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Giovanni Berchet
Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo

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  • IL CACCIATORE FEROCE
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IL CACCIATORE FEROCE

Il Conte di Rheingrafenstein diede fiato alla cornetta: " Olà, olà, su su, in piedi e in sella! ".

Il suo cavallo mise nitriti, e via d'un salto si slanciò innanzi. E dietro a lui precipitosa a fracasso tutta la salmeria; e un correre, uno squittire di cani sguinzagliati su e . giú per mezzo a biade e prunaie, per mezzo a ginestreti ed a stoppie.

Illuminata dal raggio mattutino della Domenica, biancheggiava da alto la cupola del Duomo. Con tocchi distinti, con un rombar grave le campane festive chiamavano il popolo alla messa cantata. Di lontano risonavano i cantici della turba divota de' Cristiani.

E via, via, via, attraverso bivi e quadrivi veniva impetuosa la caccia: e da per tutto erano gridi, " to to to, ciuée, ciuée ".

Ed ecco a destra, ecco a sinistra uscire un cavaliero di qui, un cavaliero di . Il corridore del cavaliero a destra era nitido come argento; del color del fuoco era quello che portava il cavaliero a sinistra.

Chi era mai il cavaliero a destra, chi mai il cavaliero a sinistra? Ben me lo presagisce il cuore, ma chi sieno, non so. Il cavaliero a destra comparve in candido vestimento, e con volto soave, come la primavera. Il cavaliero a sinistra, orrendo e vestito di un fosco giallo, vibrava folgori dall'occhio, come la tempesta.

— " In tempo, in tempo giungeste! Ben venga ognuno di voi alla nobile caccia! Né qui in terra, né su in cielo vi ha spasso piú caro di questo! ".

Egli cosí esclamò; e lieto fe' scoppiar la palma sull'anca; e toltosi di testa il cappello, l'agitò su per l'aria.

— " Mal si accorda il suono della tua cornetta alla squilla festiva ed a' cantici del coro (disse con placido animo il cavaliero a destra). Torna, torna indietro: la tua caccia è mal augurata quest'oggi. Cedi al consiglio dell'angelo buono, e non ti lasciar traviare dal cattivo ".

— " Innanzi, innanzi, séguita su, séguita la tua caccia, o mio nobil Signore! :(interruppe violento il cavaliero a sinistra). Che ronzo di squilla? Che clamore di coro? Ben piú vi farà allegri la gioia della caccia. lo, io v'insegnerò quali trastulli si convengano a' principi. Non istate a dar, no, retta al costui spauracchio ".

— " Ah , ben parli, o cavaliero a sinistra! Tu sei un eroe secondo il cuor mio. Chi rifugge l'uscire 'a caccia, vada in malora a, snocciolar Paternostri. A tuo dispetto, bacchettone scimunito, a tuo dispetto voglio cavarmi la mia brama ".

E via via via, fuor d'un campo, dentro un altro, su pel poggio, giú per la china, sempre gli venivano cavalcando stretti a' fianchi il cavaliero a destra, e il cavaliero a sinistra. Quand'ecco a un tratto smacchiar di lontano un bianco cervo con corna di sedici palchi.

Il conte raddoppiò il fiato alla cornetta; e piú veloci accorsero d'ogni parte cavalieri e pedoni. Ed ecco or di dietro, or dinanzi, or l'uno or l'altro de' seguaci stramazzare tramortito sul terreno per la gran furia.

— " Stramazza pure, stramazza al diavolo! Non per questo deve andar guasto lo spasso de' principi ".

La belva si accascia in un campo di spighe, e vi spera rifugio. Ecco un povero contadino trarre innanzi ' umilmente, e metter gemiti e lagrime:

— " Pietà, Signor mio, pietà! Abbiate riguardo agli stenti, al sudore del poverello! ".

Il cavaliero a destra galoppa avanti, e con dolcezza e bontà ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra, e si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

— " Via di qua, miserabile! (grida sbuffando terribile il conte al povero aratore) o ch'io, per Satanasso! su te, su te dirizzo la caccia. —Olà, compagni! addosso, addosso! dàlli dàlli! In segno che ho giurato il vero, fategli fischiar le fruste sugli orecchi ".

Detto fatto, il conte si scagliò furibondo al disopra la siepe; e dietro a lui un bisbiglio, un rimbombo, e tutto quanto il traino con cani e cavalli e pedoni. E cani e pedoni e cavalli pestavano i fusti del grano, sicché la campagna tutta era un polverío.

All'avvicinarsi di quello schiamazzo, spaventata, la belva, via via,, fuor d'un campo, dentro un altro, su pel poggio, giú per la china, messa in fuga, inseguita, ma non arrivata, guadagna i piani del pascolo comunale; e astuta si frammette alle mansuete mandre onde salvarsi.

Ma di qua, di , per campagne e per boschi; di su, di giú, per boschi e per campagne, i veliri la perseguitano, e n'hanno tosto fiutata la traccia.

Il mandrianopieno d'angoscia pel suo armento, si butta a' piedi del conte.

— " Pietà, Signore, pietà! Fate di lasciare in pace queste mie povere bestie mansuete. Ponete mente, Signor mio, che qui pascolano le vacche di tante povere vedove, che non hanno altra sostanza. Abbiate pietà de' poveri. Misericordia, Signor mio, misericordia! ". Il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontà ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, allo instiga all'oltraggio maligno. Il conte schernisce le ammonizioni del cavaliero a destra, e si lascia traviare dal cavaliero a sinistra.

— " Ribaldo, temerario che a me contrasti! Ah! perché non sei tu incarnato, tu stesso nella migliore delle tue vacche, e in lei non è incarnata altresí ognuna di quelle sgualdrine? Che gioia sarebbe allora pel cuor mio lo incalzarvi tutti insieme a dirittura fino all'altro mondo!

— " Olà, compagni! addosso addosso, dàlli dàlli! To to, qui, qui, ciuée ciuée ciuée!".

E ciascuno dei cani s'avventò, aizzato, sul primo oggetto che gli si parò innanzi. Insanguinato cadde a terra il mandriano, insanguinate caddero l'una dopo l'altra le vacche.

A stento la belva si sottrae a quel macello con sempre minor, lena di corso. Spruzzata di sangue, intrisa di bava, eccola prendere il cupo della foresta, e ripararvisi. Addentro addentro ella s'ínselva, e viene a trovar nascondiglio nella cappelletta di un Eremita.

Via via, senza posa mai, " to to, ciuée ciuée, to to to! ". Allo scoppiar delle fruste, all'abbaiare de' veltri, allo squillare dei corni la schiera feroce anche colà si precipita.

Il santo Eremita uscí dalla cappelletta, e si fece incontro con mite scongiuro.

— " Rimanti, rimanti, abbandona la traccia. Non profanare l'asilo di Dio.

" La creatura manda gemiti al cielo, e implora da Dio il castigo tuo. Làsciati per l'ultima volta ammonire, o la tua empietà ti trarrà in perdizione ".

Sollecito il cavaliero a destra galoppa innanzi, e con dolcezza e bontà ammonisce il conte. Ma il cavaliero a sinistra lo infervora, lo instiga all'oltraggio maligno. Eh, oh Dio! ad onta delle ammonizioni del cavaliero a destra, egli si lescia traviare dal cavaliero a sinistra.

— " Che empietà? che perdizione parli tu mai? Forse, grida egli, forse che la mi spaventa gran fatto? Questa mia caccia, dovessi io anche vederla spinta fino al terzo cielo, che rileva, che monta a me? , per Dio! vo', proseguirla; voglio sbramarmi.' E sia pure a dispetto di te, o scimunito, e a dispetto di Dio ".

Egli mena vibrata la frusta, fiato alla cornetta. " Olà, compagni, addosso addosso! dàlli dàlli! ".

Oh Dio! ecco, in un tratto spariscono innanzi a lui ed Eremita e cappelletta; spariscono dietro a lui e cavalli e pedoni. E in un batter d'occhio, e fracassi e suoni ed urli di caccia, tutto tutto ingoia un silenzio di morte.

Atterrito il conte gita lo sguardo; fiato alla cornetta, e la cornetta non rende suono; mette un grido, e non In piú sentore della propria voce; vibra la frusta, e la frusta non fischia; sprona l'un fianco e l'altro al destriero, né può cavalcare innanzi o retrocedere.

E subito intorno a lui un buio, e piú e piú sempre un buio, come di sepolcro; ed un mugghiare, come di marna lontana. Su alto per l'aria al disopra del suo capo una voce di tuono grida tremenda con furor di burrasca questa seitenza:

— " O tiranno, o indole d'inferno, che insolentisci contro di Dio, contro gli uomini, contro ogni cosa! Il singulto, il gemito della creatura, e la tua iniquità ti hanno citato agran voce innanzi al tribunale, su dove arde la fiaccola della vendetta.

" Fuggi, empio, fuggi. E sia tu da qui innanzi per. tutta l'eternità perseguitato tu stesso in caccia dall'inferno e dal demonio. E sia spavento, questo, de' principi d'ogni secolo che, a saziare le loro voglie scellerate, non perdonano né a Creatore né a creatura ".

A queste parole un bagliore giallo. come zolfo guizza intorno alle frondi della foresta. Via via per l'ossa e per le midolle discorre al conte l'angoscia. Una vampa gli opprime il respiro. Stordisce, e non ode piú nulla. Innanzi, tutto gli soffia sul viso gelo e terrore; e alla nuca lo insiegue il fischio della bufera.

Cresce il soffio del terrore, cresce il fischio della.bufera; e sulla terra, oh spavento! ecco un pugno negro emergere) giganteggiare. Apresi, stringe gli artigli; abi ahi! già lo abbranca pel ciuffo; ahi ahi! travolta in un attimo la faccia del conte sovrasta alle spalle di lui.

Intorno intorno a lui un corruscar di faville e di fiamme verdi, brune e sanguigne. Un mar di fuoco presso presso gli ondeggia d'ogni lato; e dentro vi brulica la ciurma infernale. In un subito mille veltri infernali prorompono aizzati a fracasso su dalla voragine.

Via precipitoso egli si scaglia attraverso i boschi, attraverso la campagna; e fugge, mettendo lai e ululati. " Ahi me misero! misero! ".

Ma per tutto l'ampio mondo lo perseguita il latrar dell'inferno, di giorno giú per le caverne della terra, a mezzanotte su in alto per l'aria.

La faccia di lui sovrasta perpetuamente alle spalle; ond'egli abbia perpetuamente la veduta d'mostri che lo inseguono. E per quanto rapida la fuga lo trascini innanzi, incintato dagli urli dello spirito cattivo, gli bisogna mirare perpetuamente il digrignar dei denti, e lo spalancarsi delle fauci ringhiose che gli stanno sopra per azzannarlo.

Tale è la caccia della ciurma feroce; e dura, e durerà fino al del giudizio. Spesso nella. Notte ella passa innanzi al vagabondo a spaventarlo e inorridirlo. E testimonianza ne potrebbe far tuttavia la lingua d'assai cacciatori, se per altre ragioni non convenisse a loro il silenzio

 

La favola di questo Romanzo è tratta da una tradizione popolare in Germania, però è un soggetto bello e opportuno per un poeta tedesco. Ivi il popolo la crede vera: e da questa opinione acquistandosi fede il poeta, ha potuto a suo talento far piangere e tremar di terrore i suoi lettori.: I costumi ch'egli ha dipinti sono, o costumi de'suoi tempi, o costumi moderni e notissimi al popolo: quindi sempre maggiore l'interesse e sempre più aumentata la fede.

Ma noi, lettori italiani, non abbiamo come i tedeschi quella tradizione. E a voler reputar vera o verisimile la catastrofe del Cacciatore Feroce, Ci bisognerebbe uno sforzo d'immaginosa superstizione. Ora, che che ne dicano gli stranieri, siamo noi Italiani dotati di tanta superstizione? La ragione nostra ben ci sarebbe tenere come racconto verisimile che Dio avesse castigato severamente la ferocia del cacciatore. Ma il castigo strano ed incessante su questa terra piuttosto che nell'inferno, noi non lo crederemmo, perché non abbiamo esempi consimili da paragonargli. Ben è vero che nella novella della Giornata V del Decamerone noi leggiamo di una pena sull'andare di questa, benchè per colpa tutt'altra. Ma quella storia non è creduta più in Italia: e forse non era tradizione indigena qui neppure a' tempi del Boccaccio, che probabilmente la tolse ad imprestito al monaco francese Elinando, scrittore del 1200; e di suo capriccio la traspiantò nella pineta di Ravenna. Oltre dichè noi non viviamo sulla sponda del Reno. La ingiustizia feudale e l'insultante privilegio delle cacce riservate ai nobili sono mali che noi ora non proviamo. La narrazione di sciagure contemporanee, alle quali non partecipiamo, non sarà davvero udita con indifferenza; ma non ci commuoverà tanto, quanto i Tedeschi. L'uomo non può pensare all'uomo lontano e posto in circostanze diverse dalle sue, con quell'interessemedesimo, con cui egli pensa a stesso ed a' vicini. Le lacrime del povero contadino, l'angoscia del mandriano, la pace dell'eremita profanata ci faranno pietà. Ma questa pietà, paragonata con quella de'Tedeschi, sarà minore d'assai; come il batticuore di noi europei mediterranei è minore di quello degli onesti fra gli abitanti delle colonie al rammentare la compassionevole Tratta dei Negri. Discendendo giù per questa scala di compassioni decrescenti si giunge fino a quel grado di affanno leggere leggero, con cui noi, viventi del secolo decimonono ascoltiamo le sventure degli Atridi, de'Tiestei e de' Priamidi.

Cessate anche in Germania parte delle prepotenze feudali,variate anche alcune costumanze, mille memorie nondimeno di luogo e di nomi, mille affinità di patria e famiglie richiameranno la storia di quelle alla mente de'Tedeschi e per lunghissimi secoli: Così, e per le stesse ragioni, le sciagure che affissero anticamente i padri nostri in Italia, quantunque non più le medesime che proviamo noi, pure percuoteranno l'animo nostro con bastante vigore, ricordandole poeticamente. E come le iniquità, a modo d'esempio, de' nostri Visconti non sarebbero mai sentite tanto fortemente da' lettori tedeschi, quanto dagli italiani così la storia del Cacciatore feroce non lo sarà, temo, da noi, quanto da loro.

Non so indurmi a dar l'ultimo addio al Cacciatore feroce, se prima non fo qualche cosa a onore e gloria de' commentatori e della consuetudine loro. Sappi dunque, o figliuolo, d'un pezzo di poesia italiana che ha qualche sorta di cognazione con questo del Bürger.

Erasmo di Valvasone, verso la fine del canto terzo del suo poema La Caccia, raccomanda a' cacciatori di non uscire mai alla campagna sprovveduti di una messa sentita e dell'aiuto invocato di tutti i santi. E per ispaventare gli scapestrati, reca in mezzo la mala ventura di un certo Terone, ch'egli stesso, il poeta, dice d'aver conosciuto. Terone, mentre viveva giovinetto lungo la riva del nativo Tagliamento, era gran cacciatore e persona divota; e Dio l'aveva scampato sempre d'ogni pericolo. Fatto adulto, viaggiò tutta la Germania e v'imparò altri costumi. Tornò a casa, e non usò più né a messe né a chiese. Un cignale orribile metteva a guasto ed a spavento la campagna d'Aquilea: però una caccia generale fu bandita per tal domenica. Infinite genti v'intervennero, e Terone anch'egli, come il feritore più certo. La comitiva si recò sull'alba al tempio e non n'uscì che benedetta dal sacerdote. Terone solo si rimase, schernendo il rito. La caccia ha principio: la belva si appiatta in un pantano; è scoperta; i cacciatori le sono addosso. Ma impaurito si arretra ognuno. Solo a Terone il cuore non batte di paura. Egli bestemmia la viltà de' compagni, bestemmia la lor divozione, bestemmia Dio; e si avventa alla fiera. Quella, come mossa dalla divina vendetta, sdegna ogni altro nemico e si scaglia su Terone, né lo lascia che dopo di avergli tolto e ardimento e vita. Dismessa poi la ferocia, anch'essa, la fiera, viene ad offrirsi da sé a' colpi de' cacciatori, e cade morta. E il poeta, che sente oramai stracco il suo colascione, fine al canto con un paio di versi, tutti novità di pensiero, tutti eleganza di modi:

Imparate giustizia, o genti umane,

e non spregiar le deità sovrane.

Virgilio glieli perdoni. E tu perdona a me se ti ho fatto ingozzare tutto questo episodio. Quel poema della Caccia so che non lo hai letto mai, né lo leggerai forse, benché stampato fra i Classici italiani; del che non vorrò biasimarti. Ma a' discendenti di quegli eruditi che, zelanti della loro Italia, seppero trovare l'origine italiana del Paradiso perduto del Milton, io regalo questo bel pezzo del museo Valvasoni, insieme alla novella ottava della Giornata quinta del Decamerone, affinché ne compongano un solo manicaretto, e ne estraggano la quintessenza, e se la bevano; poi, con una predica scritta sugosamente, sul fare, per esempio, delle Orazioni di monsignore della Casa, escano a ridomandare le sostanze che sono di nostro diritto, mostrando come in Italia v'abbia la semenza di tutto e come, infine del conto, gli stranieri non si facciano pavoni che con le penne nostre.

Quella novella, per altro, del Boccaccio, a dirla tra di noi, è una grande infamia. Volere che la giustizia di Dio punisca di ripetute morti acerbissime una donna, perché costantemente ricusò di amare! E che diritto aveva Guido degli Anastagi, che diritto hanno gli uomini qualunque sul cuore femminino? È forse uno de' comandamenti per la femmina il cedere alle voglie di chi la prega d'amore? Se Guido degli Anastagi s'era ammazzato, peggio per lui! L'amore è una passione spontanea che vive di libertà. E la donna, che si ostina a dirmi di no, mi farà infelice; ma della mia infelicità ella non può essereaccusatacondannata da legge veruna. La massima che le donne sieno in obbligo di riamare chi le ama, è uno de' sofismi usati da' seduttori. Limitandola anche al caso di amore onesto, cioè accompagnato dall'intenzione di strigner nozze, è una massima che fa a pugni colla dottrina de' cristiani; atteso ché ella reputa stato di perfezione la castità del celibato. E per chi scriveva egli, il Boccaccio, se non per gente cattolica?

Pedanti e non pedanti hanno biasimato il Sannazaro, perché, non contento egli di avere già sparso bastantemente di erudizioni mitologiche antiche tutto quanto il suo poema sulla nascita di Gesù Cristo, >De partu Virginia, abbia poi voluto introdurvi anche, come enti contemporanei ed operanti, le naiadi e le driadi. Ma l'errore del Sannazaro non è egli forse meno grave di cotesto del Boccaccio? Non è egli peggio forse il falsare la morale della religione che uno introduce nel suo componimento, di quello non sia l'unirvi alcune invenzioni eterogenee, col solo, innocente e manifesto proposito di sbizzarrirsi in fantasie poetiche?

Basterebbe che questa infame novella della pineta di Ravenna venisse creduta vera a' nostri e lodata in Italia, perché fosse data vinta la causa a quegli stranieri che ci mandano titolo di vendicativi, di feroci, di superstiziosi e di poco religiosi nel cuore. Ma come è vero che noi non siamo così tristi, nessuno in Italia vorrebbe oggi avere scritto egli quel vituperio della pineta. E Dio lo tolga dalla memoria fino de' bibliotecari!

Leggi ora, figliuolo mio, la traduzione della Eleonora.

 




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