ELEONORA
Sul far del mattino Eleonora sbalzò
su agitata da sogni affannosi: " Sei tu infedele, o Guglielmo, o sei tu
morto? E fino a quando indugerai? ".
Egli era uscito coll'esercito del
Re Federigo alla battaglia di Praga; e non aveva scritto mai se ne fosse
scampato.
Stanchi delle lunghe ire, il Re e
l'Imperatrice ammollirono le feroci anime, e finalmente fecero pace. Ed ogni
schiera, preceduta da inni, da cantici, dal fragore de' timpani, da suoni e da
sinfonie, adornata di verdi rami, si riduceva alle proprie case.
E da per tutto, da per tutto, sulle
strade, sui sentieri, giovani e vecchi traevano incontro ai viva d'allegrezza
de' vegnenti. " Sia lode al cielo! " esclamavano fanciulli e mogli.
" Ben venga! " esclamavano assai spose contente. Ma, oh Dio! per
Eleonora non v'era né saluto, né bacio.
Ella di qua di là cercò tutto
l'esercito, dimandò tutti i nomi. Ma fra tanti reduci non uno v'era che le
desse ragguaglio. Oltrepassate che furono da ultimo tutte quante le schiere,
ella si stracciò la nera chioma, e
furibonda si buttò sul terreno.
Accorse precipitosa la madre.
"O Dio, misericordia! Che hai, che t'avvenne, figlia mia cara?". E se
la serrò fra le braccia.
— " O madre, madre! è perduto,
è morto. Or vada in rovina il mondo, e tutto vada in rovina! Non ha
misericordia Iddio. Ahi me misera! misera! ".
— "O Dio, ne assisti!
Misericordia, o Signore! Dí, figlia mia, dí un Paternostro. Quello che è fatto
da Dio è ben fatto. Egli sí, Iddio, è pietoso di noi ".
— " O madre, madre! Tutte
illusioni! Nulla di bene ha fatto per me il Signore! nulla. Che giovarono, che
giovarono le mie orazioni? Oramai non n'è piú bisogno ".
" O Dio, ne assisti! Chi in
Dio riconosce il nostro padre, sa ch'egli soccorre a' figliuoli. Il santissimo
Sacramento metterà calma al tuo affanno ".
— " O madre, madre! Questo
incendio che m'arde, non v'ha Sacramento che me lo calmi. Non v'ha Sacramento
che restituisca a' morti la vita ".
— " Ascoltami, o cara; e se
quell'uom falso, là lontano, nellUngheria, avesse rinnegata la fede per
isposarsi ad altra donna? No, cara, non pensar piú a quel suo cuore. E neppure
egli se ne troverà contento! Quando un giorno l'anima verrà a separarsi dal
corpo, lui trarrà nelle fiamme il suo spergiuro ".
— " O madre, madre! Non è piú,
non è piú: egli è perduto, perduto per sempre. La morte, altro non mi resta che
la morte! Oh non fossi io nata mai! Spegniti, luce mia, spegniti in perpetuo.
Muori, muori sepolta nella notte e nell'orrore, No, non ha misericordia Iddio.
Ahi me misera! misera! "
— " O Dio, ne assisti! Non
voler no entrare, o Dio, in giudizio contro la povera tua creatura. Ella non sa
quel che la sua lingua si dica: non tener conto dei peccati di lei. —
Dimentica, figliuola mia, dimentica la tua afflizione terrena; pensa al
Signore, pensa alla beatitudine eterna; e t'assicura che non verrà meno lo
sposo all'anima tua ".
— " E che è mai, o madre, la
beatitudine eterna? Che mai, o madre, è l'Inferno? Con lui, con lui è
beatitudine eterna; e senza di Guglielmo non v'ha, che inferno. Spegniti , luce
mia, spegniti in perpetuo: muori, muori sepolta nella notte e nell'orrore!
Senza di lui, né sulla terra, né fuori della terra posso aver pace io mai
".
Cosí a lei nella mente e nelle vene
infuriava la disperazione. Più e piú continuò temeraria ad accusare la
Provvidenza di Dio; si percosse il seno; si storse le mani, fino a1 tramonto
del sole, fino all'apparire delle stelle auree per la. volta del cielo.
Quand'ecco, trap trap trap, un
calpestìo al di fuori come di zampa di destriero; e strepitante nell'armatura
smontare agli scalini del verone un cavaliero. E tin tin tin, ecco sfrenarsi pian
piano 1 a campanella dell'uscio; e da traverso l'uscio venire queste distinte
parole:
— " Su su! Apri, o mia cara,
apri. Dormi tu, amor mio, o sei desta? Che intenzioni sono ancora le tue verso
di me? Piangi, o sei lieta? ".
" Oh cielo! Tu, Guglielmo?
Tu... di notte... cosí tardi...? Ho pianto, ho vegliato. Ahi misera! un grande
affanno ho sostenuto... E donde vieni tu cosí a cavallo? ".
— " Noi non mettiamo sella che
a mezzanotte. Lungo viaggio cavalcai a questa volta, fino dalla Boemia. Tardi
ho preso il cammino, tardi: e voglio condurti meco ".
— " Ah Guglielmo! Entra prima
qua dentro un istante. Su presto! Il vento fischia ne' roveti. Entra, vieni,
cuor mio carissimo, a riscaldarti fra le mie braccia ".
— " Lascia pure che il vento
fischi fra i roveti: lascialo fischiare, anima mia, lascialo fischiare. Il mio
cavallo morello raspa; il mio sprone suona. In questo luogo non m'è concesso
alloggiare. Vieni, succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa al mio
morello. Ben cento miglia mi restano a correre teco quest'oggi per arrivare al
letto nuziale ".
— " Oh cielo! E tu vorresti in
questo sol giorno trasportarmi per cento miglia fino al letto nuziale? Odi come
romba tuttavia la campana— le undici sono già battute ".
— " Gira, gira lo sguardo.
Vedi, fa un bel chiaro di luna. Noi e i morti cavalchiamo in furia. Oggi, sí
quest'oggi, scommetto ch'io ti porto nel letto nuziale ".
— " E dov'è, dimmi, dov'è la
cameretta? E dove, e che letticciuolo nuziale è il tuo? ".
— " Lontano, lontano di
qui..., in mezzo al silenzio..., alla frescura..., angusto... Sei assi... e due
assicelle...".
— " V'ha spazio per me?
".
— " Per te e per me. Vieni,
succingiti, spicca un salto, e gettati in groppa. I convitati alle nozze
aspettano; la camera è già schiusa per noi ".
La vezzosa donzelletta innamorata
si succinse, spiccò un salto, snella si gittò in groppa al cavallo, e con le
candide mani tutta si ristrinse all'amato cavaliere. E arri arri arri! salta
salta salta; e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e
cavaliere; e sparpagliavansi intorno sabbia e scintille.
A destra e a sinistra, deh! come
fuggivano loro innanzi allo sguardo e pascoli e lande e paesi! Come sotto la
pesta rintronavano i ponti! — " E tu hai paura, o mia cara? Vedi bel
chiaro di luna! Arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu, mia, cara, hai
paura de' morti? ".
— " Ah no! Ma lasciali in pace
i morti! ".
Da colaggiú qual canto, qual suono
mai rimbombò? Che svolazzare fu quello de' corvi? Odi suono di squille, odi
canto di morte! " Seppelliamo il cadavere ".
Ed ecco avvicinarsi una comitiva
funebre, e recar la cassa e la bara de' morti. E l'inno somigliava al gracidar
dei rospi negli stagni.
— " Passata la mezzanotte,
seppellirete il cadavere con suoni e cantici e compianti. Ora io accompagno a
casa la giovinetta mia sposa. Entrate meco, entrate al convito nuziale. Vieni,
o sagrestano; vieni col coro, e precedimi intuonando il cantico delle nozze.
Vieni, o sacerdote; vieni a darci la benedizione prima che ci mettiamo a
giacere ".
Tace il suono, tace il canto; la
bara sparí. E obbedienti, alla chiamata quelli correvano veloci, arri arri
arri! lí lí sulle peste del morello. E va e va e va; salta salta salta; e
l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavliete; e sparpagliavansi
intorno sabbia e scintille.
Deh come fuggivano a destra, come a
sinistra fuggiva e montagne e piante e siepi! Come fuggivano a sinistra,
destra, e ville e città e borghi!
— " E tu hai paura, o mia
cara? Vedi bel chiaro di luna Arri arri arri! I morti cavalcano in furia. E tu,
mia cara, hai paura dei morti? ".
— " Ahi misera! Lasciali in
pace i morti ".
Ecco; ecco; là sul patibolo, al
lume incerto della luna una ciurma di larve balla intorno al perno della ruota!
— " Qua qua, o larve. Venite, seguitemi.
Ballateci la giga degli ,sposi, quando saliremo in letto ". E via via via,
le larve gli stormivano dietro a' passi, come turbine che in una selvetta di
noccioli stride fra mezzo all'arida frasca. E va e va e va; salta salta salta;
e l'aria sibilava rotta dal gran galoppare. Sbuffavano cavallo e cavaliere; e
sparpagliavinsi intorno sabbia e scintille.
Ogni cosa che la luna illuminava
d'intorno, deh . come ratto fuggiva, come fuggiva alla lontana! Come fuggivano
e cieli e stelle al disopra di lui!
— " E tu hai paura, mia cara?
Vedi bel chiaro di luna? Arri arri arni! I morti cavalcano in furia. Ed hai
tuttavia paura dei morti, o mia cara? ".
— " Ahi me misera! Lasciali in
pace i morti ".
— " Su su. o morello! Parmi
che il gallo già canti. Fra Poco il sabbione sarà omai tutto trascorso. Su,
morello, morello! Al fiuto sento già l'aria del mattino. Di qua, o morello,
caracolla di qua. Finito, finito abbiamo di correre. Eccolo che s'apre il letto
nuziale. I morti cavalcano in furia. Eccola, eccola la meta ".
Impetuoso s'avventò a briglia
sciolta contro un cancello di ferro. Ad uno sferzar di scudiscio toppa e
chiavistello gli si spezzarono innanzi; e le ferree imposte cigolando si
spalancarono. Il destriero drizzò la foga su per le sepolture. E al chiaror
della luna tutto tutto biancheggiava di monumenti.
Ed ecco, ecco in un subito,
portento, ahi, spaventoso! Di dosso al cavaliere ecco, a brandelli a brandelli
cascar l'armatura, com'esca logorata dagli anni! In teschio senza ciocche e
senza ciuffo, in teschio ignudo ignudo gli si convertí il capo; e la persona in
ischeletro armato di ronca e d'oriuolo.
Alto s'impennò e inferocí sbuffando
il morello, e schizzò scintille di fuoco. E via, eccolo sparito e sprofondato
disotto alla fanciulla; e strida e strida su per l'aere; e venir dal fondo
della fossa un ululato! ... A gran palpiti tremava il cuore d'Eleonora, e
combatteva tra la morte e la vita.
Allora sí, allora sotto il raggio
della luna danzarono a tondo a tondo le larve; ed intrecciando il ballo della
catena, con feroci urli ripetevano questa nenia:— " Abbi pazienza,
pazienza; s'anche il cuore ti scoppia. Con Dio no, con Dio non venire a
contesa. Eccoti sciolta dal corpo. Iddio usi all'anima misericordia! ".
A differenza della prima, la favola di questo secondo romanzo, a quel ch'io
sappia, è tutta invenzione del poeta. Parrebbe dunque che, non sostenuta da una
tradizione, l'Eleonora non dovesse trovare né fede né applausi neppure in
Germania.
E nondimeno è noto come ella sia colà la lodatissima delle poesie del
Bürger. A che ascriveremo noi questo?
I popoli colti d'una parte della Germania, pe' quali il Bürger cantava, sono
inclinati all'entusiasmo. Avidi essi di emozioni, non
aspettano che quelle vengano di per sé; ma per ottenerne, si aiutano fin anche del
meditare. Il bisogno fortissimo di emozioni nasce in loro, se mal non veggo,
per la mancanza di una continua varietà di oggetti esteriori che possa
occuparli e muoverne gli animi piacevolmente. E questa mancanza è prodotta
dalle circostanze politiche, da quelle del clima, della geografia loro e della
loro vita sociale. Ma le circostanze medesime, se per un riguardo gli
offendono, servono per un altro a rinforzare notabilmente la loro riflessione,
allorché la noia gli obbliga a concentrarsi in se stessi, a ripiegarsi
nell'animo proprio, onde provarne il moto che li faccia accorti dell'esistenza.
Educati così alla meditazione, non di rado giungono essi a scoprire qualche
lato importante e patetico nelle cose, in cui sguardo superficiale nol vede.
Tosto che l'hanno adocchiato, eglino vi si affezionano e s'infervorano; e
l'amore di una parte tira seco l'amore del tutto.
Con ciò viene a spiegarsi per noi da che provenga l'affettazione di certo sentimentalismo
che governa spesso il discorso de' romanzieri del nord, e che male è imitato
da' romanzieri di Francia, e mal sarebbe da que' d'Italia; perché posa su
pensieri ed affetti che non sono sentiti in Francia e in Italia né da chi
scrive né da chi legge. Quante volte l'uomo del nord, viaggiando in Italia, non
fa egli strabiliare gli ospiti suoi, parlando ogni tratto di sensazioni
domestiche, di piaceri segreti dell'animo, di simpatie recondite, di
compassioni prodigalizzate a un fiorellino del campo, di lagrime sparse per
pietà di un asinello defunto, di memorie lugubri suscitate in lui dalla menoma
novità di nugoloni colorati! Pare a noi che egli allora monti sull'ippogrifo.
Eppure chi sa che per lunga assuefazione egli non abbia il cuore, troppo più
che noi non ci figuriamo, pronto a palpitare per tante fantasie?
A quelle docili immaginazioni bastò quindi pensare che la finzione
dell'Eleonora era omogenea ed analoga alle tradizioni popolari, perché a lei
anche estendessero il vero di opinione che quelle hanno. La stravaganza del
tutto non nocque allora più all'effetto delle parti. E siccome le parti sono
bellissime, l'approvazione e l'ammirazione vennero di per sé.
Noi popoli più meridionali, circondati dalla pompa della natura e dalla
perpetua successione delle sue infinite lusinghe, non abbiamo mestieri di andare
in traccia di emozioni per sentire la vita. Noi aspettiamo che quelle ci
riscuotano come a viva forza; ma non ci curiamo di promuoverle noi col nostro
entusiasmo. Di qui, più che lettori appassionati, noi riesciamo critici freddi.
E prima di dare una lagrima alle sventure di Eleonora, noi metteremo sul
bilancino i gradi di verisimiglianza che ha la storia della fanciulla, e non li
pagheremo della nostra credenza che grano per grano.
Forse, e bada bene che tiro a indovinare e non altro, forse gli abitanti d'una
parte della Germania, de' quali ho parlato fin qui, hanno, o nel fondo del
cuore o dentro la mente, più religione che noi non abbiamo.
Forse, avvezzati essi dalle sette e dalla necessità delle controversie
ameditare i dogmi della religione, come noi a prestarle fede senza meditazioni,
hanno talmente inclinati i pensieri a lei, che tutto quanto partecipa dello
spirito del Cristianesimo essi lo sentono di primo tratto, qualunque sia
l'oggetto che gli occupi, qualunque sia lo stato dell'animo loro.
Quindi è forse che il Tedesco, leggendo il Romanzo dell'Eleonora, lascia
bensì che il cuore di lui si pieghi a compassione delle sventure della
fanciulla; ma immediatamente corre colla idea all'enormità del peccato commesso
da lei nel rinnegare la provvidenza di Dio. Associata a quella idea eccoti
subito l'altra: che ogni vendetta di Dio, per quanto fiera ella sembri a umano
intendimento, non può mai aggiungere a tanto da pareggiare l'immensità del
delitto di cui si fa reo chi offende Dio di qualsivoglia maniera. Mesci ora
insieme il sussidio delle idee religiose alla somiglianza che la favola
dell'Eleonora dicemmo avere colle tradizioni popolari in Germania; e vedi come
il tedesco s'induca ad essere liberale di credenza verso la catastrofe del
romanzo. Nell'animo di lui direi quasi che il sentimento massimo sarà quello
dell'enormità del peccato e della maestà di Dio irritata, e che la compassione
per gli affanni amorosi della fanciulla non sarà che un sentimento
concomitante.
Se l'Italia leggente fosse composta di uomini tutti profondamente studiosi
della loro religione, forse l'Eleonora, scendendo tra di noi, non verrebbe a
capitare in terra straniera affatto. Ma quantunque in Italia v'abbiano teologi
eruditissimi, io temo che il più degli italiani, ancorché cattolici di buona
fede, non si siano addimesticati tanto coi dogmi della loro religione da
salvare per questi una costante reminiscenza in tutte le loro sensazioni. Il
lettore teologo, anche in mezzo alle seduzioni della poesia, anche sbattuto dai
palpiti ch'ella produce, starà fermo alle dottrine da lui conosciute e
professate, e stabilirà tosto relazioni tra quelle e ciò ch'ei legge. Un lato
della sua mente egli lo tiene vergine sempre di tutt'altri pensieri, salvo i
religiosi. Però egli sentirà il maraviglioso e il terribile del Romanzo
dell'Eleonora; e l'idea della divinità oltraggiata e della severità
onnipossente, che procede dalla giustizia di Dio, gli ingombrerà tanto l'anima,
da lasciargliene una parte ben poca in preda ad altre riflessionie ad altri affetti.
Pieno di spavento, egli chinerà il capo innanzi a Dio; ripeterà anch'egli la
nenia delle larve, e finirà esclamando: "Salvami, o Signore, salvami
dall'offenderti!".
Ma avremo, noi, lettori teologi molti? O io m'inganno, o tra di noi sarà
maggiore il numero di quelli che, facili a scusare negli altri le passioni
perché le vorrebbono scusate a sé medesimi, si lasceranno andare alla pietà,
come al sentimento più repentino per essi. Cedendo all'impeto delle prime
impressioni cagionate dalle miserie d'Eleonora, e non interrogando gran fatto
il sentimento religioso, che in essi, a differenza de' tedeschi, riescirà il
meno forte, eglino, parmi, diranno così: "Una povera vergine innamorata,
disperante della vita del suo sposo futuro, inasprita dal peso della disgrazia
e dalla importunità dei consigli di una vecchia assiderata, perché nell'impeto
del dolore (e che dolore!) si lasciò fuggire di bocca la rinnegazione della
provvidenza, meritava ella di essere sepolta viva? meritava che il ministro
dell'ira di Dio fosse quello stesso amante per cui ella aveva spasimato tanto?
meritava che questi alla gelata indifferenza dovesse anche aggiungere la
crudeltà della ironia, e continuarla fino all'ultimo della vita? Se dopo lunghe
macchinazioni, ella fredda fredda avesse per avarizia piantato un coltello nel
petto al padre e strozzata la madre, le starebbe bene questo ed ogni altro
rigore di pena; ma nel delirio dell'amore... per una parola inconsiderata...
tanto supplizio! No, non può essere. Il Dio nostro è il Dio della misericordia.
Tratto a doverci visitare nell'ira sua, egli guarda pur sempre all'intenzione
del peccatore, e distingue il delirio d'una passione innocente dalla gelida,
ostinata empietà. Eleonora ha peccato. Ma qual proporzione qui tra 'l peccato e
la pena? No no, la storia d'Eleonora non è credibile. E' una invenzione nera
nera che mette ribrezzo; è una favola da nutrici che non è raccomandata da
verisimiglianza veruna, e che non merita neppure una, sola delle nostre lagrime
".
Davvero, io non torrei a difendere innanzi al Santo Offizio l'ortodossia di
chi ragionasse cosí. Davvero sono persuaso che qualunque persona trascorresse a
discorsi siffatti, dopo piu mature considerazioni se ne disdirebbe. Ma, fattili
una volta, e rovinato con ciò l'effetto primo di questa poesia, come trovarla
bella dappoi? Come gradir bene dappoi ciò che sulle prime n'è venuto in
fastidio? — E che a molti si aggireranno pel capo pensieri simili a questi
ch'io portai qui sopra, oserei scommetterlo. — Non mi dorrebbe di rimanere perdente;
anzi '1 desidero.
Ad ogni modo in entrambi questi Romanzi, e piú nel secondo, v'ha qualche
cosa di magico che non si lascia definire. Ed io conosco uomini in Italia che,
capaci quant'altri di esercitare la critica, pure fu loro necessità metterla in
silenzio, perché sentivansi l'anima strascinata dalla prepotenza del terribile,
intenerita dal patetico che regna in questi componimenti. E la monotonia stessa
che qua e là il poeta vi sparse, rendeva piú profonda e piú perseverante la
commozione. Dopo un esperimento siffatto, io credo di potere rispondere a te
che in Italia altri rideranno freddamente di questi due romanzi, altri diranno
essere un peccato l'avere arricchito di tanta poesia argomenti da non
trattarsi, ed altri si trasporteranno alle circostanze del popolo, per cui
furono scritti, ed assumendone le opinioni e l'entusiasmo, divideranno con lui
la pietà, la maraviglia e il terrore. Parmi che gli ultimi, comeché pochi
forse, mostreranno indole piú poetica.
In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere Romanzi
in Italia sul fare di questi, va cauto, e fa di non lasciarti traviare in
soggetti non verisimili, quando essi siano tolti di peso dalla fantasia tua.
Che, se l'argomento ti viene prestato da una storia scritta o da una tradizione
che dica: il tal fatto è accaduto cosí, e tu senti che comunemente è creduto
cosí, allora non istare ad angariarti il cervello per timore
dinverosimiglianze, dacché tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati
raccomandato di tenerti piú volontieri ai soggetti ricavati dalla storia, che
non agli ideali. Né ti fidare molto a quelle tradizioni che non esciranno mai
dal ricinto d'un sol municipio, perché la fama tua non sarebbe che municipale:
del che non ti vorrei contento.
Finalmente, se i due componimenti del Burger che ti stanno ora innanzi, e
che furono immaginati per la Germania e proporzionati a que' lettori, non
piaceranno universalmente in Italia, bada bene a non inferire da questo che la
letteratura tedesca sia tutta incompatibile col gusto nostro. Vi hanno in
Germania componimenti moltissimi fondati su maniere e su geni comuni a'
Tedeschi, a noi, ed al resto dell'Europa colta. E il dire che un po' piú un po'
meno di lucidezza di sole, renda affatto affatto opposte tra di loro le menti
umane, ed inaccordabili onninamente le operazioni intellettuali di chi vive tre
mesi fra le nebbie con quelle di chi ne vive sei, è puerilità tanto piú
ripetuta, quanto ella è piú facile a dar vita ad un meschino epigramma. Se ne'
Greci e ne' Latini troviamo cose ripugnanti al genio della poesia italiana, e
lo confessiamo, perché infastidirci se ne' Francesi, negli Spagnuoli, negli
Inglesi e ne' Tedeschi ne scopriamo parimenti, che vogliono da noi rifiutarsi?
O leggere nulla, o legger tutto fa d'uopo. Però io, portando opinione che il
secondo partito sia da scegliersi, credo che anche lo studio del Cacciatore
feroce e della Eleonora sarà utile in Italia; perché mostra da quali fonti i
valenti poeti d'una parte della Germania derivino la poesia plaudita nel loro
paese. Cercarono essi con somma cura di prevalersi di tutte le passioni, di
tutte le opinioni, di tutti i sentimenti de' loro compatriotti; e trovarono
cosí argomenti che vincono l'animo universalmente.
Facciamo lo stesso anche noi. E la poesia italiana si arricchirà di nuove
bellezze, talvolta originali molto, e sempre caratteristiche del secolo in cui
viviamo. Cosí vedremo moltiplicarsi i soggetti moderni, e riescir belli e
graditi quanto il Filippo, il Mattino, la Basvilliana e l'Ortis. E forse anche
noi conseguiremo scrittori di Romanzi in prosa, tanto quanto i Francesi, gli
Inglesi, e i Tedeschi.
Figliuolo
carissimo, se tu hai ingegno, com'ío spero, ti sarai pure accorto
che fin qui la lettera mia non fu che uno scherzo. La gravità, con cui in
questa tiritera di commento ho affastellate tante stramberie, è una gravità
tolta a nolo: e la costanza della ironia sbalza agli occhi di per sé. Ho voluto
spassarmi a spese de' novatori. Ma con te, figliuolo, con te coscienza di padre
mi grida ch'io lasci le baie, e mi metta finalmente sul serio.
Sappi dunque che fuori d'Italia gli uomini vanno carpone in materia di
letteratura. Sappi che se tu, tralignando da' maestri tuoi, metterai naso ne'
libri oltramontani, finirai anche tu col muso al pavimento. Questo voler dividere
i lavori della poesia in due battaglioni, classico e romantico, sa
dell'eretico; ed è appunto un trovato d'eretici; e non è e non può esser cosa
buona; da che la Crusca non ne fa menzione, e neppure registra il vocabolo
" Romantico ".
Tutti sanno che in Inghilterra e in Germania non si coltiva da letterato
veruno né la lingua greca né la, latina, e che non si ha contezza ivi degli
scrittori di Atene e Roma, se non per mezzo di traduzioni, italiane. Separa
cosí quasi affatto dalla conoscenza de' capi d'opera dell'atichità, come
potevano quegli infelici far Poesie, e non da in ciampanelle? Poi vollero
giustificare i loro strafalcioni e congiurarono co' loro fratelli filosofi, e
tentarono la metafisica e la logica, e dettarono sistemi. Ma tutti insieme i congiurati
diedero in nuove ciampanelle, perché la metafisica e la logica sono piante che
non allignano che in Italia.
Figurati che arrivarono fino a dire, quasi, che la Religione Cristiana ha
resa piú malinconica e piú meditativa la mente dell'uorno; ch'ella gli ha
insegnato delle speranze e de' timori ignoti in prima; che le passioni de'
Cristiani, quantunque rivolte a oggetti esteriori, hanno pure una perpetua
mischianza con qualche cosa di piú intimo che non avevano que de' Pagani; che
in noi è frequente il contrasto tra '1 desiderio e '1 dovere, tra
l'intolleranza delle sventure e la so messione ai decreti del cielo; che i
poeti nostri, per non riescire plagiari gelati, bisogna che pongano mente a
ques tinte, e dipingano oggi le passioni con tratti diversi dagli antichi; e
che, e che, e cento altri che di tal fatta, e miserabilissimi tutti. E davvero
a volere stramazzare quegli atleti sterebbe, a modo d'esempio, instituire, come
noi lo possiamo far bene e non essi, un paragone analitico tra Anacreonte Tibullo
da una parte, e '1 Petrarca dall'altra; e dimostrare come i patimenti dei due
primi innamorati siano gli stessi stessissimi patimenti che travagliavano
l'animo al Petrarca. E chi non sente, infatti, che que' tre amori, per
somiglianza tra di loro, sono proprio tre gocciole d'acqua?
Alcuni cervellini d'Italia, che non sanno né di latino né di greco, lingue
per essi troppo ardue, vorrebbero menar superbia dell'avere imparate le lingue
del Nord, che ognuno impara in due settimane, tanto sono facili. Però fanno ego
a tutte queste fandonie estetiche, che in fine in fine non valgono né le
pianelle pure di Longino, non che il suo libro Del Sublime, che è la maraviglia
dell'umano sapere. Il quale umano sapere non è mica progressivo e perfettibile,
come i fatti pertinacemente attestano; ma è sempre stato immobile, e non può di
sua natura patire incremento mai, per la gran ragione che >nil
sub sole novum.
E questi cervellini battono poi le mani ad ogni frascheria che viene di lontano
e corrono dietro a Shakespeare ed allo Schiller, come i bamboli alle prime
farfalle in cui si abbattono, perché non sanno che ve n'ha di piú occhiute e di
piú vaghe.
Ma viva Dio! quello Shakespeare è un matto senza freno; traduce sul teatro
gli uomini tal quali sono; la vita umana tal quale è; lascia ch'entri in
dialogo l'eroe col becchino, il principe col sicario; cose che non sono
permesse che agli eroi da vero e non da scena. E invece di mandarti a fiamme
l'anima con belle dissertazioni politiche, con argomenti Pro e contra a modo
de' nostri avvocati, egli ti pone sott'occhio le virtú ed i vizi in azione: il
che ti scema l'interesse, e ti fa tepido. Quello Schiller poi, se '1 paragoni,
non dico con altri, ma col solo Seneca, ti spira miseria.
A buon conto gli stessi novatori, mentre si aguzzano alla disperata onde
predicarne le lodi, sono costretti dal coltello alla gola a confessare che le
opere di Shakespeare e dello Schiller; quantunque, come essi dicono,
maravigliose in totale, non vanno scevre di magagne, se si guarda separatamente
alle parti. E s'ha a dire bel libro di poesia, e degno di lettura quello che
non può vantarsi incontaminato d'ogni menomo peccato veniale? I grandi poeti
dell'antichità sono invece fiocchi sempre sempre di tutta neve immacolata.
Ed è poco misfatto rispettare l'unità d'azione, che è la meno importante,
per dare un calcio poi alle unità di tempo e di luogo, che formano il cardine
della nostra fede drammatica, fuori della quale non v'ha salute? E noi dovremmo
sorgere ammiratori di ribaldi tanto sfrontati, noi pronipoti d'Orazio, del Vida
e del Menzini?
Era aforismo che nel giro di ventiquattro ore e nulla piú dovesse andare
ristretta l'azione di un dramma. I meno puristi hanno spinta ora la tolleranza
fino a concederne altre dodici, purché ciò non passasse in esempio di nuove
larghezze; e basta cosí.
L'uomo per virtú della illusione teatrale può arrivare a tanto ch'egli
persuada a sé stesso d'essere vissuto trentasei ore, quando non ne ha vissute
che le poche tre, per le quali dura lo spettacolo. Ma a un minuto di più la
povera mente umana non regge colla sua immaginativa. L'esattezza del computo
non è da porsi in dubbio, Poiché il Buon Gusto egli medesimo, armato di gesso,
sedeva alla lavagna disegnando, 36 = 3.
E la illusione teatrale noi sappiamo essere la illusione di tutte le
illusioni, la magia per eccellenza; da che, come due e due fanno quattro così
anche, ad onta della verità, è provato che dallo alzarsi fino al calar del
sipario lo spettatore si dimentica affatto di ogni sua occcorrenza domestica,
non sa piú d'esser in teatro, giura ch'egli manda occhiate proprio nel Ceramico
e nel Partenone, e crede vere proprio le coltellate che si dànno gli eroi sul
palco, e vero sangue quello che gronda dalle ferite.
Quanta sia poi l'importanza della unità di luogo è da vedersi in quelle
tante pagine che in favore di lei avrebbe dovuto scrivere Aristotile. E il
ribellarsi ad Aristotile, parlante o tacente ch'egli sia sarebbe infamia.
Per decreto de' Romantici la mitologia antica vada tutta in perdizione. Ma,
pe', gorghi Strimoni! questo ostracismo lascia egli sperare briciolo di
ragionevolezza in chi l'invoca? Perché rapirci ciò che ne tocca più da vicino?
E come prestar venustà alla Lirica, come vestire di verità i concetti, di splendore
le immagini, senza Minerve, senza Giunoni, senza Mercuri, che pur sentiamo
apparire ogni notte, in ogni ad ogni fedel cristiano? Come parlar di guerre,
senza far sedere Bellona a cassetta d'un qualche coupé,
senza metterle in mano la briglia d'un paio di morellotti d'Andalusia. E non è
noto forse, per deposizione di tutti i soldati reduci, com'anche a Waterloo
quella dea sia stata veduta correre su e giú pel campo, vestita di velluto
nero, con due pistole nere in cintura, e con in testa un cappelletto nero
all'iglese?
>Ut pictura poésis. E ciò che concedete alla pittura,
lo avete a concedere anche alla poesia, a dispetto della persuasione e delle
dimostrazioni irrefragabili del Lessing. E sapete perché? Perché lo ha detto
chi poteva dirlo, chi poteva con piena potestà comandarlo, chi aveva rubata al
Papa l'infallibilità, prima che il Papa nascesse, Orazio insomma. E zitti per
carità.
Non è meraviglia poi se genti farnetiche, le quali mischiano psicologia fino
nel parlar di canzoni, vestono oggi il sacco del missionario, ed esclamano:
" Voi, Italiani, avete un bel suolo, un bel cielo, una bella lingua; ma
dei tesori intellettuali, di cui va ricca oggimai tutta insieme l'Europa, voi
non ne possedete quanto certi altri popoli. Voi ci foste maestri un tempo;
adesso non piú. Alcuni tra voi coltivano bene le scienze fisiche e matematiche;
ma di buone lettere e di scienze morali voi di presente patite penuria, avendo
troppo poche persone eccellenti in questi generi ".
Noi dunque penuriamo? Bravi davvero! Lasciamo stare che tutto quel poco che
si sa fuori d'Italia è tutto dono nostro. Lasciamo stare che noi potremmo
comperare mezzo il Mogol, se voi, stranieri, ci pagaste solamente un baiocco
per ogni sonetto stampato da venti anni in qua in Italia, e che noi per un
baiocco l'uno acconsentiremmo di vendervi. Lasciamo stare che da venti anni in
qua noi abbiamo immaginati libri tali di letteratura, da potere squadernarli
sul viso a qualunque detrattore, allorché ci risolveremo a comporli ed a
svergognare il resto d'Europa. Lasciamo stare che in Firenze e fuori di Firenze
vi hanno giornali che vegliano dí e notte alla vendetta, e che con brevi ma
calzanti argomenti rovinano i paralogismi, e mandano scornata l'arroganza di
chi ne minaccia assalto; e, quel che è proprio edificante, usando sempre
rispetto verso le persone, decenza nei modi, e galanteria fiorita coi rivali di
sesso gentile: arti tutte non praticate che in Italia, perché il Galateo è nato
qui. Lasciamo stare che le ingiurie de' nostri nimici, non appena scorsi
diciannove anni da che sono stampate, cosí calde calde noi le confutiamo: tanto
è vero che in Italia non si dorme! Lasciamo stare che da qui ad altri
diciannove anni saremo pronti a ripetere le, osservazioni in lode dell'Italia
che trovansi stampate ne' líbri di quegli stessi nemici, e non leggonsi ne'
libri nostri. Lasciamo stare, dico, tutto questo. Sia pur vero l'ozio
letterario, di che ne si vuole rimproverare. Ma che potete voi dire di píú
lusinghiero per noi? Questo nostro far nulla per le lettere non è egli il
documento piú autentico della ricchezza che n'abbiamo? Chi non ha rinomanza,
stenti la sua vita per guadagnarsela. Chi non ereditò patrimonio, sudi la vita
sua a ragunarne uno. La letteratura d'Italia è un pingue fedecommesso. Bella, e
fatta l'hanno trasmessa a noi i padri nostri. Né ci stringe altro obbligo che
di gridare ogni dí trenta volte i nomi e la memoria de' fondatori del
fedecommesso, e di tramandarlo poi tal quale a' figli nostri, perché ne godano
l'usufrutto e il titolo in santa pace.
Però non ti dia scandalo, figliuolo mio, se certi lilliputi nostrali, non
trovando altro modo a scuotersi giú dalle spalle l'oscurità, si dànno a
parteggiare nel seno della cara patria, e ripetono per le contrade della cara
patria la sentenza universale d'Europa contro la cara patria nostra.
Oltrediché questi degeneri figli dell'Italia oseranno anche sussurrarti
altre bestemmie all'orecchio; come a dire, che la confessione de' propri
difetti è indizio di generosità d'animo; che il nasconderli quando sono già
palesi a tutti, è viltà ridicola; che il primo passo al far bene è il conoscere
di aver fatto male; che questa conoscenza valse a' Francesi il secolo di Luigi
decimoquarto, alla Germania il secolo diciottesimo; e che infine poi anche
Dante, anche il Petrarca e l'Ariosto e '1 Machiavello e l'Alfieri stimarono
lecito lo scagliare invettive amare contro l'Italia. Oibò! non è vero. Que'
brutti passi furono malignamente
inseriti nelle, opere loro dagli editori oltramontani; e la trufferia è
manifesta. È egli credibile che gente italiana per la vita cadesse in tanta
empietà? Chiunque ama davvero la patria sua non cerca di migliorarne la
condizione. Chi tasta nel polso al fratello suo la febbre mortale, se ama lui
davvero, gliela tace; non gli consiglia farmaco mai né letto, e lo lascia andar
diritto al Creatore.
E tu, allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico d'ogni
novità; o il mio viso non lo vedrai sereno unquanco. "Unquanco" dico;
e questo solo avverbio ti faccia fede che il vocabolario della Crusca io lo
rispetto; come ché io, conciossiaché di piccola levatura uomo io mi sia, a otta
a otta mal mio grado pe' triboli fuorviato avere, eper tal convenente io lui,
avegna Dio che niente ne fosse, in non calere mettere parere disconsentire non
ardisca.
Per l'onor tuo intanto e pel mio e per quello della patria nostra, ti
scongiuro ad usar bene del tempo. Però bell'e finito mandami presto
quell'idillio in cui introduci Menalca e Melibeo a cantare tutta quanta, alla
distesa, la genealogia di Agamennone miceneo. La via della gloria ti sta
aperta. Addio.
Il tuo Grisostomo.
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