Errico Malatesta
Rivoluzione e lotta quotidiana

2. Antiparlamentarismo ed elezionismo

4. ELEZIONI E VOTAZIONI

a. “Anarchici” elezionisti

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4. ELEZIONI E VOTAZIONI

 

a. “Anarchicielezionisti29

 

Poichè non vi è e non vi può essere nessuna autorità che dia o tolga il diritto di dirsi anarchico, siamo ben costretti di tanto in tanto di rilevare l’apparizione di qualche convertito al parlamentarismo che continua, almeno per un certo tempo, a dichiararsi anarchico.

Non troviamo niente di male, niente di disonorante nel cambiare di opinione, quando il cambiamento è causato da nuove sincere convinzioni, e non da motivi d’interesse personale; vorremmo però che uno dicesse francamente quello che è diventato e quello che ha cessato di essere per evitare equivoci e discussioni inutili. Ma forse questo non è possibile, perchè chi cambia d’idee, generalmente al principio non sa egli stesso dove andrà a parare.

Del resto quel che avviene a noi, avviene, ed in proporzioni assai maggiori, in tutti i partiti ed in tutti i movimenti politici e sociali. I socialisti, per esempio, han dovuto soffrire che si dicessero socialisti sfruttatori e politicanti di tutte le specie; ed i repubblicani sono pur costretti oggi a sopportare che certi figuri venduti al partito dominante usurpino niente meno che il nome di mazziniani.

Fortunatamente l’equivoco non può durare a lungo. Ben presto la logica delle idee e la necessità dell’azione inducono i pretesi anarchici a rinunziare spontaneamente al nome e a mettersi nel posto che loro si compete. Gli anarchici elezionisti che sono spuntati fuori in varie occasioni hanno tutti più o meno rapidamente abbandonato l’anarchismo, così come gli anarchici dittatoriali o bolscevizzanti diventano presto bolscevichi sul serio, e si mettono al servizio del governo russo e dei suoi delegati.

Il fenomeno si è riprodotto in Francia in occasione delle elezioni di questi giorni. Il pretesto è l’amnistia. “Migliaia di vittime gemono nelle prigioni e nei bagni penali; un governo di sinistra darebbe l’amnistia; è dovere di tutti i rivoluzionari, di tutti gli uomini di cuore il fare quello che si può per fare uscire dalle urne i nomi di quegli uomini politici che, si spera, darebbero l’amnistia”. Questa è la nota che domina nei ragionamenti dei convertiti.

In Italia fu l’agitazione a favore di Cipriani prigioniero che servì di pretesto ad Andrea Costa per gli anarchici romagnoli alle urne, ed iniziare così la degenerazione del movimento rivoluzionario creato dalla prima Internazionale e finire col ridurre il socialismo ad un mezzo per trastullare le masse ed assicurare la tranquillità della monarchia e della borghesia.

Ma veramente i francesi non hanno bisogno di venire a cercare gli esempi in Italia, poichè ne hanno di eloquentissimi nella storia loro.

In Francia, come in tutti i paesi latini, il socialismo nacque, se non precisamente anarchico, certamente antiparlamentare: e la letteratura rivoluzionaria francese dei primi dieci anni dopo la Comune abbonda di pagine eloquenti, dovute fra le altre alle penne di Guesde e di Brousse, contro la menzogna del suffragio universale e la commedia elettorale e parlamentare.

Poi, come Costa in Italia, i Guesde, i Massard, i Deville e più tardi lo stesso Brousse, furono presi dalla fregola del potere, e forse anche dalla voglia di conciliare la nomea di rivoluzionari con il quieto vivere ed i vantaggi piccoli e grandi che provengono a chi entra nella politica ufficiale, sia pure come oppositore. Ed allora cominciò tutta una manovra per cambiare l’indirizzo del movimento, ed indurre i compagni ad accettare la tattica elettorale. Molto servì anche allora la nota sentimentale: si voleva l’amnistia per i comunardi, bisognava liberare il vecchio Blanqui che moriva in prigione. E con questi cento pretesti, cento espedienti per vincere la ripugnanza che essi stessi, i transfughi, avevano contribuito a far nascere nei lavoratori contro l’elezionismo, e che d’altronde era alimentata dal ricordo ancora vivo dei plebisciti napoleonici e dei massacri perpetrati in giugno 1848 ed in maggio 1871 per il volere delle assemblee uscite dal suffragio universale. Si disse che bisognava votare per contarsi, ma che si voterebbe per gli ineleggibili, per i condannati, o per le donne o per i morti; altri propose di votare schede bianche o con un motto rivoluzionario; altri voleva che i candidati rilasciassero nelle mani dei comitati elettorali delle lettere di dimissione per il caso che fossero eletti. Poi quando la pera fu matura, cioè quando la gente si lasciò persuadere ad andare a votare, si volle essere candidati e deputati sul serio: si lasciarono i condannati marcire in prigione, si rinnegò l’antiparlamentarismo, si disse peste dell’anarchismo; e Guesde attraverso cento palinodie finì ministro del governo dell’"unione sacra", Deville divenne ambasciatore della repubblica borghese, e Massard, credo, qualche cosa di peggio.

Noi non vogliamo mettere in dubbio preventivamente la buona fede dei nuovi convertiti tanto più che tra essi ve n’è un paio con cui abbiamo avuti vincoli d’amicizia personale. In generale queste evoluzioni – o involuzioni che dir si voglia – s’incominciano sempre in buona fede; poi, la logica sospinge, l’amor proprio vi si mischia, l’ambiente vince… e si diventa quello che prima ripugnava.

Forse in questa circostanza non avverrà nulla di quello che temiamo, perchè i neoconvertiti sono pochissimi e ben poca è la probabilità ch’essi trovino larghe adesioni nel campo anarchico, e quei compagni o ex‑compagni rifletteranno meglio e riconosceranno il loro errore. Il nuovo governo che sarà installato in Francia dopo il trionfo elettorale del blocco di sinistra, li aiuterà a persuadersi che ben poca differenza v’è tra esso e il governo precedente, non facendo niente di buono nemmeno l’amnistia – se la massa non l’imporrà con l’agitazione. Noi cercheremo, dal nostro punto di vista, di aiutarli ad intender ragione con qualche osservazione, che del resto non dovrebbe esser nuova per chi aveva già accettata la tattica anarchica.

È inutile il venirci a dire, come fanno quei buoni amici, che un po’ di libertà vale meglio che la tirannia brutale senza limite e freno, che un orario ragionevole di lavoro, un salario che permette di vivere un po’ meglio delle bestie, la protezione delle donne e dei bambini sono preferibili ad uno sfruttamento del lavoro umano fino ad esaurimento completo del lavoratore, che la scuola di Stato, per cattiva che sia, è sempre migliore dal punto di vista dello sviluppo morale del fanciullo di quella impartita dai preti e dai frati… Noi ne conveniamo volentieri: e conveniamo pure che vi possono essere delle circostanze in cui il risultato delle elezioni, in uno Stato od in un Comune, può avere delle conseguenze buone o cattive e che questo risultato potrebbe essere determinato dal voto degli anarchici se le forze dei partiti in lotta fossero quasi uguali.

Generalmente si tratta di un’illusione; le elezioni, quando queste sono tollerabilmente libere, non hanno che il valore di un simbolo: mostrano lo stato dell’opinione pubblica, che si sarebbe imposta con mezzi più efficaci e risultati maggiori se non le si fosse offerto lo sfogatoio delle elezioni. Ma non importa: anche se certi piccoli progressi fossero la conseguenza diretta di una vittoria elettorale, gli anarchici non dovrebbero accorrere alle urne e cessare dal predicare i loro metodi di lotta. Poichè non è possibile far tutto al mondo, bisogna scegliere la propria linea di condotta

 





29 In "Pensiero e Volontà", 15 maggio 1924.



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