CAPITOLO QUARTO
Partenza da Dinamo e arrivo ad Andropoli. - Aspetto generale della città.
- Le case, la loro costruzione e la loro architettura. - Le piazze di
Andropoli. - L'officina dinamica. - Il mercato. L'arresto di un ladruncolo e la
giustizia.
I nostri
viaggiatori, lasciata l'isola di Dinamo, salirono nel loro aerotaco, impazienti
di giungere nella grande capitale del mondo, e si diressero all'India. In poche
ore videro dall'alto il Gange, l'antico fiume sacro degli Indù, e dove
dall'altezza in cui erano si scorgeva appena nel basso una grande città, che,
dal luogo in cui dominava un tempo Calcutta, scendeva lungo le sponde fino al
mare.
Di là drizzarono la
loro navicella al nord, dove si distendeva ampia e maestosa la smisurata catena
dell'Imalaia.
Mano mano si andavano
avvicinando a quella catena di monti, le cui cime sembrano
inargentate dall'eterna neve che le ricopre, spesseggiavano per l'aria gli
aerotachi. Sembravano grandi uccelli bruni: ve n'erano di tutte le grandezze e
di tutte le forme e da tutti i punti dell'orizzonte si dirigevano verso lo
stesso punto; come i vasi sanguigni, che da tutta la periferia del nostro corpo
si dirigono al cuore.
E Andropoli era
infatti il cuore del nostro globo, il centro della civiltà planetaria.
Andropoli fu fondata
nell'anno 2500 da Cosmete, cittadino inglese, il più grande fra i legislatori
del mondo, che in una grande assemblea
tenuta a Londra nel 2490, gettò le basi degli Stati Uniti della Terra.
A quell'assemblea presero parte inviati di tutti i paesi, e
dopo una discussione, che durò per più di un mese, si stabilì che la capitale
planetaria si fondasse a Darjeeling, giudicato il paese più bello e più salubre
del mondo.
La discussione fu
lunga, ardente e talvolta anche impetuosa, perchè molti Europei volevano che la
Città dell'Uomo si fondasse a Roma, che era stata molti secoli prima la
capitale del mondo, la culla di tre civiltà.
Gli Americani
volevano invece che la capitale planetaria si innalzasse a Quito, dove i
vulcani si erano spenti e non si avevano più terremoti e dove rideva un'eterna
primavera.
Gli Asiatici
dell'estremo Oriente la desideravano nel Giappone, gli Australiani l'avrebbero
voluta nella Nuova Zelanda; gli Africani insistevano per l'altipiano centrale del
loro continente; ma alla fine trionfarono coloro, che volevano Andropoli ai
piedi dell'Imalaia.
Quando Paolo e Maria
vi andarono, quella città non aveva che cinque secoli di vita e contava già
dieci milioni di abitanti
Più che una città
però poteva dirsi un'immensa agglomerazione di cento città, che dai monti e
dalle colline scendevano nelle valli, tutte congiunte poi da strade terrestri e
da strade aeree.
I nostri viaggiatori
scesero ad Andropoli e presero alloggio in un ottimo albergo indicato loro dalla
Guida, che avevano seco; albergo posto proprio nel centro della città.
Era quella l'unica
parte di Andropoli costruita con una perfetta simmetria.
Da una gran piazza
circolare partivano sette strade a guisa dei raggi di una stella, e nelle
piazza si innalzavano superbi il Palazzo del Governo, l'Accademia delle scienze
e delle lettere, l'Accademia delle arti belle e il Tempio della speranza. Nelle
vie, che sboccavano nella piazza, eran posti gli alberghi, i grandi magazzini,
gli Archivii, le Biblioteche; tutti gli edifizii pubblici necessarii alla vita
di un gran popolo.
Si potrebbe dire che
questa parte di Andropoli era la Città del pubblico; mentre tutta l'altra
immensa distesa di case accoglieva gli abitanti, che venuti da tutti i paesi
del mondo vi si erano agglomerati, per quell'istinto irresistibile che l'uomo
ha comune colle formiche, colle api e con tutti gli animali socievoli.
La Città del
pubblico non aveva alcuna simmetria, ma seguiva gli accidenti del suolo, ora
arrampicandosi sulle colline, ora scendendo nelle valli e distendendosi sugli
altipiani.
La legge degli Edili
non imponeva altri vincoli, che quello di lasciare aperta la via fra la schiera
delle case, in modo che vi potessero muoversi liberamente pedoni, velocipedi,
carrozze e tutti quanti gli svariati mezzi di trasporto, che secondo il gusto e
la ricchezza di ciascheduno erano usati nell'anno 3000.
Le vie non erano
tutte diritte, nè si tagliavano ad angolo retto, come nelle monotone scacchiere
dell'America; ma ora eran serpentine, ora oblique ed ora diritte, secondo gli
accidenti del suolo e il capriccio dei costruttori. Di obbligatorio non c'era
che la larghezza, che era per tutte le vie di almeno venti metri.
Le case eran tutte
di un sol piano, più spesso di due, comprendendo, ben inteso, fra quei due
anche il pian terreno. Quelle di un sol piano (il terreno) erano dei poveri o
dei celibi; le più alte dei ricchi e degli ammogliati; perchè ogni celibe e
ogni famiglia avevano una casa per sè soli e ogni casa aveva il proprio
giardinetto. Luce, calore, forza motrice ed acqua eran distribuiti in ogni casa
dal gran centro dinamico della città.
Quanto
all'architettura, che aveva guidato la costruzione delle case, essa era
bizzarra e svariatissima. Tutti gli antichi stili vi erano rappresentati
insieme ai nuovi e ai nuovissimi; che ogni giorno immaginava la fantasia dei
proprietarii e degli architetti. Ognuno poteva farsi a suo talento la propria
casa, per cui vedevate accanto ad un edifizio gotico una casa pompeiana, un châlet
vicino ad una palazzina greca, e i minareti vicini a case barocche, a case di
stile lombardo o del rinascimento.
Per un uomo del
nostro tempo, che avesse visitato quella città, la cosa più originale però non
era la straordinaria varietà degli stili architettonici; ma bensì la novità e
la diversità del materiale, con cui erano costruite le case.
Nel secolo XIX tutte
le case eran fatte di legno, di mattoni, di pietra; ben rare volte di ferro.
Esigevano tutte un gran tempo e una spesa non indifferente, per cui la massa
del popolo non poteva mai godersi la gioia sana e grande di abitare in una casa
propria. Nell'anno 3000 l'uomo più povero di questo mondo ha sempre una casetta tutta sua, che è stata costruita
da lui o da altri in un solo giorno e che gli costa poche lire.
Per costruire una
casa si fa a un dipresso ciò che si pratica per gettare in gesso o in bronzo
una statua. Si hanno modelli di case di vario prezzo, fatti di una lega
metallica duttile e resistente all'ossidazione. Si pianta il modello nel luogo
in cui si deve innalzare la casa e poi si cola per un foro entro il modello la
sostanza liquida, che, solidificandosi poco dopo, forma le pareti e i muri
maestri dell'edifizio.
La materia liquida è
delle più diverse nature e da poche lire può salire al valore di migliaia di
scudi.
Per le case povere è
una miscela di gesso e di terra alluminosa, che si indurisce come la pietra e
può aver tinte diverse, secondo il gusto estetico del proprietario.
Vi sono miscele
liquide, che consolidandosi rifanno un vero marmo, che colla politura ne
acquista tutto lo splendore; e ve n'ha che imitano il diaspro, le agate, il
lapislazzolo, la giada; tutte le pietre più belle e più costose.
Altre miscele
imitano i metalli più lucenti e più preziosi, senza averne la pericolosa
conducibilità, e si vedono ad Andropoli case che paiono tutte d'oro o
d'argento, d'avventurina o di bronzo e che invece sono costruite in un
materiale cattivo conduttore del calorico; per cui colla bellezza va sempre d'accordo la salubrità dell'edifizio.
Agli uomini del secolo
XXXI pare molto strano che i loro padri per tanti secoli abbiano affaticato
tanto per saldare insieme colla calce mattoni e pietre, mentre si possono fare
le case per colatura, come si fa per una statuetta di gesso.
Le vie hanno tutte
un nome e le case un numero e la città è divisa in tante regioni,
contraddistinte dalla loro posizione astronomica.
Nel centro di
Andropoli non si può negare che il rumore non sia alquanto molesto, benchè
assai minore che nelle vie dell'antica Parigi e dell'antica Londra.
Soppresse le
locomotive e i carri trascinati dai cavalli o da altri animali s'è già tolta
una grande molestia di rumori assordanti e di fumo; ma i veicoli elettrici
terrestri e aerei non sono muti, e l'andare e il venire e il parlare di
migliaia di persone che si affollano nella città centrale, producono un brusìo
molto forte. E lo sanno i letterati e la gente tranquilla, che abita sempre lontana dal centro, nelle vie più solitarie,
e dove d'altronde, come in tutto il resto della città, il pavimento, essendo
fatto di una materia simile al sughero e al caucciù, spegne in gran parte i
rumori delle ruote e dei passi dei viandanti.
Tutto questo videro
i nostri viaggiatori, facendo a piedi lunghe corse nelle vie e nelle piazze di
Andropoli.
Si riserbavano poi
di visitare tutti i grandi edifizi pubblici della città onde studiare la vita
di questa grande metropoli del mondo. Intanto vollero visitare la grande
officina dinamica e il mercato, cioè i due grandi centri, dai quali partono la
forza e l'alimento.
In questo loro
viaggio di scoperta non si saziavano di ammirare le molte e grandi piazze
aperte là dove confluivano molte vie.
Ve n'erano di
quadrate, di rettangolari, di ettagone, di esagone; ma per lo più erano
rotonde, tutte molto ampie e rallegrate da alberi, da aiuole fiorite e da
fontane pittoresche, delle quali non si potevano vedere due che fossero eguali.
Sotto gli alberi si vedevano comodi sedili, dove chiunque poteva mettersi a
riposare o ad ammirare le statue, i fiori, le fontane.
Le fontane non
potevano essere nè più belle, nè più fantastiche. In una delle piazze maggiori
si innalzava un monte artificiale, fatto di rupi accatastate pittorescamente le
une sulle altre. Fra i sassi eran piantati arbusti e piante alpine, che
scapigliate pendevano dai dirupi e dalle frane; e licheni e felci e morbide
borracine davano alle pietre una vita fresca e gaia, che copiava quella della
natura montana. L'acqua zampillava dall'alto, ora precipitandosi rumorosa in
piccoli precipizii, ora si raccoglieva in un ruscelletto argentino, ora si
spargeva sopra una roccia nera come l'antracite e scintillante di cristallini
di mica, quasi fosse la ricca chioma di una ninfa, che avesse sparsi i suoi
capelli per l'aria. E tutte quelle acque si riunivano in basso nel seno
tranquillo di un laghetto, dove guizzavano pesci e pesciolini d'ogni colore e
nuotavano tranquilli e maestosi cigni, anatre, uccelli acquatici delle più
lontane regioni del globo.
Altre fontane erano di
stile classico antico, altre barocche con draghi e delfini, che vomitavano
l'acqua dalle loro faccie.
Anche il Geiser
dell'Islanda era raffigurato in un'altra fontana, dove da massi tondeggianti di
agata bionda salivano al cielo cento zampilli d'acqua, che nella notte,
illuminati dalla luce policroma dell'elettricità, davano all'occhio una festa
di colori, che non si sarebbe saziato mai di ammirare.
Le piante, i fiori,
le fontane non erano però l'unico ornamento delle piazze, dove si innalzavano
statue di grandi uomini di tutti i paesi del mondo.
Nè le statue erano
innalzate a caso; ma ogni piazza era desinata ad illustrare le glorie di
un'epoca storica o di un paese. L'elemento storico però predominava sul
geografico, perchè gli uomini civili del secolo XXXI si erano facilmente
convinti, che i genii di un'epoca si rassomigliano fra di loro assai più che
non gli uomini grandi di uno stesso paese; essendo il tempo un complesso di
elementi infiniti, che si sommano; mentre l'elemento geografico è uno solo e spesso
riunisce in una sola famiglia e per caso uomini troppo diversi e spesso
contradditorii.
In una piazza ad esempio si vedevano le statue dei più grandi uomini
dell'antica Grecia; in un'altra quelli di Roma imperiale; in una terza erano
raccolti i genii del rinascimento toscano e che da soli bastavano a popolare
una delle maggiori piazze d'Andropoli. Altrove si ammiravano le statue dei
politici inglesi, quelle dei filosofi tedeschi e così all'infinito. Ai piedi
delle statue null'altro che il nome e la data della nascita e della morte.
Paolo e Maria
dovettero prendere in affitto per un paio d'ore un tandem elettrico per
visitare l'Officina dinamica, che era molto lontana dal loro albergo.
Quell'officina
emergeva da tutte le altre case, tutte basse, a guisa di un colosso posto fra
pigmei. Era un vero palazzo, semplice
e severo nella sua architettura e dove il bello era sagrificato all'utile e
all'indispensabile.
Il direttore, a cui
erano raccomandati, servì loro da cicerone, ma essi dopo aver visto l'Isola di
Dinamo, avevano poco di nuovo da ammirare e poco da scoprire.
Quest'officina
riceveva da quell'isola direttamente tutta quanta la energia motrice necessaria
all'immensa metropoli e non faceva che distribuirla.
Ciò che era
ammirabile era un quadrante posto nel centro dell'edifizio e dove erano segnate
tutte le forze diverse, che ogni giorno dovevano essere distribuite ai privati
e agli edifizi pubblici. Un solo operaio sopraintendeva a questa distribuzione
regolare e quotidiana; mentre in una camera vicina parecchi operai stavano
attendendo le richieste di forze straordinarie, che ora chiedevano maggior
luce, maggior calore e un più grande tributo di acqua.
Si fermarono per una
mezz'ora in quel riparto ad ammirare l'ordine ammirabile, con cui giungevano le
richieste e la prontezza con cui erano soddisfatte.
Vi era un impiegato
addetto all'acqua, un altro alla luce, un terzo al calorico, un quarto alla
forza meccanica, un altro per l'elettricità; fosse poi dell'antica o della
nuova.
Le richieste
giungevano non coll'antico telefono, che però si era molto perfezionato, ma per
dispacci telegrafici, che si scrivevano da sè in caratteri luminosi in una
cassetta nera e tenuta nell'oscurità.
Il Direttore mostrò
a Paolo e Maria parecchie di queste richieste.
Nel banco della
distribuzione della forza meccanica si lesse, dopo uno squillo di campanello
che metteva l'operaio sull'attenti:
Fabbrica di
macchine agricole. Società Edison, - Regione Sud-ovest. - Via Volta, N, 37.
Domani gli operai
saranno cresciuti di un terzo. - Occorre un terzo di più di forza meccanica.
Poco dopo uno
squillo avvertiva l'operaio del banco della luce, che si richiedeva la sua
attenzione.
E infatti sul quadro
oscuro si potevano leggere queste parole:
Regione Nord-est.
- Via Omero, N. 59. Questa sera festa di ballo in famiglia. - Occorre per tutta
la notte luce triplicata.
In una sezione
speciale stava scritto: Accidenti.
E il campanello
chiamava l'operaio sull'Attenti.
Infatti la camera
oscura diceva:
Regione centrale.
- Palazzo dell'Accademia di belle arti. Sviluppato, un piccolo incendio nella
sala della stampa.
Qui anche il
Direttore si appressò con certa inquietudine al banco e prese il posto
dell'operaio, rispondendo per telegrafo:
Aprite subito il
rubinetto dell'acido carbonico e dirigete il tubo conduttore del gas sul luogo
in cui si è sviluppato l'incendio. Se il fuoco non si spegne subito, avvertite.
Pochi momenti dopo
si leggeva nella camera oscura:
Fuoco spento. -
Mille grazie.
Il Direttore si mise
a sedere e volgendosi ai suoi visitatori:
- Vedete, a questi
membri dell'Accademia di belle arti, insieme al mio consiglio avrei mandato ben
volentieri e telegraficamente uno schiaffo.
Dovete sapere, che
ogni edifizio pubblico ha un serbatoio di acido carbonico liquido, a cui si
possono adattare in pochi minuti tubi elastici, che si possono guidare dove si
vuole, dirigendo sulla fiamma o sugli oggetti che bruciano una forte corrente
di gas, che in pochi istanti spegne la fiamma e l'incendio.
Ma questi benedetti
artisti disdegnano la scienza, che mettono spesso e volentieri in canzonatura,
e ignorano quasi sempre fin gli
elementi della fisica e della chimica; ciò che non toglie che quando succede
loro il più piccolo accidente, si mettono le mani nei capelli invocando la
scienza, che essi avevano disprezzato. Voi avete assistito ad una di queste
scene. Perdoniamo però a questi ignoranti volontarii i loro capricci, perchè
sono essi, che colle loro opere mirabili ci fanno benedire la vita.
***
Un altro giorno i
nostri due pellegrini vollero visitare il mercato, o dirò meglio i mercati, che
occupano un'intera collinetta di Andropoli. Essendo piuttosto ripida la salita,
vi si sale e si scende per vie funicolari. Alcune sono per il trasporto delle
derrate, altre per le persone.
Tutto quel movimento
di treni, che salgono e scendono senza posa, tutti quei carri di fiori, di
frutta, di selvaggiume, di pesci, di carni, formano uno spettacolo curioso,
bizzarro, interessantissimo. Nessun carro alimentare però era scoperto, ma ciò
che vi era dentro si vedeva benissimo, essendo i veicoli chiusi da vetri
trasparentissimi.
Sull'alto del colle
si distende un largo altipiano, dove in distinti edificii si vendono qua i
pesci, là le carni: più in là le verdure, i legumi, le frutta, i fiori. E
dovunque un entrare, un uscire di gente, che carica sui vagoni la merce
comprata con un indirizzo. Nessuno la porta da sè, perchè una società si
incarica con appositi impiegati di far ricapitare nelle singole case le cose
comperate.
Il cuoco, il
cameriere, il signore non fanno che scegliere ciò che vogliono acquistare e lo
consegnano poi agli agenti distributori.
Paolo e Maria si
fermarono più a lungo nel mercato dei fiori e in quello delle frutta.
Nel primo era tale
una festa per gli occhi da inebbriare, tale un profumo da ricordare le delizie
dell'amore.
Nel secolo XIX i
giardini erano già una meraviglia, perchè riunivano in piccolo spazio fiori
venuti da tutte le parti del globo e le serre calde e le fredde permettevano di
coltivare anche nei paesi temperati e nelle zone fredde le piante del tropico.
Figurati che fin d'allora in Russia alcuni ricchi signori raccoglievano l'uva
nelle loro immense serre e ne facevano vino, e in Norvegia si coltivavan le
orchidee dell'America centrale.
Oggi però l'arte di
coltivare i fiori ha fatto passi da gigante, perchè non soltanto il giardiniere
può in un mazzo solo mettere insieme i fiori delle sei parti del mondo, ma
produce fiori nuovi con artifizi complicatissimi di fecondazione artificiale e
di concimi chimici. Si è riuscito perfino a far fiorire le piante e a far
maturare i frutti in tutte le stagioni dell'anno.
Una volta la luce
del sole non poteva esser sostituita da alcuna altra luce, e anche i frutti,
che artificialmente si ottenevano fuori della loro stagione naturale, erano
insipidi; così come i fiori non avevano il loro profumo e le loro bellezze.
Oggi invece un frutto o un fiore raccolto nell'inverno nelle serre calde non
può per nulla distinguersi da quello che dà nell'estate la natura sotto l'azione
potente del sole.
Il numero dei fiori
coltivati è oggi almeno mille volte maggiore che non fosse nei secoli XIX e XX,
non solo perchè non v'ha più un cantuccio del nostro pianeta, nè la più lontana
delle foreste, che non ci abbia dato il tributo delle sue piante e dei suoi
fiori; ma anche perchè l'arte ha saputo creare specie nuove, che non sembrano al primo aspetto avere parentela alcuna
colle specie che nascono spontanee nel prato e nel bosco.
Nel mercato dei
fiori si vendevano anche piante vive e fiori imbalsamati, che sembravano freschi e che ingannavano l'occhio di
tutti.
Dal mercato dei
fiori Paolo e Maria passarono in quello delle frutta.
Anche qui un incanto
per gli occhi, un profumo per il naso. La bellezza dei fiori sta a quella dei
frutti, come fra loro stanno i loro profumi.
Nei fiori la
bellezza è il fascino primo, che li rende le più care creature della terra. Si
direbbe che in essi il sommo fra i coloristi della Scuola Veneta si è alleato
col principe del disegno della Scuola Greca; per cui la profusione, la varietà
e l'intreccio dei colori non sono vinti che dall'eleganza, dalla purezza o
dalla bizzarria del disegno. Là dove il colorista innamorato, nell'esaltazione
del suo amore per il colore, lo getta a piene mani, in eccesso, col pericolo di
cadere nel barocco e nella pletora del troppo, si fa innanzi il pittore del
disegno, che nell'originalità e l'eleganza delle linee fa tale una cornice
all'orgia dei colori, da far dire a tutti:
Oh che santi e cari
alleati! Oh come stanno bene insieme nella feconda creazione del bello!
E quando il disegno
sarebbe troppo severo, troppo semplice
o rigido, viene subito il colorista colla sua inesauribile tavolozza a dar vita
e gioventù al calice troppo gretto, alla coppa troppo classica; e il fiore par
che risponda ai suoi due genitori:
Grazie, grazie!
Se i fiori son tanto
belli da bastare essi soli per dettare un trattato d'estetica a chiunque
(purchè egli non sia un filosofo); anche i loro odori sono la poesia del
profumo, che ha in essi forse un numero maggiore di note, che non abbia la
musica.
E non hanno dessi la
delicatezza e la fugacità di un sogno, che fra le palpebre socchiuse, compare e
sparisce e s'indovina più che non si senta?
E non hanno forse
anche la nota dell'aroma più ardente e più caldo, e la voluttà profonda, che sembra un contatto di carni innamorate e il piccante
e il frizzante e l'etereo e il vaporoso e il solleticante e tante e tante altre
delizie, a cui il nostro linguaggio tanto imperfetto nega lo stampo di una
parola?
E così nei frutti
forme e colori e profumi stanno tra di loro nello stesso rapporto come bellezza
di forme e soavità di odori stanno nei loro padri, e fratelli, i fiori.
Il profumo delle
frutta non ha la poesia di quello dei fiori; e se nell'ammirazione di questi,
il primo grido dell'anima è:
Oh belli!
nell'ammirazione dei frutti, il
grido invece e quest'altro:
Oh buoni!
Così le forme dei
frutti sono molto più semplici e
poche, così i loro profumi hanno poche note. Possono essere piacevoli, di raro
inebbrianti, possono essere forti, di raro o mai voluttuosi. Son profumi che
son quasi sapori, e che stanno a quelli dei fiori, come l'amicizia sta
all'amore.
E non son forse i
fiori gli amori delle piante?
E non son forse i
frutti le amicizie generate dall'amore?
A tutto questo
pensavano e tutto questo sentivano i nostri viaggiatori, passando dal mercato
dei fiori a quello dei frutti.
Anche qui vedono e
ammirano raccolti in una stessa bottega le fragole, i lamponi, i manghi, i
mangostani, le banane di cento varietà, i cocchi, gli ananassi, le cirimoie e
le pere e le mele e tanti e tanti altri frutti, che il secolo XIX non conosceva
ancora. Fra essi la pata, che un argentino ha saputo strappare alle
foreste vergini della sua patria e coltivare in Europa, facendone un frutto,
per profumo e per sapore rivale della pesca. Eppure un certo Mantegazza l'aveva
fin dal secolo XIX additata come un frutto silvestre del tutto sconosciuto agli
Europei.
Paolo e Maria,
passando dinanzi a un banco, dove erano esposte montagnole di arancie e di
mandarine, videro un monello, che ghermiva, una delle più belle e delle più
grosse e se la svignava; non però tanto svelto da non esser veduto dalla
venditrice, che gridava:
Al ladro, al ladro!
Appena fu udito
questo grido, da tutte le parti del mercato si sentì esclamare ad alta voce, da
uomini, da donne, da fanciulli:
Giustizia,
giustizia, giustizia!
E in men che nol
dico, il ladroncello fu ghermito da un signore, che alla sua volta gridava:
Giustizia,
giustizia!
Nell'anno 3000 non
vi sono carabinieri, nè poliziotti, nè guardie di pubblica sicurezza; ma ogni
cittadino onesto è carabiniere, poliziotto e per di più anche giudice.
In pochi minuti
intorno al monello si raccolsero sei cittadini, che col signore, che l'aveva
afferrato, bastavano ad improvvisare il tribunale, che si chiama la Giustizia
dei sette.
Il pubblico, dopo
aver riconosciuto che il tribunale era costituito, si ritirò, facendo circolo
intorno a quelli otto uomini; sette giudici, ed un colpevole.
- Perchè hai rubato
quest'arancia? - disse colui che aveva per il primo arrestato il piccolo
delinquente.
- Perchè avevo sete.
- Ma quell'arancia
non era tua.
- No, ma la
fruttivendola ne aveva cento e mille.
- Non importa.
Quelle arancie eran tutte sue. Dovevi chiederla o comperarla. Tu hai rubato e
te n'andrai alla Casa di giustizia.
Allora uno dei sette
disse:
- Io scendo appunto
nella città e abito in quei pressi. Lo condurrò io stesso colà. Datemi la
sentenza.
Uno dei sette staccò
un foglietto da un portafoglio che aveva in tasca e scrisse:
Fanciullo ladro di
un'arancia.
Tutti i sette
firmarono il foglio e l'accompagnatore lo prese e se n'andò col monello, che
senza opporre resistenza, ma piagnucolando lo seguì.
E tutto rientrò
nell'ordine di prima.
- Vedi, Maria, - disse
Paolo, - tu hai assistito ad un giudizio e ad una sentenza, come si suol fare
per tutti i delitti, anche pei maggiori.
In questo caso si
trattava del semplice furto di
un'arancia, ma se quel ragazzaccio avesse rubato un diamante o un portafogli
pieno di denaro o avesse dato una coltellata ad un suo compagno, si sarebbe
gridato egualmente:
Giustizia,
giustizia!
E nello stesso modo
si sarebbero riuniti sette galantuomini, avrebbero fatto un giudizio sommario e
avrebbero condotto il colpevole alla Casa di giustizia.
E questa Casa non è
già un carcere, come quelli che si usavano anticamente, ma una specie di
scuola, dove si correggono i colpevoli: dove si studiano con amore le cause,
che possono aver condotto a delinquere. -
Maria interruppe
Paolo:
- Ma tu mi hai
detto, che alcuni specialisti esaminano il cervello dei bambini appena nati e
quando scoprono in essi una tendenza irresistibile al delitto, li sopprimono.
- E questo è vero, -
rispose Paolo, - ma non si distruggono che i delinquenti nati, cioè coloro, che
per la speciale e fatale organizzazione delle loro cellule cerebrali sono
necessariamente consacrati al delitto. Essi ucciderebbero e ruberebbero anche
se nascessero ricchi, anche se la fortuna li mettesse nelle condizioni più
felici. Queste però sono rarissime eccezioni. Tutti gli altri uomini nascono
onesti, ma sono figli di lontanissimi padri, che vivevano nella vita selvaggia,
che rendeva necessaria la violenza, e conservano nel loro cervello un germe
celato del delitto, che in circostanze favorevoli può svilupparsi e condurli a
uccidere o a rubare. Non vi ha uomo su questa terra, che in un impeto subitaneo
di passione non possa per odio o per vendetta rendersi colpevole di un omicidio
o di un furto.
La nostra civiltà
cerca da secoli di educare l'uomo in modo di sopprimere, di soffocare quei
germi atavici; mentre d'altra parte si cerca di organizzare la vita sociale in
modo che il delitto sia inutile e dannoso a chi lo commette. Un tempo la
giustizia umana non si occupava che di punire: oggi invece cerchiamo di
prevenire la colpa, rendendola difficile o impossibile. E che questo lavoro
della civiltà non sia inutile, lo prova la statistica del delitto, che lo
dimostra sempre più raro. Ciò non
toglie che abbiamo sempre dei ladri
e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso
intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l'uno si metta a livello
dell'altro.
- Dunque oggi non si
puniscono più i delitti?
- Sì, ma la pena è
ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione
sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano?
Nella Casa di
giustizia, il ladro, l'assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di
dimostrar loro l'enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non
è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione.
La chiusura non dura
che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad
alcuni mesi E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso
in libertà porta per qualche tempo all'occhiello dell'abito un nastrino giallo,
che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con
diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o
tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E
quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua
condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini.
- E quando il
delinquente è recidivo?
- Oh allora, la pena
della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole,
uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene
però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore
dell'esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione.
***
Pochi momenti dopo
Paolo e Maria, scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte
frutta e ritornavano al loro albergo.
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