Errico Malatesta
Rivoluzione e lotta quotidiana

4. Le idee ed i fatti

3. LA GRANDE SPERANZA

b. Le due vie: riforme e rivoluzione

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b. Le due vie: riforme e rivoluzione45

 

Tutta la cosiddetta legislazione sociale, tutte le misure statali intese a “proteggere” il lavoro ed assicurare ai lavoratori un minimo di benessere e di sicurezza e così pure tutti i mezzi adoperati da capitalisti intelligenti per legare l’operaio alla fabbrica con premi, pensioni ed altri benefizi, quando non sono una menzogna ed una trappola, sono un passo verso questo stato servile che minaccia l’emancipazione dei lavoratori ed il progresso dell’umanità.

Salario minimo stabilito per legge; limitazione legale della giornata di lavoro; arbitrato obbligatorio; contratto collettivo di lavoro avente valore giuridico; personalità giuridica delle associazioni operaie; misure igieniche nelle fabbriche prescritte dal governo; assicurazioni statali per le malattie, la disoccupazione, le disgrazie sul lavoro; pensioni per la vecchiaia; compartecipazione agli utili, ecc. ecc., sono tutte misure per far sì che i proletari restino sempre proletari ed i proprietari sempre proprietari: tutte misure che danno ai lavoratori (quando lo danno) un po’ di benessere e sicurezza, ma li privano di quel po’ di libertà che hanno, e tendono a perpetuare la divisione degli uomini in padroni e servi.

Certamente è bene, aspettando la rivoluzione – e serve anche a renderla più facile – che i lavoratori cerchino di guadagnare di più e di lavorare meno ore ed in migliori condizioni; è bene che i disoccupati non muoiano di fame; che i malati ed i vecchi non siano abbandonati. Ma questo, ed altro, i lavoratori possono e debbono ottenerlo da loro stessi, con la lotta diretta contro i padroni, mediante le loro organizzazioni coll’azione individuale e collettiva, sviluppando in ciascun individuo il sentimento di dignità personale e la coscienza dei suoi diritti.

I doni dello Stato, i doni dei padroni sono frutti avvelenati che portano con loro i semi della servitù. Bisogna respingerli.

Riconosciuto che tutte le riforme, le quali lascian sussistere la divisione degli uomini in proprietari e proletari e quindi il diritto in alcuni di vivere sul lavoro degli altri, non potrebbero, se ottenute ed accettare come benefiche concessioni dello Stato e dei padroni che attenuare la ribellione degli oppressi contro gli oppressori e condurre alla costituzione di uno stato civile in cui l’umanità sarebbe definitivamente divisa in classi dominanti e classi , non resta altra soluzione che la rivoluzione: una rivoluzione radicale che abbatta tutto l’organismo statale, che espropri i detentori della ricchezza sociale e metta tutti quanti gli uomini sullo stesso piede d’uguaglianza economica e politica.

Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per stessa un male. Deve essere violenta perchè sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunziarvi volontariamente. Deve essere violenta perchè la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini.

Vengano pure le riforme se possono venire. Esse possono essere di beneficio momentaneo e servire a stimolare nelle masse sempre maggiori desideri e maggiori pretese, se i proletari serbano vivo il sentimento che i padroni ed i governanti sono i nemici, che tutto ciò che cedono è strappato loro dalla forza o dalla paura della forza e sarebbe presto ritirato se la paura cessasse. Chè se invece le riforme fossero raggiunte per accordi e collaborazione tra dominati e dominatori, non servirebbe che a ribadire le catene che legano i lavoratori al carro dei parassiti.

Del resto oggi il pericolo che le riforme addormentino le masse e riescano a consolidare e perpetuare l’organizzazione borghese pare superato. Non vi sarebbe che il tradimento cosciente di coloro, che colla predicazione socialista sono riusciti ad acquistare la fiducia dei lavoratori, che potrebbe dar loro valore.

La cecità della classe dirigente e l’evoluzione naturale del sistema capitalista accelerata dalla guerra han fatto si che qualsiasi riforma accettabile dai proprietari è impotente a risolvere la crisi che travaglia il paese.

Dunque la rivoluzione s’impone, la rivoluzione viene.

Ma come si deve fare, come si deve svolgere questa rivoluzione?

Naturalmente bisogna principiare con l’atto insurrezionale che spazzi via l’ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si oppone a qualunque trasformazione sociale.

Per l’insurrezione è... necessario prepararvisi il meglio che si può, moralmente e materialmente; ed è necessario sopratutto di profittare di tutti i moti spontanei di popolo e cercare di generalizzarli e trasformarli in movimenti risolutivi, per evitare il pericolo che, mentre, i partiti si preparano, la forza popolare si esaurisca in fatti isolati.

Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, dopo che il governo è caduto, che cosa bisogna fare?

Noi, gli anarchici, vorremmo che in ciascuna località i lavoratori, o più propriamente quella parte dei lavoratori che ha maggiore coscienza e maggiore spirito d’iniziativa, pigliasse possesso di tutti gli strumenti di lavoro, di tutta la ricchezza, terra, materie prime, case, macchine, generi alimentari, ecc., ed abbozzasse il meglio possibile la nuova forma di vita sociale. Vorremmo che i lavoratori della terra che oggi lavorano per dei padroni non riconoscessero più alcun diritto ai proprietari e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto loro, entrando in rapporti diretti cogli operai delle industrie e dei trasporti per lo scambio dei prodotti; che gli operai delle industrie, ingegneri e tecnici compresi, pigliassero possesso delle fabbriche e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto proprio e della collettività, trasformando subito tutte quelle fabbriche che oggi producono cose inutili o dannose in produttrici delle cose che più urgono per soddisfare i bisogni del pubblico; che i ferrovieri continuassero ad esercitare le ferrovie ma per il servizio della collettività; che comitati di volontari o di eletti dalla popolazione pigliassero possesso, sotto il controllo diretto della massa, di tutte le abitazioni disponibili per alloggiare il meglio che per il momento si potesse, tutti i più bisognosi; che altri comitati, sempre sotto il controllo diretto delle masse, provvedessero all’approvvigionamento  ed alla distribuzione dei generi di consumo; che tutti gli attuali borghesi siano messi nella necessità di confondersi nella folla di coloro che furono proletari e lavorare come gli altri per godere gli stessi benefici degli altri. E tutto questo, subito, nel giorno stesso o nell’in-domani immediato dell’insurrezione vittoriosa, senza aspettare ordini di comitati centrali o di altre qualsiasieno autorità.

Questo è quel che vogliono gli anarchici, ed è poi quello che naturalmente avverrebbe se la rivoluzione deve essere davvero una rivoluzione sociale e non ridursi ad un semplice cambiamento politico, che dopo qualche convulsione riporterebbe le cose allo stato di prima. Poichè, o si leva subito alla borghesia il potere economico o questa ripiglierebbe in breve anche il potere politico che l’insurrezione le avrebbe strappato. E per poter levare alla borghesia il potere economico, bisogna organizzare immediatamente un nuovo assetto economico basato sulla giustizia e sull’eguaglianza. I bisogni economici, almeno i più essenziali, non ammettono interruzioni e bisogna soddisfarli subito. I “comitati centrali” o non fanno nulla o fanno quando non c’è più bisogno dell’opera loro.

 





45 In "Umanità Nova", 12 agosto 1920.



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