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Tommaso Grossi
Marco Visconti

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CONCLUSIONE

 

Il menestrello di Lucca, sia che andasse presso a una falsa voce giunta in Toscana, sia che conoscendo il vero, e parendogli troppo nudo ed arido, abbia voluto raffazzonarlo un tantino per dargli più vaghezza e far più colpo colla sua canzone, ci verrebbe a far credere che Marco e Bice furono sepolti insieme nel castello di Rosate; ma noi, con delle buone prove alla mano, possiamo invece assicurar il lettore che il Visconti fu seppellito molto onorevolmente in Milano nella chiesa di Santa Maria Maggiore; e la sposa d'Ottorino, sappiam di buon luogo, che fu portata a Limonta com'ella avea domandato. E vogliamo averlo detto, perchè non si tenga che noi reputiamo forse essere privilegio dei soli storici, degli annalisti, dei cronisti, di quelli insomma che fanno professione di dir la verità, il raccontare francamente quello che non sanno, o quello che sanno Dio sa come; il tacere quello di cui sono ben informati, l'esornare, l'amplificare, il travestire, l'inventar di pianta; l'usare insomma di tutti quegli artifizi che la rettorica insegna, e la prudenza spesso consiglia. Signori no: noi protestiamo di credere che questo è un privilegio di cui usano qualche volta anche i poeti.

Fatta questa professione di fede, che era troppo necessaria, parrebbe che non ci restasse più altro a dire; però che, dopo la morte di quel che chiamano il protagonista, la storia propriamente è finita. Noi però, se non fosse di sconcio ai lettori, vorremmo aggiungere ancora quattro parole intorno agli altri personaggi che occuparono per tanto tempo la scena; e lo vorremmo principalmente per consolazione delle donne gentili, le quali, così tenere com'elle sono, si lasciano ire agevolmente a porre qualche affetto alle persone colle quali praticano un po' alla lunga, per quanto poco esse valgano, mosse a ciò dalla propria cortesia, piuttosto che dall'altrui virtù: e per questo è da compatirle, che dico? da saperne loro buon grado, se si mostrano poi vaghe d'intenderne le novelle anche un po' pel minuto.

Non isgomentatevi però, chè il fastidio avrebbe a durar poco.

Il conte e la contessa del Balzo, insieme con Lauretta, partirono la mattina da Rosate, mettendosi in viaggio verso Limonta, dove accompagnarono le spoglie della loro Bice, e per via furono poi raggiunti da tutta la famiglia stanziata a Milano, la quale era stata avvisata che dovesse incamminarsi alla volta del lago.

Quelli tra i nostri viaggiatori che venivano da Milano, ne erano partiti prima che seguisse il fiero caso di Marco, del quale nessuno intese parlare se non a Seveso, dove giunti tutti quanti sull'imbrunire erano scavalcati a un'osteria per passarvi la notte. c'era modo che se ne volessero persuadere, avendo abbandonato così da poco tempo il luogo, altri dove si diceva accaduto il fatto, altri dove avrebbe dovuto prima che altrove giungerne la notizia. Lupo e Ambrogio stavano appunto disputando coll'ostiere, e con alcuni del paese intorno alla possibilità della cosa, riscontrando le ore e le distanze, quando giunse una staffetta, che partita da Rosate subito dopo che v'era giunta la fatale novella, erasi messa sulle tracce della famiglia del Balzo, ed aveva potuto giugnerla quivi a quell'ora. L'arrivato era un servitore fedele del Visconte; confermò piangendo l'annunzio dell'atroce fine del suo padrone; poi, tratta in disparte Ermelinda, le pose fra le mani una lettera di Marco stata trovata, come diceva, sul tavolino del suo padrone. La donna fu sopraffatta da una pietà mista di spavento, che potè pure sul suo cuore, quantunque altamente piagato e conquiso da tanta materna angoscia; ella si sentì rabbrividire, le vacillò la vista, tremò per tutte le membra, e riponendosi in seno la lettera, che in quel punto non avrebbe potuto aprire, non che leggere, si abbandonò su d'una seggiola come fuor del sentimento.

Lupo, senza por tempo in mezzo, risalì sul suo cavallo, e galoppò difilato a Milano in cerca d'Ottorino, che poteva in quel frangente aver bisogno di lui. Tutti rimasero sbalorditi: ma appetto all'attonitaggine, alla stupefazione del Conte, lo stordimento degli altri era niente.

E per verità l'aver avuto attenenza con Marco, con quell'uomo che dicevasi fatto ammazzare dai Signori, in conseguenza d'una trama scoperta, poteva in quel primo momento dar da pensare anche a chi fosse stato meno pauroso di lui.

Ma Azzone, spaventato forse anch'egli della vastità della congiura scoperta, stimò prudente cosa di mettervi su un piede, per non risicare di dar fuoco a un vespaio troppo grosso; cosicchè, non dirò del conte del Balzo, troppo ben guardato dalla sua pochezza, ma anche i più stretti amici di Marco, i più arrabbiati e potenti suoi favoreggiatori, la levaron liscia senza una molestia al mondo.

Intanto andavano innanzi le pratiche avviate da un pezzo per la riconciliazione dei Visconti colla Chiesa. Il Papa, già ben disposto a favore del signor di Milano per la resistenza che avea opposta da ultimo al Bavaro, non credette, o mostrò di non credere, alle voci che l'accusavano dell'assassinio dello zio; e assolto lui e la famiglia dalla scomunica, levò l'interdetto che pesava da tanti anni sulla città e sul distretto. Le feste, le baldorie che se ne fecero, furono maravigliose. I signori laici che avevano usurpati i beni del clero, li restituirono ai sacerdoti che tornavan d'ogni parte. Tra questi, il legittimo abate di Sant'Ambrogio Astolfo da Lampugnano, rientrato nel suo antico convento, da cui era stato escluso per tanto tempo, fu rimesso in tenuta di tutti gli antichi possedimenti, e così anche di Limonta. Al primo metter piede in Milano, egli scrisse una lunga lettera al pievano del paese, lodando lui e tutti i Limontini della fedeltà che avevano sempre mostrata al loro legittimo signore, compassionandoli di tutte le vessazioni che avevan dovuto patire sotto l'intruso abate, al quale non vennero risparmiati i soliti epiteti di scismatismo, d'eretico, di mago, di figlio del demonio; e in fine, quel che più monta, accordò loro esenzioni e privilegi in ristoro del mal passato.

Quei nostri buoni montanari riapersero con grande solennità la loro chiesetta di San Bernardo: la campanella si ricattò dal suo lungo silenzio sonando a distesa, a gloria, a Dio lodiamo, per tre giorni e tre notti alla fila, senza un momento di respiro, chè era una furia d'uomini e di ragazzi a strapparsene l'un l'altro la fune, a salir sul tetto, e dondolarla a braccia, e martellarla con ferri e pietre a chi meglio. Si piantarono archi rusticali di trionfo, si fecero processioni, si cantarono messe, e mattutini, e compiete, e vespri, che fu un subisso. Finalmente fu celebrato un uffizio generale pei morti nel tempo dell'interdetto, finito il quale, si avviarono tutti a due a due, gli uomini prima, poi le donne, verso il cimitero, dove si misero in ginocchio a dire il rosario. Una pia e solenne compunzione, un grave e tacito gaudio, era su quei volti chinati divotamente alla preghiera. Fra tante memorie di domestico lutto, di speciali perdite, gli occhi di quella buona gente si volgevano ad ora ad ora verso la cappelletta, entro la quale da pochi giorni era stata posta una bianca pietra, con un nome caro al cuore di tutti.

Marta, che s'era inginocchiata sulla terra ond'era coperto il corpo del suo Arrigozzo, finita che fu la preghiera, si levò in piedi per andarsene, ma passando vicino a quel sasso vi si chinò sopra, e baciollo con riverenza e con amore; la moglie del falconiere, e poscia a mano mano tutte le donne del paese, fecero altrettanto. Solo Ermelinda e Lauretta, che erano pure fra quella schiera, non poterono sosteneregrande sforzo, ma tornarono la sera solette, scendendo dai viottoli del monte senz'essere vedute, a piangere, a pregare su quel sasso, che fu poi sempre ogni giorno il termine delle loro gite solitarie.

Lupo non prese parte alle solennità che si celebrarono quei giorni al paese: egli era partito alla volta di Terra Santa insieme con Ottorino. Morta Bice, morto Marco, il giovine cavaliere non potè più vedersi sotto questo cielo: il sapersi vicino a Lodrisio gli faceva ribollire il sangue addosso, avrebbe voluto trovarlo, misurarsi con lui, e che ne andasse la vita dell'uno o dell'altro; ma aveva promesso alla sposa moribonda di non cercare vendetta; quella promessa gli era sacra; fuggì dunque per poterla mantenere.

Un altro dei nostri conoscenti era capitato invece quei giorni a Limonta; il Tremacoldo. Egli fu ricevuto da Ermelinda come un parente stretto e caro, per la memoria di quel tanto che avea fatto, che avea patito, per la sua povera Bice.

Finite le feste, il giullare volle andarsene, e la donna ricordevole della sua promessa, non avendogli mai potuto far accettare cosa che valesse, gli diede una commendatizia pel Legato apostolico Bertrando del Poggetto. Con questa il Tremacoldo andò a Bologna, e portò indietro tanto d'assoluzione dalla scomunica in che era incorso esercitando un mestiere proibito dai canoni; e gittato via per sempre il berretto a sonagli e il farsettin divisato, riprese un cappuccio a gote, un robone foderato di pellicce; e di menestrello si rifece canonico. L'amor del mestiere però gli s'era talmente fitto nell'ossa, che non potè spogliar del tutto il vecchio Adamo; non gli patì il cuore di staccarsi dal suo liuto, col quale rallegrava qualche volta le brigate in occasione di solennità straordinarie, o per non saper dir di no ad un amico, o ad un superiore: sempre però, intendiamoci bene, sempre nei termini dell'onestà e della modestia più stretta. Del resto, buon pastaccio, eccellente compagnone, campò al di degli ottant'anni, e, cosa che parrà incredibile ed è pur vera, canonico, in mezzo a canonici, non ebbe mai che dire con nessuno.

Ermelinda morì a Limonta in capo a due anni, compianta da tutto il paese. Frugandosi fra le sue cose, fu trovata l'ultima lettera di Marco, ch'ella aveva riposta in uno stipetto in compagnia d'una catenella d'oro. Nessuno sapeva indovinare come stesse quivi quella catenella, e che cosa volesse significare, salvo la moglie del falconiere e la sua figlia Lauretta, le quali però non ne fecero motto con nessuno mai.

Il conte del Balzo andò molto in cogli anni, tanto che vide morire Azzone e succedergli Luchino; sopravvisse anche a questo, sopravvisse anche a Giovanni; non si parlava ormai più di Marco che come d'un personaggio storico, d'un gran capitano, d'un uomo singolare; il suo nome era ripetuto senza riserbo con riverenza, con maraviglia; e il Conte fu ancora a tempo a farsi bello dei vanti che sentiva dati alla sua memoria. Quel benedetto catarro di far dell'importante, di che non potea guarirlo altro che la paura, gli prese addosso più rigoglio che mai negli ultimi anni del viver suo, quando tutto era quieto e fidato: bisognava sentirlo a parlar di Marco! egli era stato il suo consigliere, il suo più stretto amico, l'anima di tutte le sue imprese.

- Se m'avesse dato retta a me! - diceva qualche volta in aria di mistero. - Se m'avesse dato retta a me! ma via, certe cose va bene a tacerle: quantunque sieno avvenuti tanti mutamenti, è meglio tacerle; - e così dicendo gonfiava le gote e si passava una mano sulla fronte, come volendo far intendere che v'eran chiusi dentro de' gran segreti.

E Lodrisio? sono certo che il lettore il quale abbia punto di... so ben io? in somma, che non sia del tutto senza cuore e senza sentimento, desidera di vedergli fare la mala fine; e anch'io vi do parola che me ne struggo; ma che volete? ci convien aver flemma a tutti insieme, chè le cose della storia non me le posso acconciar sulle dita secondo che mi vanno a fantasia. Ecco dunque quanto si racconta di quel tristo.

Egli andò ramingo per molt'anni in varie parti d'Italia, finchè nel 1338 gli riuscì coll'aiuto dello Scaligero di assoldare tremila e cinquecento cavalieri (numero considerabile nelle guerre di que' tempi), oltre una gran copia di fanti. Con tutta quella gente, che fu chiamata la Compagnia di San Giorgio, ingrossata per via da una infinità di ladri, di masnadieri, di banditi, che accorrevano al lecco del bottino, si avanzò verso il Milanese, ponendo tutto a ruba e a fuoco. Giunto nelle vicinanze di Parabiago, dov'era aspettato da Luchino con tutto lo sforzo di Milano e degli alleati, diede quella famosa battaglia, che prese il nome dal borgo presso cui fu combattuta. In essa fu sconfitto interamente, e caduto vivo in man dei vincitore, venne con umanità troppo rara a quei tempi confinato, in compagnia dei due suoi figliuoli, nella fortezza di San Colombano, dove stette rinchiuso fino al 1348. E poi? morto Azzone, morto Luchino, ne fu cavato dall'arcivescovo Giovanni... E poi? Dopo aver corse varie altre vicende, morì vecchissimo, di suo male, in Milano il 5 d'aprile del 1364.

Di più fu seppellito con gran pompa, magnaliter, come dice il cronista già da noi citato; anzi a dimostrazione di lutto e d'onore, Bernabò, allora signor di Milano, differì un solenne torneamento; e i principi, i baroni e i conti, che già eran venuti per farci lor prove, dovettero aspettare che il corpo di quel Lodrisio fosse posto in terra, dopo fattogli assai cerimonie attorno. Cose, dico, che a prima giunta fanno rabbia. Però, chi appena ci badi, vien tosto in mente che, se la Provvidenza le ha fatte riuscire in quel modo, avrà avuto le sue ragioni; e si trova che questo voler vedere ognuno pagato in questo mondo conforme pare a noi che il suo merito porti, è impazienza, leggerezza, prosunzione, e peggio; è un supporre d'aver noi più discernimento di Chi ce l'ha dato; è un dimenticar che quaggiù le partite si piantano, ma si saldano altrove.

 

FINE




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