PRIMA PARTE
Figliuolo Carissimo,
M'ha fatto meraviglia davvero che tu, Convittore di un Collegio, ti dessi a
cercarmi con desiderio cosí vivo una traduzione italiana di due componimenti
poetici del Bürger.
Che posso io negare al figliuolo mio? Povero vecchio inesercitato, ho penato
assai a tradurli; ma pur finalmente ne sono venuto a capo.
In tanta condiscendenza non altro mi stava a cuore che di farti conoscere il
Bürger; però non mi resse l'animo di alterare con colori troppo italiani i
lineamenti di quel Tedesco: e la traduzione è in prosa. Tu vedi che anche col
fatto io sto saldo alle opinioni mie; e la verità è che gli esempi altrui mi
ribadiscono ogni dí piú questo chiodo. Non è, per altro, ch'io intenda dire che
tutto tuttoquanto di poetico manda una lingua ad un'altra, s'abbia da questa a
tradurre in prosa. Nemico giurato di qualunque sistema esclusivo, riderei di chi
proponesse una legge siffatta, come mi rido di Voltaire che voleva che i versi
fossero da tradursi sempre in versi. Le ragioni che devono muovere il
traduttore ad appigliarsi più a l'uno che all'altro partito stanno nel testo e
variano a seconda della diversa indole e della diversa provenienza di quello.
Tutti i popoli che più o meno hanno lettere, hanno poesia. Ma non tutti i
popoli posseggono un linguaggio poetico separato dal linguaggio prosaico. I
termini convenzionali per l'espressione del bello non sono da per tutto i
medesimi. Come la squisitezza nel modo di sentire, così anche l'ardimento nel
modo di dichiarare poeticamente le sensazioni, è determinato presso di
ciaschedun popolo da accidenti dissimili. E quella spiegazione armoniosa di un
concetto poetico, che sarà sublime a Londra od a Berlino, riescirà non di rado
ridicola, se ricantata in Toscana.
Ché se tu mi lasci il concetto straniero, ma per servire alle inclinazioni
della poesia della tua patria me lo vesti di tutti panni italiani e troppo diversi
da` suoi nativi, chi potrà in coscienza salutarti come autore, chi ringraziarti
come traduttore?
Colla prosa la faccenda è tutt'altra; da che allora il lettore non si
dimentica un momento mai che il libro ch'ei legge è una traduzione; e tutto
perdona in grazia del gusto ch'egli ha nel fare amicizia con genti ignote, e
nello squadrarle da capo a piedi tal quali sono. Il lettore, quand'ha per le
mani una traduzione in verso, non sempre può conseguire intera una tale
soddisfazione. La mente di lui, divisa in due, ora si rivolge a raffigurare
l'originalità del testo, ora a pesare quanta sia l'abilità poetica del
traduttore. Queste due attenzioni non tirano innanzi molto così insieme; e la
seconda per io più vince; perché l'altra, come quella che è la meno
direttamente adescata e la meno contentata, illanguidisce. Ed è allora che chi
legge si fa schizzinoso di più; e come se esaminasse versi originali italiani,
ti crivella le frasi fino allo scrupolo.
Chi porrà mente alle circostanze differenti che rendono differente il modo
di concepire le idee e verrà investigando le origini delle varie lingue e
letterature, troverà che i popoli, anche per questo lato, hanno tra di loro de`
gradi maggiori o minori di parentela. Da ciò deriverà al traduttore tanto lume
che basti per metter lui sulla buona via, ov'egli abbia intenzione conforme
all'obbligo che gli corre: quella cioè di darci a conoscere il testo, non di
regalarcene egli uno del suo.
Il sig. Bellotti imprese a tradurre Sofocle; e prima ancora che comparisse in
luce quell'esimio lavoro, chi sognò mai ch'egli si fosse ingannato nella scelta
del mezzo, per aver pigliato a condurre in versi la sua traduzione?
Per lo contrario, vedi ora, figliuolo mio, se io ti abbia vaticinato il
falso quando ti parlai tempo fa d'una traduzione del Teatro di Shakespeare,
prossima allora ad uscire in Firenze. Il sig. Leoni ha ingegno, anima,
erudizione, acutezza di critica, disinvoltura di lingua italiana, cognizione
molto di lingua inglese, tutti, insomma, i requisiti per essere un valente
traduttore di Shakespeare. Ma il sig. Leoni l'ha sbagliata. I suoi versi sono
buoni versi italiani. Ma che vuoi? Shakespeare è svisato; e noi siamo tuttavia
costretti ad invidiare ai Francesi il loro Le Tourneur. E sí che il sig. Leoni
bastava a smorzarcela affatto questa invidia!
Di quanti altri puntelli potrebbesi rinfiancare questo argomento lo sa Dio.
Ma perché sbracciarmi a dimostrare che il fuoco scotta? Chi s'ostina a negarlo,
buon pro per lui!
E non occorre dire che la lingua nostra non si pieghi ad una prosa robusta,
elegante, snella, tenera quanto la francese. La lingua italiana non la sapremo
maneggiare con bella maniera né io, né tu; perché tu sei un ragazzotto, ed io
un vecchio dabbene e nulla più; ma fa ch'ella trovi un artefice destro ed è
materia da cavarne ogni costrutto. Ma questa materia non istà tutta negli
scaffali delle biblioteche. Ma non là solamente la vanno spolverando quei pochi
cervelli acuti che non aspirano alla fama di messer lo Sonnifero.
In Italia qualunque libro non triviale esca in pubblico, incontra bensì qua
e là qualche drappelletto minuto di scrutinapensieri, che pure
non lo spaventano mai con brutto viso, perché genti di lor natura savie e
discrete. Ma, poveretto! eccolo poi dar nel mezzo ad un esercito di scrutinaparole,
infinito, inevitabile, e sempre all'erta, e prodigo sempre d'anatemi. Però io,
non avuto riguardo per ora alla fatica che costano i bei versi a tesserli,
confesso che qui tra noi, per rispetto solamente alla lingua, chiunque si
sgomenta de` latrati dei pedanti piglia impresa meno scabra d'assai se scrive
in versi e non in prosa. Confesso che, per rispetto solamente alla ligua e non
ad altro, tanto nel tradurre come nel comporre di getto originale, il montar
su' trampoli e verseggiare costa meno pericoli. Confesso che allo scrittore di
prose bisogno studiare e: libri e uomini e usanze; perocché altro è lo stare
ristretto a' confini determinati di un linguaggio poetico, altro è lo spaziarsi
per l'immenso mare di una lingua tanto lussuriante ne' modi, e viva e parlata
ed alla quale non si può chiudere il Vocabolario, se prima non le si fanno le
esequie .Ma lo specifico vero per salire in grido letterario è forse
l'impigrire colle mani in mano, e l'inchiodar sé stessi sul Vocabolario della
Crusca, come il Giudeo inchioda sul travicello i suoi paperi perché ingrassino?
No no, figliuolo mio, la penuria che oggidí noi abbiamo di belle prose non
proviene, grazie a Dio, da questo che la lingua nostra non sia lingua che da
sonetti. Fa che il tuo padre spirituale ti legga la parabola dei talenti
nell'Evangelista; e la santa parola con quel >"serve male et piger"
ti snebbierà questo fenomeno morale.
Ora, per dire di ciò che importa a te, sappi, o carissimo, che i Lirici
Tedeschi piú rinomati, parlo della scuola moderna, sono tre: il Goethe, lo
Schiller e il Bürger. Quest'ultimo dotato di un sentire dilicato, ma d'una
immaginazione altresí arditissima, si piacque spesso di trattare il terribile.
Egli scrisse altre poesie sull'andare del Cacciatore Feroce e della Eleonora;
ma queste due sono le piú famose. Io credo di doverle chiamare Romanzi:
e se il vocabolo spiacerà ai dotti d'Italia, non farò per questo a scappellotti
colle signorie loro.
Poesie di simil genere avevano i Provenzali; bellissime piú di tutti e molte
ne hanno gli Inglesi; ne hanno gli Spagnuoli; altre e d'altri autori i
Tedeschi; i Francesi le coltivavano un tempo; gli Italiani, ch'io sappia, non
mai: se pure non si ha a tener conto di leggende in versi, congegnate, non da'
poeti letterati, ma dal volgo, e cantate da lui; fra le quali quella della
Samaritana meriterebbe forse il primato per la fortuna di qualche strofetta.
Non pretendo con ciò di menomare d'un pelo la reputazione di alcuni Romanzi
in dialetti municipali; perché, parlando di letteratura italiana, non posso
aver la mira che alla lingua universale d'Italia.
Il Bürger portava opinione che "la sola vera poesia fosse la
popolare". Quindi egli studiò di derivare i suoi poemi quasi sempre da
fonti conosciute, e di proporzionarli poi sempre con tutti i mezzi dell'arte
alla concezione del popolo. Anche delle composizioni che ti mando oggi
tradotte, l'argomento della prima è ricavato da una tradizione volgare; quello
della seconda è inventato, imitando le tradizioni comuni in Germania; il che
vedremo in seguito piú distesamente. Anche in entrambi questi componimenti v'ha
una certa semplicità di narrazione che manifesta nel poeta il proponimento, di
gradire alla moltitudine.
Forse il Bürger, com'è destino talvolta degli uomini d'alto ingegno,
trascorreva in quella sua teoria agli estremi. Ma perché i soli uomini d'alto
ingegno sanno poi di per sé stessi ritenersene giudiziosamente nella pratica,
noi, leggendo i versi del Bürger, confessiamo che neppure il dotto vi scapita,
né ha ragione di dolersi del poeta. L'opinione nondimeno che la poesia debba
essere popolare non albergò solamente presso del Bürger; ma a lei s'accostarono
pur molto anche gli altri poeti sommi d'una parte della Germania. Né io credo
d'ingannarmi dicendo ch'ella pende assai nel vero. E se, applicandola alla
storia dell'arte e pigliandola per codice nel far giudizio delle opere dei
poeti che furono, ella può sembrare troppo avventata — giacché al Petrarca, a
modo d'esempio, ed al Parini, benché, rade volte popolari, bisogna, pur fare di
cappello — parmi che, considerandola come consiglio a' poeti che sono ed
ammettendola con discrezione, ella sia santissima. E dico cosi, non per
riverenza servile a' Tedeschi ed agli Inglesi, ma per libero amore dell'arte e
per desiderio che tu, nascente poeta d'Italia, non abbia a dare nelle solite
secche che da qualche tempo in qua impediscono il corso agli intelletti e
trasmutano la poesia in matrona degli sbadigli.
Questa è la precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i
libri del Blair, del Villa e de' loro consorti, tosto che la barba sul mento
darà indizio di senno in te piú maturo. Allora avrai da me danaro per
comperartene altri, come a dire del Vico, del Burke, del Lessing, del
Bouterweck, dello Schiller, del Beccaria, di Madama de Stael, dello Schlegel e
d'altri che fin qui hanno pensate e scritte cose appartenenti alla Estetica: né
il Platone in Italia del Consigliere Cuoco sarà l'ultimo dei doni ch'io ti
farò. Ma per ora non dir nulla di questo co' maestri tuoi, che già non
t'intenderebbono.
Tuttavolta, perché la massima della popolarità della poesia mi preme troppo
che la si faccia carne e sangue in te, contentati ch'io m'ingegni fin d'ora di
dimostrartene la convenienza cosí appena di volo, e come meglio può un
vecchiarello che non fu mai in vita sua né poeta né filologo né filosofo.
Tutti gli uomini, da Adamo in giú fino al calzolaio che ci ,fa i begli
stivali, hanno nel fondo dell'anima una tendenza alla Poesia. Questa tendenza,
che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva; non è che una corda
che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell'animo di que' rari
individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si
compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li
fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de' poeti, e
gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l'>"est Deus in
nobis". Di qui il piú vero dettato di tutti i filosofi; che i
Poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma
dell'intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni
dalla eccellenza de' loro poeti, parmi che non iscandaglierebbe da savio. Né
savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità
nazionali. Omero, Shakespeare, il Calderon, il Camoens, il Racine, lo Schiller
per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, l'Ariosto e l'Alfieri. La
repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti
indistintamente. La predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto
di terra ove nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai, né
alla energia dell'amore che il vero poeta consacra per istinto dell'arte sua a
tutta insieme la umana razza, né alla intensa volontà, per la quale egli studia
colle opere sue di provvedete al diletto ed alla educazione di tutta insieme
l'umana razza. Però questo amore universale, che governa l'intenzione de'
poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l'obbligo della
gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da
questo sacro dovere. Fin anche l'ira della guerra rispetta la tomba d'Omero e
la casa di Pindaro.
Il poeta, dunque, sbalza fuori dalle mani della natura in ogni tempo, in
ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere
fortemente l'animo de' lettori suoi, né mai potrà ritrarne alto e sentito
applauso, se questi non sono ricchi anch'essi della tendenza poetica passiva.
Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in
tutti gli uomini egualmente squisita.
Lo stupido Ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i
campi di sabbia che la circondano, e s'addormenta. Esce de' suoi sonni, guarda
in alto, vede un cielo uniforme stenderseli sopra del capo, e s'addormenta.
Avvolto perpetuamente tra il fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre,
egli non ha altri oggetti, dei quali domandare alla propria memoria l'immagine,
pe' quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e
del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per lo contrario un Parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di
quella gran capitale, onde pervenire a tanta Civilizzazione, è passato
attraverso una folla immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni
di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per
troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per cosí
dire); gli effetti di esse non lo commuovono piú, perché ripetuti le tante
volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni,
giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in
vigoria, da che l'anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze
che in altri destina alla fantasia ed al cuore, cresce in arguzie per gli
sforzi frequenti a' quali la meditazione la costringe. E il Parigino di cui io parlo,
anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini, o per dirla
a modo del Vico, diventa filosofo.
Se la stupidità dell'Ottentoto è nemica alla poesia, non è certo favorevole
molto a lei la somma civilizzazione del Parigino. Nel primo la tendenza poetica
è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano
nell'anima del primo, perché non trovano la via d'entrarvi. Nell'anima del
secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia
ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E siffatti
canti, che sono l'espressione arditissima di tutto ciò che v'ha di piú fervido
nell'umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che
meraviglia se presso del Parigino ingentilito quel poeta sarà piú bene accolto
che piú penderà all'epigrammatico?
Ma la stupidità dell'Ottentoto è separata dalla leziosaggine del Parigino
fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione che piú o
meno dispongono l'uomo alla poesia. E s'io dovessi indicare uomini che piú si
trovino oggidí in questa disposizione poetica,, parmi che andrei a cercarli in
una parte della Germania.
A consolazione, non pertanto, de' poeti, in ogni terra, ovunque è coltura
intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n'ha bensí in copia
ora maggiore ora minore, ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d'uopo
conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerà
mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della
plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne'
gabinetti delle Aspasie nelle corti dei Principi, e nulla piú Ad ogni tratto
egli rischierà, di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il Capo
di Buona Speranza, ora il Cortile del Palais—Royal. E dell'indole dei suoi
concittadinì egli non saprà mai un ette.
Che s'egli considera che la sua nazione non la compongono que' dugento che
gli stanno intorno nelle veglie o ne' conviti; se egli ha mente a questo, che
mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono, e sentono
le passioni tutte, senza pure avere un nome ne' teatri, può essere che a lui si
schiarisca innanzi un altro orizzonte; può essere che egli venga accostandosi ad
altri pensieri ed a piú vaste intenzioni.
L'annoverare qui gli accidenti fisici propizi o a i versi alla tendenza
poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtú morale, possa
essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni
civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche, non fa
all'intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i
libri ch'io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti
nazioni d'Europa (l'italiana anch'essa, né piú né meno)sono formate da tre
classi d'individui: l'una di Ottentoti; l'una di Parigini; e l'una, per ultimo,
che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non, eccettuati
quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant'altri, pur tuttavia
ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di popolo.
Della Prima classe, che è quella dei balordi calzati e scalzi, non occorre
far parole. La seconda, che racchiude in sé quei pochi, I quali escono della
comune in modo da perdere ogni impronta nazionale, vuole bensí essere
rispettata dal poeta, ma non idolatrata, ma non temuta. Il giudizio che i
membri di questa classe fanno delle moderne opere poetiche, non suole derivare
dal suffragio immediato delle sensazioni, ma da' confronti. Negli anni del
fervore eglino hanno trovato il bello presso tale e tal altro poeta; e ciò che
non somiglia al bello sentito un tempo, pare loro di doverlo ora ricusare. Le
opinioni scolastiche, i precetti bevuti pigramente un tempo come infallibili,
reggono tuttavia il loro intelletto, che non li mise mai ad esame, perché
d'altro curante. Però l'orgoglio umano, a cui è duro il dover discendere a
discredere ciò che per molti anni s'è creduto, il piú delle volte li fa tenaci
delle massime inveterate. E il piú delle volte eglino combattono per esse come
per l'antemurale della loro riputazione. Allora ogni arme, ogni scudo giova. E
perché una serie di secoli non si brigò piú che tanto di discutere l'importanza
di quelle massime, eccoti in campo un bell'argomento di difesa nel silenzio
delle generazioni. Chi tace non parla, diciamo noi. Ma chi tace approva, dicono
essi; e il sopore dei secoli lo vanno predicando come consenso assoluto di
tutta quanta la ragione umana alla necessità di certe regole chiamate, Dio sa
perché, di buon gusto; e però via via d'ugual passo sgozzano ad esse ogni
tratto qualche vittima illustre.
La lode che al poeta viene da questa minima parte della sua nazione non può
davvero farlo andare superbo; quindi anche il biasimo ch'ella sentenzia, non ha
a mettergli grande spavento. La gente ch'egli cerca, i suoi veri lettori stanno
a milioni nella terza classe. E questa, cred'io, deve il poeta moderno aver di
mira, da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s'egli
bada al proprio interesse ed all'interesse vero dell'arte. Ed ecco come la sola
vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e
salva sempre la discrezione ragionevole questa regola vuole essere interpretata.
Se i poeti moderni d'una parte della Germania me nano tanto romore di sé in
casa loro, e in tutte le contrade d'Europa, ciò è da ascriversi alla popolarità
della poesia loro. E questa salutare direzione ch'eglino diedero all'arte fu
suggerita loro dagli studi profondi fatti sul cuore umano, sullo scopo
dell'arte, sulla storia di lei e sulle opere ch'ella in ogni secolo produsse:
fu suggerita loro dalla divisione in classica e romantica ch'eglino
immaginarono nella poesia.
Però sappi, tra parentesi, che tale divisione non è un capriccio di bizzarri
intelletti, come piace di borbottare a certi giudici, che senza processare
sentenziano; non è un sotterfugio per sottrarsi alle regole che ad ogni genere
di poesia convengono; da che uno de' poeti chiamati romantici, è il Tasso. E
fra le accuse che si portano alla Gerusalemme, chi udì mai messa in campo
quella di trasgressione delle regole? Qual altro poema piú si conforma alle
speculazioni algebraiche degli Aristotelici?
Né ti dare a credere, figliuolo mio, che con quella divisione i tedeschi di
cui parlo pretendessero che d'una arte, la quale è unica, indivisibile, si
avesse a farne due; perocché stolti non erano. Ma se le produzioni di
quest'arte, seguendo l'indole diversa dei secoli e delle civilizzazioni, hanno
assunte facce differenti, perché non potrò io distribuirle in tribù differenti?
E se quelle della seconda tribù hanno in sé qualche cosa che più intimamente
esprime l'indole della presente civilizzazione europea, dovrò io rigettarle per
questo solo che non hanno volto simile al volto della prima tribù?
Di mano in mano che le nazioni europee si riscuotevano dal sonno e
dall'avvilimento, di che le aveva tutte ingombrate la irruzione de' barbari
dopo la caduta dell'impero romano, poeti qua e là emergevano a ringentilirle.
Compagna volontaria del pensiero e figlia ardente delle passioni, l'arte della
poesia, come la fenice, era risuscitata di per sé in Europa, e di per sé anche
sarebbe giunta al colmo della perfezione. I miracoli di Dio, le angosce e le fortune
dell'amore, la gioia de' conviti, le acerbe ire, gli splendidi fatti de'
cavalieri muovevano la potenza poetica nell'anima de' trovatori. E i trovatori,
né da Pindaro instruiti né da Orazio, correndo all'arpa prorompevano in canti
spontanei ed intimavano all'anima del popolo il sentimento del bello, gran
tempo ancora innanzi che l'invenzione della stampa e i fuggitivi di
Costantinopoli profondessero daper tutto i poemi de' greci e de' latini.
Avviata così nelle nazioni d'Europa la tendenza poetica, crebbe ne' poeti il
desiderio di lusingarla più degnamente. Però industriaronsi per mille maniere
di trovare soccorsi; e giovandosi della occasione, si volsero anche allo studio
delle poesie antiche, in prima come ad un santuario misterioso accessibile ad essi
soli, poi come ad una sorgente pubblica di fantasie, a cui tutti i lettori
potevano attignere. Ma ad onta degli studi e della erudizione, i poeti, che dal
risorgimento delle lettere giù fino a' dì nostri illustrarono l'Europa e che
portano il nome comune di moderni, tennero strade diverse. Alcuni, sperando di
riprodurre le bellezze ammirate ne' greci e ne' romani, ripeterono, e più
spesso imitarono modificandoli, i costumi, le opinioni, le passioni, la
mitologia de' popoli antichi.
Altri interrogarono direttamente la natura: e la natura non dettò loro né
pensieri né affetti antichi, ma sentimenti e massime moderne. Interrogarono la
credenza del popolo: e n'ebbero in risposta i misteri della religione
cristiana, la storia di un Dio rigeneratore, la certezza di una vita avvenire,
il timore di una eternità di pene. Interrogarono l'animo umano vivente: e
quello non disse loro che cose sentite da loro stessi e da' loro contemporanei;
cose risultanti dalle usanze ora cavalleresche, ora religiose, ora feroci, ma o
praticate e presenti o conosciute generalmente; cose risultanti dal complesso
della civiltà del secolo in cui vivevano. La poesia de' primi è classica,
quella de' secondi è romantica. Cosí le chiamarono i dotti d'una parte della
Germania, che dinanzi agli altri riconobbero la diversità delle, vie battute
dai poeti moderni. Chi trovasse a ridire a questi, vocaboli, può cambiarli a
posta sua. Però io stimo di poter nominare con tutta ragione poesia de' morti
la prima, e poesia de' vivi la seconda. Né temo d'ingannarmi dicendo che Omero,
Pindaro, Sofocle, Euripide ec. ec., al tempo loro, furono in certo modo
romantici, perché non cantarono le cose degli Egizzi o de' Caldei, ma quelle
dei loro Greci; siccome il Milton non cantò le superstizioni omeriche, ma le
tradizioni cristiane. Chi volesse poi soggiungere che anche fra i poeti moderni
seguaci del genere classico quelli sono i migliori, che ritengono molta
mescolanza del romantico, e che giusto giusto allo spirito romantico essi
devono saper grado se le opere loro vanno salve da l'oblio, parmi che no
meriterebbe lo staffile. E la ragione non viene ella forse in sussidio di
siffatte sentenze, allorché gridando c'insegna che la poesia vuole essere
specchio di ciò che conmuove maggiormente anima? Ora l'anima è commossa al vivo
dalle cose nostre che ci circondano tutto dí, non dalle antiche altrui, che a
noi sono notificate per mezzo soltanto de' libri e della storia.
Allorché tu vedrai addentro in queste dottrine, e ciò non sarà per via delle
gazzette, imparerai come i confini del bello poetico siano ampi del pari che
quelli della natura, e che la pietra di paragone, con cui giudicare di questo
bello, è la natura medesima e non un fascio di pergamene; imparerai come va
rispettata davvero la letteratura de' Greci e de' Latini; imparerai come
davvero giovartene. Ma sentirai altresí come la divisione proposta contribuisca
possentemente a sgabellarti dal predominio sempre nocivo dell'autorità. Non
giurerai piú nella parola di nessuno, quando trattasi di cose a cui basta il
tuo intelletto. Farai della poesia tua una imitazione della natura, non una
imitazione di imitazione. A dispetto de' tuoi maestri, la tua coscienza ti
libererà dal l'obbligo di venerare ciecamente gli oracoli di un codice vecchio
e tarlato, per sottoporti a quello della ragione, perpetuo e lucidissimo. E
riderai de' tuoi maestri che colle lenti sul naso continueranno a frugare nel
codice vecchio e tarlato, e vi leggeranno fin quello che non v'è scritto.
Materia di lungo discorso sarebbe il voler parlare all'Italia della
divisione suaccennata; ed importerebbe una anatomia lunghissima delle qualità
costituenti il genere classico, e di quelle che determinano il romantico. A me
non concede la fortuna né tempo, né forze. sufficienti per tentare una siffatta
dissertazione: perocché il ripetere quanto hanno, detto su di ciò i Tedeschi
non basterebbe. Avvezzi a vedere ogni cosa complessivamente, eglino non di rado
trascurano, di segnare i precisi confini de' loro sistemi; e la fiaccola, con
cui illuminano i passi altrui, manda talvolta una luce confusa.
Ma poiché in Italia, a giudicare da qualche cenno già apparso non v'ha
difetto intero di buona filosofia, io prego, che un libro sia composto
finalmente qui tra noi, il quale non tratti d'altro che di questo argomento, e
trovi modo di appianar tutto, di confermare nel proposito i già iniziati,
rincorare i timidi, e di spuntare con cristiana carità le corna al pedanti.
Ben è vero che a que' pochi del mestiere, a' quali può giovare per le opere
loro una idea distinta del genere romantico, questa, io spero, sarà già entrata
nel cervello loro, mercè l'acume della propria lor mente. Ma perché voi altri
giolvinetti siete esposti alla furia di tante contrarie sentenze, e la verità
non siete in caso di snudarla da per voi, è bene che qualcuno metta in mano
vostra ed in mano del pubblico un libro che vi scampi dal peccato, pur sí
frequente in Italia, di bestemmiare ciò che si ignora.
Intanto,che il voto mio va ricercando chi lo accolga e lo secondi; intanto che,
irritati dalla novità del vocabolo romantico, da Dan fino a Bersabea si.levano
a fracasso i pedanti nostri, e fanno a rabbuffarsi l'un l'altro, e a
contumeliarsi e a sagramentare, e a non intendersi tra di loro, come a
Babilonia; intanto che la divisione, per cui si arrovellano, è per loro piú
mistica della piú mistica dottrina del Talmud, vediamo, figliuolo mio, quali
effetti ottenessero i poeti che la immaginarono.
Posti frammezzo a un popolo non barbaro, non civilissimo, se se ne riguarda
tutta, la massa degli abitanti, e non la sola schiera degli studiosi, i poeti
recenti d'una parte della Germania dovevano superare in grido i loro
confratelli contemporanei sparsi nel restante d'Europa. Ma della fortuna della
poesia loro tutto il merito non, è da darsi alla fortuna del loro nascimento.
L'essersi avveduti di questa propizia circostanza, e l'aver saputo trarne
partito, è merito personale. E a ciò contribuí, del pari che l'arguzia
dell'ingegno, la santità del cuore. Sentirono essi che la verissima delle Muse
è la Filantropia e che l'arte loro aveva un fine ben piú sublime che il diletto
momentaneo di pochi oziosi. Però, avidi di richiamare l'arte a' di lei
principi, indirizzandola al perfezionamento morale del maggior numero de' loro
compatrioti, eglino non gridarono, come Orazio: >" Satis est
equitem nobis plaudere "; non mirarono a piaggiare un
Mecenate, a gratificarsi un Augusto, a procurarsi un seggio al banchetto dei
grandi; non ambirono i soli battimani d'un branco di scioperati raccolti
nell'anticamera del Principe.
Oltrediché non è da tacersi come insieme a questo pio sentimento congiurasse
anche nelle anime di que', poeti la sete della gloria, ardentissima sempre ne'
sovrani ingegni, e sprone inevitabile al far bene. Eglino avevano letto che in
Grecia la corona del lauro non l'accordavano né Principi, né Accademie, ma
cento e cento mila persona convenute d'ogni parte in Tebe e in Olimpia. Avevano
letto che i canti di Omero, di Tirteo non erano misteri di letterati, ma
canzoni di popolo. Avevano letto che Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane non
si facevano belli della lode de' loro compagni di mestiere; ma anelavano al
plauso di trentamila spettatori; e l'ottenevano. Quindi, agitati da castissima
invidia, vollero anch'essi quel plauso e quella corona. Ma e in che modo
conseguirla? Posero mente alle opere che ci rimangono de' poeti greci; e
quantunque s'innamorassero sulle prime della leggiadria di quei versi, dello
splendore di quella elocuzione, dell'artificio mirabile con cui le immagini
erano accoppiate e spiegate, pure non si diedero a credere che in ciò fosse
riposto tutto il talismano. E come crederlo, se in casa loro e fuori di casa
vedevano condannati all'untume del pizzicagnolo versi, a cui né sceltezza di
frasi mancava, né armonia?
Lamibiccarono allora essi con piú fina critica quelle opere onde scoprire di
che malìe profittavansi in Grecia i poeti per guadagnarsi tanto suffragio dai
loro contemporanei. Videro che queste malíe erano i loro Dei, la loro
religione, le loro superstizioni, le loro leggi, i loro riti, i loro costumi,
la storia loro, le loro tradizioni volgari, la geografia loro, le loro
opinioni, i loro pregiudizi, le foggie loro ec. ec. ec.
— E noi, dissero eglino, noi, abbiamo altro Dio, altro culto; abbiamo anche
noi le nostre superstizioni, abbiamo altre leggi, altri costumi, altre
inclinazioni piú ossequiose e piú cortesi verso la beltà femminina. Caviamo di
qui anche noi le malíe nostre, e il popolo c'intenderà. E i versi nostri non
saranno per lui reminiscenze d'una fredda erudizione scolastica, ma cose
proprie e interessanti e sentite nell'anima.
— A rinforzarli nella determinazione soccorse loro l'esempio altresí de'
poeti che dal risorgimento delle lettere in Europa fino a' dí nostri sono i piú
famosi. E chi negherà questi essere tanto piú venerati e cari, quanto di queste
nuove malie piú sparsero ne' loro versi?
Cosí i poeti d'una parte della Germania co' medesimi auspici, con l'arte
medesima né piú né meno, col medesimo intendimento de' Greci scesero
nell'arringo, desiderarono la palma, e chiesero al popolo che la desse loro. E
il popolo, non obbliato, non vilipeso da' suoi poeti; ma carezzato, ma
dilettato, ma istruito, non ricusò d'accordarla.
A che miri la parola mia, tu lo sai; però fanne senno, figliuolo mio, e non
permettere che la paterna carità si sfoghi al vento. So che agli uomini piace
talvolta di onestare la loro inerzia con bei paroloni. Ma io non darò retta mai
né a te, né a chiunque mi ritesserà le solite canzoni: e che l'Italia è un
armento di venti popoli divisi l'uno dall'altro, e ch'ella non ha una gran
città capitale dove ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno ove
non è una patria.,Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l'avevano questa unità di patria
e questo tumulto d'una capitale unica i poeti dei quali ho parlato? E se noi
non possediamo una comune piatria politica, come neppure essi la possedevano,
chi ci vieta di crearci intanto, com'essi, a conforto delle umane sciagure una
patria letteraria comune? Forse che Dante, il Petrarca, l'Ariosto per fiorire
aspettarono che l'Italia fosse una? Forse che la latina è la piú splendida
delle letterature? E non di meno qual piú vasta metropoli di Roma sotto
Ottaviano e sotto i Cesari?'
" Voi (gridava l'altro dí nella voce dell'ira sua il Curato di Monte
Atino, l'amico mio dall'anima ardente), voi, se i siete caldi di vero amore per
la vostra, bella Italia, levate l'orecchio, o generosi italiani. Udite come
tutta quanta l'Europa ne rinfaccia d'ogni parte il presente decadimento delle
nostre lettere è egli da credersi che tanta universalità di disprezzo si tutta
opera della malignità? Ponetevi, in nome di Dio! Ponetevi una mano al petto;
interrogate la coscienza vostra. E non la sentite anch'essa tremar di vergogna?
Però perdonate gli insulti villani, con che ne strapazzano oggi que' popoli
stessi che un tempo, o ne lodavano, o taciturni rodevansí d'invidia pe' nostri
trionfì letterari. Alle calunnie chè calunnie pur anco piovono addosso
all'Italia, non istate ad occorre altro che la dignità del silenzio; e cadranno
di per sé. Ma dè consigli giovatevi: e la gloria della vostra terra
ricuperatela col far voi, non col citare le opere degli avi nostri. >Gloria
nostra sit terstimonium conscientae nostrae, diceva S. Paolo a que'
di Corinto. Vincete l'avversità collo studio; smettete una volta la boria di
reputarvi i soli europei che abbiano occhi in testa; smettete la petulanza con
cui vi sputate l'un l'altro in viso e per inezie da fanciulli, unitevi l'un
l'altro coi vincoli di amorosa concordia fraterna, senza della quale voi sarete
sempre nulli in tutto e pertutto. E poichè perspicacia d'intelletto non ve ne
manca, solo che vogliate rifarvi dalle male abitudini, lavorate, ve ne
scongiuro, e lavorate da senno. Ma prima di tutto spogliatevi della stolida
devozione per un solo idolo letterario. Leggete Omero, leggete Virgilio, che
Dio ve ne benedica. Ma tributate e vigilie e incenso anche a tutti gli altri
begli altari che i poeti in ogni tempo e in ogni luogo innalzarono la natura. E
quantunque a rischio di lasciare qualche dì nella dimenticanza e i volumi
dell'antichità e i volumi de' moderni, traetevi ad esaminare da vicino voi
stessi la natura, e lei imitate, lei solo davvero e niente altro. Rendetevi
coevi al secolo vostro, e non ai secoli seppelliti: spacciatevi dalla nebbia
che oggidì invocate sulla vostra dizione; spacciatevi dagli arcani sibillini,
dalle vetuste liturgie, da tutte le Veneri e da tutte le loro turpitudini;
cavoli già putridi non rifriggeteli. Fate di piacere al popolo vostro;
investigate l'animo di lui; pascetelo di pensieri e non di vento. Credete voi
forse che i lettori italiani non gustino altro che il sapore dell'idioma e il
lusso della verbosità? Badate che leggono libri stranieri, che s'accostumano a
pensare, e che dalle fatuità vanno ogni dì più divezzandosi.
Badate che i progressi intellettuali d'una parte di Europa finiranno col
tirar dietro a sé anche il restante. E voi con tutta la vostra albagia
rimarrete lì soli soli, a far voi da autori insieme e da lettori. Insomma siate
uomini e non cicale; e i vostri paesani vi benediranno, e lo straniero
ripiglierà modestia e parlerà di voi coll'antico rispetto". Nessuno de'
ricchi tra' tuoi terrazzani venga a morte fuori della tua giurisdizione
parrocchiale, o buon curato di Monte Atino, o anima italiana davvero! Chi non
ti perdonerebbe la declamazione in grazia dello zelo e del patriottismo che
spirano le tue ammonizioni?
Ora, figliuolo mio, ti sia palese che tutto il discorso fatto sin qui,
sebbene paresse sviarsi dal soggetto, pure era necessario. Così mi sono
preparata la via alla soluzione de' due quesiti che tu mi hai fatti, ed ai
quali posso ora rispondere con maggiore brevità. Eccoli entrambi, e in termini
più precisi de' tuoi:
1. La moderna Italia ammetterebbe ella poesie di questo genere (i Romanzi)?
2. Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in Italia?.
Non fa mestieri, cred'io, di molte lucubrazioni per trovare che alla prima
interrogazione vuolsi rispondere con un "Sì" netto e stentoreo. Da
quanto ho detto sulla opportunità di indirizzare la poesia non all'intelligenza
di pochi eruditi ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di
guadagnarne l'attenzione, tu avrai di per te stesso inferita questa sentenza:
che i poeti italiani possono del pari che gli stranieri dedurre materia pe'
loro canti dalle tradizioni e dalle opinioni volgari, e che anzi gioverebbe di
presente ch'eglino preferissero queste a tutto intero il libro di Natale de'
Conti. Però non voglio sprecar tempo in dimostrarti che, per tale rispetto,
questo genere di romanzi si conviene anche all'Italia; e per verità non farei
che ridire le parole mie. Che poi questo modo di narrare liricamente una
avventura offenderà gli italiani, non credo.
La poesia d'Italia non è arte diversa dalla poesia degli altri popoli. I
principi e lo scopo di lei sono perpetui ed universali. Ella, come vedemmo, è
diretta a migliorare i costumi degli uomini, a farne gentili gli animi, a
contentarne i bisogni della fantasia e del cuore; poiché la tendenza alla
poesia, simigliante ad ogni altro desiderio, suscita in noi veri bisogni
morali. Per arrivare all'intento suo la poesia si vale di quattro forme
elementari: la lirica, la didascalica, l'epica e la drammatica. Ma perché ella
di sua natura abborre i sistemi costrettivi e perché i bisogni che ella prende
ad appagare possono essere modificati in infinito, ha diritto anche ella di
adoperare mezzi modificati in infinito. Quindi a sua posta ella unisce e
confonde insieme in mille modi le quattro forme elementari, derivandone mille
temperamenti.
Se la poesia è l'espressione della natura viva, ella deve essere viva come
l'oggetto ch'ella esprime, libera come il pensiero che le dà moto, ardita come
lo scopo a cui è indirizzata. Le forme ch'ella assume non costituiscono la di
lei essenza, ma solo contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle di lei
intenzioni. Però fino a tanto ch'ella non esce dell'instituto suo, non v'ha
muso d'uomo che di propria facoltà le abbia a dettare restrizioni su questo
punto del tra mischiare le forme elementari.
Che i due romanzi del Bürger spiaceranno agli italiani per l'argomento loro
e per lo stile, forse sarà. Ma che l'Italia non patirebbe che i suoi poeti
scrivessero romanzi del genere di questi, perché forse schifa della mescolanza
dell'epico collirico, non credo. Siffatte obbiezioni non suggeriscono che al
cervello de' pedanti, i quali parlano della poesia senza conoscerne la
proprietà. Ma se il presagio non mi falla, la tirannide dei pedanti sta per
cadere in Italia. E il popolo e i poeti si consiglieranno a vicenda senza paura
delle Signorie Loro, ed a vicenda si educheranno; e non andrà molto, spero.
La meditazione della filosofia riuscirà bensì a determinare, a un di presso,
di quali materiali debbano i poeti giovarsi nell'esercizio dell'arte, di quali
no, e fin dove possano estendere l'ardimento della imitazione. E l'esperienza
dimostra che in questo l'arte della poesia soffre confini come tutte le di lei
sorelle. Ma quale filosofia potrà dire in coscienza al poeta: le modificazioni
delle forme sono queste, non altre? So che i pedanti si stilleranno
l'intelletto per rinvenire, a modo d'esempio, la bandiera sotto cui far
trottare le terzine del signor Torti sulla Passione del Salvatore. So che, nel
repertorio de' titoli disceso loro da padre in figlio, non ne troveranno forse
uno che torni a capello per quelle terzine. Carme no, ode no, Idillio no,
Eroide forse?...
Ma intanto quella squisita poesia, con buona pace delle Signorie Loro, è già
per le bocche di tutti. E l'Italia, non badando a' frontispizi, scongiura il
signor Torti a non lasciarla lungamente desiderosa d'altri regali consimili. Lo
stesso avverrà d'ogni altra poesia futura, quando le modificazioni delle forme
siano corrispondenti all'argomento ed alla intenzione del poeta, e quando
siffatta intenzione sia conforme allo scopo dell'arte ed a' bisogni dell'uomo.
Il sentimento della convenienza, che induce il poeta alla scelta di un metro
piuttosto che di un altro, è contemporaneo nella mente di lui alla concezione
delle idee ch'egli ha in animo di spiegare nel suo componimento ed al disegno
che lo muove a poetare. Le regole generali degli scrittori di Poetiche non
montano gran fatto, da che ogni caso vorrebbe regola a parte. Laonde è opinione
mia che un uomo dell'arte possa bensì assisterti ogni volta con un buon
consiglio; ma che se tu aspetti che te lo diano i trattatisti, non ne faremo
nulla, figliuolo mio. E a questo proposito mi piace di rallegrarti con un'altra
scappata declamatoria, in cui diede, non ha guari, il buon curato di Monte
Atino, l'amico mio dall'anima ardente.
Una persona, che aveva aria d'uomo non dozzinale e non l'era davvero,
parlava della poesia romantica con Sua Reverenza. E Sua Reverenza l'udiva con
volto pacato e con segni d'approvazione, perché erano lodi alla poesia
romantica, la prediletta dell'anima sua. Quando tutt'adun tratto il panegirista
uscì fuori con un voto, perché alcuno in Italia pigliasse a scrivere una
Poetica romantica. "Che Poetiche di Dio! " gridò allora il buon
curato di Monte Atino, dimenandosi sul suo seggiolone come un energumeno,
"che Poetiche di Dio! Se ai giorni nostri vivesse Omero, vivesse Pindaro,
vivesse Sofocle, dovrebbono essi cambiare arte forse? No, in nome del cielo,
no. Ma la differenza dei secoli renderebbe differenti le cose che que' poeti
imprenderebbono ora a trattare. E la differenza delle cose indurrebbe di
necessità differenza nella mescolanza delle forme e nell'accoppiamento delle
immagini. E Omero, Pindaro, Sofocle sarebbero poeti "romantici",
volere o non volere. Ma l'arte loro sarebbe tuttavia quella stessa de' classici
antichi. Che importa a me se il Cellini oggi micesella un vezzo per madama
d'Étampes e domani un calice pel santo padre? Egli è pur sempre Benvenuto, l'orefice
fiorentino. Ma questo Proteo irrequieto come l'amore, quest'arte della poesia,
questa perpetua inventrice del bello, chi l'insegna? Le Poetiche forse? Sono
forse le Poetiche che hanno sviluppate le menti a que' tre miracoli della
Grecia? sono forse le Poetiche che dissero come tener la penna in mano a Dante,
all'Ariosto, a Shakespeare? Al diavolo queste corbellerie! Mostratemi una
Poetica anteriore alla esistenza di un poeta. Mostratemi un vero poetaeducato e
formato dalle Poetiche. Dov'è, dov'è? Io vi mostrerò de' poetiche colle opere
loro hanno prestata materia di che rimpinzare di regoluzze un libruzzo a trenta
maestruzzi. Io vi mostrerò trentamila pedanti, e tutti figli delle Poetiche, e
tutti misuratori di sillabe, e tutti sputasentenze, e tutti teste di legno. Al
diavolo colle Poetiche! Perché non t'incarni un'altra volta, o bella anima di
Omar, tanto appena che ti basti tempo per discendere in Italia a metter fuoco a
tutte le Poetiche, da quella di Aristotile fino a quella del Menzini?"
E qui Sua Reverenza mandò un lungo sospiro di desiderio. Poi tosto ammutì,
guardò in alto per poco, e si fece tutto rosso in viso, vergognando, cred'io,
d'avere unito il nome d'Aristotile a quello di un guasta mestiere. Poi, ripreso
fiato, stese la mano all'ospite e col sorriso della cortesia lo pregò perché
proseguisse il panegirico che tanto gli andava a sangue.
Terminato il dire, l'ospite pigliò licenza. Il povero curato lo accompagnò
fino all'uscio; e lasciata scappare una lagrima, gli strinse la mano e gli disse:
"Domando mille scuse; ho gridato fuori d'ogni creanza: ma sappia
Vossignoria ch'io nonl'aveva con lei. A lei io ho dato la mia stima. Capperi!
Vossignoria ha detto pel primo in Italia cose che non tutti sanno
dire o che tutti qui s'ostinano a non voler dire. Da bravo! Stia fermo, e non
si lasci atterrire da chi senza entrare in ragionamenti le abbaia dietro de'
mali motteggi e delle insipide satire. Siamo cristiani e sacerdoti entrambi;
perdoniamo adunque di buona volontà agli insolenti. Dio n'abbia anch'egli
misericordia! Sono montato in furia contro le Poetiche, perché la sento così e
perché questo mio maledetto naturale è tutto stizza e non lo so mai frenare. Ma
i filosofi estetici io non li confondo cogli scrittori di Poetiche. No, no,
quelli li rispetto, e glielo giuro sull'onor mio. E le giuro che qualche volta
leggo con vera avidità le cose del Burke e del Lessing, come se fossero squarci
della Città di Dio del mio sant'Agostino. Ma Ella compatisca se in questo punto
delle Poetiche io sono di parere contrario a quello manifestato da lei:
compatisca e mi voglia bene."
Interrogazione seconda. Il Cacciatore feroce e l'Eleonora piaceranno in
Italia?
Questo è quesito di non così facile scioglimento come il primo. Madama de
Staël, nell'ingegnosa ed arguta sua opera sull'Alemagna, ha analizzati entrambi
questi Romanzi.
E come è solito dei fervidi ed alti intelletti, che hanno sortita fantasia
vasta, l'aggiungere senza avvedersene qualche cosa sempre del loro alle opere
altrui delle quali s'innamorano, ella vi trovò bellezze forse più che non hanno
e gli ammirò forse troppo. Nondimeno ella è di parere che difficile e quasi
impossibile sarebbe il far gustare que' Romanzi in Francia; e che
ciò provenga dalla difficoltà del tradurli in versi, e da questo: che in
Francia rien
debizarre n'est naturel. In quanto alla bizzarria ed alla
difficoltà di tradurre in versi, sta a' Francesi ed a madama de Staël il
decidere. In quanto al poterne tentare una versione in prosa francese, io credo
di non errare pensando che, se madama de Staël avesse voluto piegarsi ella
stessa all'ufficio di traduttore, i francesi avrebbero accolta come eccellente
la traduzione di lei. E se mai il giudizio, che ella portò sulla
incompatibilità del gusto francese colla bizzarria de' pensieri, fosse meno
esatto, la tanta poesia che vive in tutte le prose di madama si sarebbe
trasfusa di certo anche in questa, per modo che la mancanza del metro non
sarebbe stata sciagura deplorabile. L'armonia non è di così essenziale
importanza da dover dipendere totalmente da essa la fortuna di un componimento.
Per riguardo all'Italia, io non saprei temere di un ostacolo dal semplice
lato della bizzarria, da che l'Ariosto è l'idolo delle fantasie italiane. Però,
lasciato stare il danno che a questi Romanzi può venire
dall'andar vestiti di una poco bella traduzione per le contrade d'Italia, dico
che a me sembra di ravvisare in essi una cagione più intrinseca, per la quale
non saranno forse comunemente gustati tra di noi.
Entrambi questi Romanzi sono fondati sul maraviglioso e sul
terribile, due potentissime occasioni di movimento per l'animo umano. Ma l'uomo
che, per uscire del letargo che gli è incomportabile, invoca anche scosse
violente all'anima sua e anela sempre di afferrare siffatte occasioni pure non
se ne lascia vincere mai, se non per via della credenza. E il terribile e il
maraviglioso, quando non sono creduti, riescono inoperosi e ridicoli, come la
verga di Mosè in mano a un misero Levita.
L'effetto dunque che produrranno i due Romanzi del Burger sarà
proporzionato sempre alla fede che il lettore presterà agli argomenti di
maraviglia e di terrore, de' quali essi riboccano. Ora, dipendendo da ciò
principalmente l'esito della loro emigrazione presso gli Italiani, a me non
d'a' il cuore di prognosticarla fortunata.
Cominciamo dal primo: ecco la traduzione del Cacciator feroce.
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