue; fece alcuni passi innanzi e indietro del battuto per rimettersi in calma, poi gli si fermò vicino, e incominciava a interrogarlo.

- Quand'è che Lodrisio fu qui?

Ma prima che venisse la risposta, Ottorino avvicinossi a Marco, e mostrando le carte avute pur allora da lui:

- È una falsità sfacciata e crudele, - dicea fremendo: - queste lettere non sono mie.

Marco gli strappò di mano i fogli, e squadernandoli sul viso al Pelagrua, il quale alle parole d'Ottorino s'era messo a tremar più forte, gli domandò con voce mezzo spenta dall'ira: - Di chi sono dunque?

- È stato, - cominciava questi balbettando, - è stato... per obbedire a voi, per servirvi meglio...

A tanto il Visconte perdette il lume degli occhi:

- Ah mostro dell'inferno! - ruggì come un furioso: e nel punto medesimo gli avventò un siffatto punzone nel viso, che fracassatagli una mascella, mandollo a gambe levate giù dalla torre, al piè della quale la mattina fu poi trovato morto, infilzato su di un palo di quei che stavan confitti nella fossa.

Dopo di ciò, Marco si ritrasse nelle sue camere, dove non volle che alcuno, tampoco Ottorino, lo seguitasse; vi si rinchiuse, e stette solo fino a gran notte, tramestando per gli armadi, scegliendo carta da carta, ardendone molte, riponendone alcune, altre postillandone: scrisse varie lettere, e fece il suo testamento, nel quale dopo aver provveduto d'una larga pensione la vedova del Pelagrua, e dopo molti lasciti ai suoi scudieri, ai paggi, a tutta la numerosa famiglia da lui trattenuta, nominò suo erede Ottorino. A mezza notte fece chiamare il monaco che aveva assistita Bice, e volle confessarsi da lui: ciò fatto, gittossi su d'una seggiola a bracciuoli, e dormì forse un paio d'ore tranquillamente, a quel che disse dappoi un suo famigliare, il quale senza che ei se ne accorgesse l'avea vegliato tacitamente da una camera vicina. Quando si destò, chiese da bere; gli fu recata dell'acqua in un'ampia coppa d'oro, e la tracannò tutta in un fiato; vedendo allora di non poter più riattaccar sonno, e riuscendogli incomportabile lo starsi senza far nulla aspettando l'aurora, uscì fuori su un loggiato, e si mise a passeggiare innanzi e indietro come un'anima tormentata, intento sempre fra quel buio, fra quel silenzio universale, a un fioco lume, a un basso mormorio di preghiere che veniva da una cameretta di fronte.

Intanto Lodrisio, ch'era in Milano, travagliato da mille sospetti, non vedendo tornare il messo spacciato al castellano di Rosate, avea mandati alcuni suoi fedeli, che, spiando accortamente nei dintorni, l'aveano avvisato d'ogni cosa. La sua lettera caduta nelle mani del Visconte, Bice trovata nei sotterranei e morta dappoi, Ottorino posto in libertà, il castellano interrogato e tolto di vita dallo stesso Marco, tutto gli era stato riferito; ond'egli ben s'avvide, come scoperta ogni sua macchinazione, non gli rimanesse più scusa sutterfugio per salvarsi dall'ira di quel terribile signore, con tanta perfidia, con tanta crudeltà, sì lungamente aggirato. Il tristo già s'immaginava di vederselo comparir dinanzi con quella sua furia indomabile a domandargliene ragione; e, quantunque ardito e franco della sua persona, quantunque uno dei più valenti cavalieri di quel tempo, non s'assicurava troppo di poter durare a fronte di un avversario di quella taglia, di un avversario che era riputato per la prima lancia di Lombardia. Oltre di che, se la cosa dovea portarsi al giudizio dei ferri, si sarebbe venuto a propalar cose che l'avrebbero coperto d'infamia pel resto dei suoi giorni.

Quel malvagio, messo a sì forte punto, gittossi al disperato del tutto, e per isfuggir alla mala ventura che gli stava sopra pel tradimento consumato, ne meditò e ne compì un nuovo, più vile, se è possibile, più abbominevole dei primo.

Scrisse ad Azzone fingendosi ravveduto e dolente della sua fellonia, gli rivelò tutte le trame di Marco per torgli lo Stato, offerendogliene le più irrefragabili prove con una infinità di lettere, di note e d'altri documenti, che erano in sua mano: mandò le scritture al loro ricapito, lasciò in casa ai famigli, che venendo Marco a chieder di lui, gli dicessero che egli era ito in palazzo a conferire alcune cose col Vicario. Ciò fatto salta a cavallo, esce difilato da Porta Giovia, e non ismonta di sella prima d'essersi posto in sicuro oltre i confini della signoria di Milano.

Marco cieco, fuori di stesso dall'angoscla, dal furore; avendo in dispetto, non ch'altro, pur la terra che lo sosteneva, l'aria del mattino che gli batteva per la fronte, il sole che si levava a illuminare la sua via; gonfio il cuore d'una cupa e procellosa smania di vendetta, non respirando altro che sangue e morte, corse a Milano; e ingannato dal falso annunzio avuto nella casa di Lodrisio, si rivolse al palazzo del Vicario, dove il lettore ben intende come ei fosse aspettato.

Lasciato in una prima sala uno scudiere che s'era tolto seco andò innanzi solo, e domandò ad alcuni famigliari di quell'abborrito ch'ei cercava.

- È dentro, - gli rispose un d'essi, accennandogli un uscio, e nello stesso tempo corse in atto ossequioso ad aprirglielo. Marco senza sospetto alcuno si fa innanzi, passa la soglia, entra in un lungo stanzone; ed ecco appena vi ha posto il piede, l'uscio gli si richiude addosso di colpo, sonante di ferramenti; e in un batter d'occhio balzan fuori da vari nascondigli sei uomini armati, tutti coperti di maglia, col mariotto in capo e la visiera bassa, che lo assaliscono ad un tempo da ogni parte. Nel primo impeto gli fecer due ferite, una nella gola, una in un fianco: poi gli si strinsero addosso pigliandolo qual per le spalle, quale attraverso la persona, quale avviticchiandosegli alle gambe per farlo cadere. Egli corse con una mano al fianco sinistro cercandovi il pugnale, ma non ve lo trovò, chè uno degli assalitori avea avuto l'accorgimento e la destrezza di levarglielo nel punto che gli s'era gettato alla vita. Marco si vide perduto, volle però morire senza contrasto: levò in alto un pugno, che nessuno potè tenergli, e lo calò con tanta forza sul capo d'uno che gli avea data in quel punto una stoccata nel petto, che il percosso stramazzò sul pavimento come un toro colpito dal maglio. Ma gli altri continuando pur sempre a stargli serrati dattorno, lo trascinarono tutto grondante di sangue presso una finestra che dava sulla via; ivi presolo per le braccia, per la vita e per le gambe, lo sollevaron di peso, e datogli una spinta lo precipitarono a capo in giù sul selciato, dove pochi momenti dopo spirò.

Per Milano, per la Lombardia, per tutta Italia, si parlò poi in cento modi della fine di quel glorioso capitano. La storia tenebrosa del suo amore si frammischiò diversamente, come era da immaginarsi, a quella della sua morte: si credette da alcuni, o si mostrò di credere per adulare i potenti, cui premea troppo di levarsi d'addosso quell'infamia, che Marco medesimo, dopo d'aver uccisa Bice per furor di gelosia, si fosse poi per disperazione pugnalato di sua mano, e gettatosi da dalla finestra del palazzo. Queste voci furono raccolte e tramandate da qualche scrittore contemporaneo, o troppo corrivo, o troppo timido amico della verità. L'Azario, più riserbato, dice che intorno alla sua morte non si può dir nulla di certo; e che del resto gli veniva dato carico di molte cose che non eran vere, e se ne tacevan molte di vere7.

Ma fuori di Lombardia, dove non giugnea il terrore dei Visconti, nessuno dubitò che Marco non fosse stato assassinato per comando del nipote e dei fratelli di lui. Giovanni Villani, per tacer degli altri, Giovanni Villani, che avea conosciuto famigliarmente il nostro Marco a Firenze, ed avea avuto a trattar seco più volte per le cose di Lucca, lo dice chiaramente; ed anzi viene a render ragione dell'oscurità, dell'incertezza, che si trova, nei nostri cronisti intorno a questo punto, coll'aggiunger subito le seguenti notabili parole: «Di questa disonesta morte di Messer Marco, i Melanesi per comune furono molto turbati, ma nullo n'osò parlare per paura».

Noi, per far conoscere quello che se ne pensasse a Lucca a quel tempo, o per dirlo con più esattezza quel che ne pensasse un menestrello di Lucca, riporteremo qui una Serventese che fu cantata a un banchetto di cavalieri il giorno che giunse colà quella nuova.

 

IN MORTE DI MARCO VISCONTI

 

SERVENTESE

 

Sangue! sangue! rosseggian fumanti

D'un turrito palagio le soglie;

D'ogni parte, smarrita i sembianti,

Una plebe a furor vi s'accoglie;

Si rimescolan; brulica il suol.

 

Sventurati! chi siete?... Ben parmi...

O m'inganno?... Non più: vi ravviso

Al biscion che vi splende sull'armi,

All'onesta baldanza sul viso:

Milanesi, e perchè sì gran duol?

 

Ecco s'apre la calca atterrita:

Un soldato sugli occhi si pone

La man destra, e con l'altra m'addita

Nella polve riverso boccone

Un trafitto, che palpita ancor.

 

Egli è Marco! quel turbin di guerra,

Quella luce d'eccelso consiglio,

Che de' Guelfi per l'itala terra

Rintuzzò tante volte l'artiglio:

De' Lombardi la gloria e l'amor.

 

Ah! piangete quel fervido raggio

Che si spense sul volto del forte,

Su quel volto che spira il coraggio

Pur di sotto alla nube di morte!

Sì, piangete il reciso suo !...

 

Ma qual suon di terribili note

Dalla folla s'eleva e si spande?

Oh delitto! i fratelli, il nipote

L'empia mano levàr su quel Grande?

Dunque il sangue il suo sangue tradì?

 

- Mi ti accosta; distinto favella,

Tu che amico gli fosti: - E fu vero

Ch'ei piegasse all'amor di donzella

Il superbo, domato pensiero,

Come il grido d'intorno sonò?

 

Non risponde: - Di mezzo alla calca

Seco in groppa piangendo m'ha tolto,

Per ritorti sentier si cavalca,

Galoppiam d'una selva pel folto:

A un castello il corsier s'arrestò.

 

Si spalancan le porte, si scote

D'alto il ponte, tentenna, e giù viene;

Stridon cardini, cigolan rote,

Sonan sbarre, chiavacci e catene,

Ma un'anima nata compar.

 

Per le corti, pei portici in giro,

Per le logge nell'alto correnti,

Pur un'ombra non vedi; un respiro,

Un romor di pedate non senti,

Anco l'aria qui morta ti par.

 

Ma un lume languido

In sulla sera

Fra gli archi pingesi

D'una vetriera

In fondo ai portici,

Lontan, lontan.

 

Vien da una fiaccola,

La qual rischiara

D'illustre vergine

L'ignota bara,

Pei sotterranei

Accesa invan!

 

China, sul rigido

Guancial riposa

La faccia pallida

E rugiadosa,

In atto placido,

Quasi d'amor.

Pel collo eburneo,

Pel sen di neve,

Fino al piè stendesi

La chioma lieve,

Rendendo immagine

D'un velo d'or.

 

A un riso etereo

Schiusa è la bocca

Nascosta mammola

Ancor non tocca

Il grembo rorido

Apre così.

 

L'occhio virgineo

Mezzo velato,

Come d'un angelo

Addormentato,

Par che desideri

Ancora il .

 

Eletto spirito!

Se pur dal cielo

Amando visiti

Il tuo bel velo,

 

Ma qual sorge in lontananza

Mesto suon di sacre note,

Tremolante per le immote

Aure, lungo il vasto pian?

 

Sempre, sempre più s'avanza:

Cupo il ponte sonar senti

Sotto i piè d'ignote genti:

Passan, passan; vanno e van.

 

Si rischiaran l'ombre intanto:

Ecco i frati in cappe nere,

Che in due lunghe uguali schiere

Lenti incedono del par:

 

Sei baroni in ricco ammanto

Seguon sotto al sacro incarco

Del cadavere di Marco

Tutto chiuso nell'acciar.

 

Nella stessa oscura cella -

Entro un sol letto di morte

La più bella - ed il più forte

Poser taciti a giacer.

 

Lampeggiar parve d'un riso -

Al levar della celata

Presso il viso - dell'amata

Il sembiante del guerrier.

 

 





7 ... de cuius morte certum ignoratur... Multa dicebantur, quæ non faciebat, quæ non dicebantur. Petri Azzarii, Chronicon, Cap. VII.

L'imbarazzo dei nostri cronisti, nel riferire la morte di Marco, per verità è troppo notabile: chi la racconta in un modo, chi nell'altro, ma si vede che tutti hanno qualche cosa che vogliono tenere nascosto: Bonincontro Morigia monzese, storico contemporaneo, se ne spedisce colla solita scappatoia d'un colpo d'apoplessia; ma il suo racconto non è per questo manco avviluppato, manco curioso. Dopo aver detto che Marco avea fatto affogar Bice in compagnia d'una sua fante nella fossa del castello di Rosate (la storiella cui si dava spaccia a que' giorni, e che vien ripetuta da una gran parte degli storici che venner dopo), séguita così: Postea de nece pulcherrimæ amatricis se doluit... ...die quadam sanus corpore, tamen perversa mente, aulam, dominationis civitatis Mediolani intravit, et ibi in præsentia plurimorum, ei favorem non dantium, subito mors, quæ nulli parcit, violenter eum oppressit. (Chronicon Modœtiense, Cap. XLII).

Il fatto per verità non è troppo chiaro: che vuol dire quel perversa mente? e quell'in præsentia plurimorum ei favorem non dantium? Chi erano questi molti che non gli davano favore? e in che cosa non glielo davano? Ecco che 130 anni dopo nasce uno scrittore (Bernardino Corio), il quale in parte pigliando questo racconto dal Morigia, in parte raffazzonandolo a suo modo, spiega quelle oscure parole del vecchio cronista, inventandovi dentro un fatto che non è accennato da nessun contemporaneo, che sarebbe parso troppo strano, troppo duro a credersi, se anche fosse stato raccontato dai contemporanei. Trascriviamo qui le parole del Corio: «Marco fece annegare Bicia con la serva nella fossa del Castello; niente di meno poi assai si dolse per la morte della bellissima amante; onde in diversi modi trovandosi sbeffato, un giorno come furioso entrò nella corte del Principe, et ogni cosa con alcuni suoi satelliti cominciò a mettere a sacco; ma finalmente mancatogli l'aiuto ecc....».

Così si scrive la storia (N.d.A.).





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