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Federigo Tozzi
Ricordi di un impiegato

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5 marzo, sera

Vado a mangiare insieme con il gestore, Dante Brilli, e con un giovanotto di Firenze, aiuto applicato come me, che si chiama Marcello Capri. Il padrone della nostra osteria lavora ad una fabbrica di mattoni, e torna soltanto nelle ore che anche noi abbiamo riposo; ma non aiuta la moglie, che deve cucinare e servire a tavola, tenendo quasi sempre in collo uno dei suoi due figli.

I nostri compagni di mensa appartengono al personale viaggiante; e noi ordiniamo le pietanze due ore prima, perché l’ostessa ha un numero così ristretto di buoni clienti che fa la spesa a seconda dei loro gusti. Senza questo sistema, troveremmo soltanto uova sode e insalata.

Oggi vi ho trovato Drago; che ha salutato soltanto il gestore, con una voce che per farmi capire il rancore piglia una specie di lucidità tagliente. Perché non gli pago da bere, e così facciamo pace? Non glielo pago, perché so che mette tutti contro di me. È arrivato a tal punto che anche il capostazione non m’ha più quella bontà dei primi giorni. M’hanno detto che se riuscirà ad avere dalla sua il vicegestore, può darsi anche che mi mandino in qualche stazione di montagna, lontano da Firenze. È molto benvisto perfino dal sindaco di Pontedera perché, quando deve fare le spedizioni del suo vino, Drago sta attento che non gliene portino via né meno un fiasco. Sedendosi voltato verso di me, si fa portare un litro; e ne offre un bicchiere al gestore. E io, invece, lo perdono. Ha una gran voglia d’attaccare briga con me, e cerca tutti i pretesti per trascinarmi in discorso. Prima d’andarsene, dice:

— Io gli uomini senza i baffi non li posso sopportare.

E il Brilli mi domanda:

— Perché non se li lascia crescere? Sa che lei è un bel tipo? O perché vuole stare sbaffato? Qua a Pontedera lo prenderanno tutti in uggia.

Io rispondo:

— Me ne sono accorto; ma non voglio cedere.

Il gestore, allora, mi compare:

— E lei se ne pentirà.

Il Capri, invece, vuol mettere la cosa in burletta; e racconta che anche il vicegestore mi vuol consigliare di non rasarmi altro che la barba. Allora, il Brilli risponde:

— Quegli deve pensare piuttosto alle sue magagne. Non so come facciano a tenerlo in una pubblica amministrazione.

E. per il bisogno di sentirci affezionati a lui, ci paga mezzo litro in due. Non m’è possibile rifiutare e né meno stare lontano da quel dissidio. Per di più, l’ostessa mi chiede:

— Perché, la prima sera, non ha voluto mangiare da me? Perché, forse, la mia bottega le pare troppo modesta? Si vede subito che lei è abituato male; ma bisogna che si adatti anche lei. Il signor Brilli mangia più volentieri qui che in qualunque altra locanda; e lei è da meno di lui.

Il gestore dice, ridendo:

— Forse, dentro di sé, si tiene da più di me!

Marcello Capri soggiunge:

— Me ne sono avvisto anche io. Tu non sai trattarci da pari a pari. Perché? Qui, siamo tutti uguali.

Io domando:

— Perché vi mettete in testa queste cose?

 

Allora il Brilli mi redarguisce senza riguardo:

— È la verità; e lei non si permetta di parlare così con i suoi superiori.

Mi sento disgustato; e capisco che è meglio tacere; e appena mi riesce di masticare gli ultimi bocconi. Ma siccome la mattina non avrei tempo e la sera mi addormento subito, tutti i giorni, prima di alzarmi da tavola, scrivo una lettera ad Attilia. La lettera è quasi sempre lunga e non discorro più con i miei due commensali. Il gestore, irritato, mi chiede:

— Ma che cosa scrive?

L’ostessa dice:

— Non si può sapere!

Io, cercando di rendermelo più benigno, gli rispondo:

— Sono fidanzato a Firenze.

L’ostessa, aguzzando gli occhi e il viso, rincalza:

 

— Mi pare impossibile che lei possa voler bene a una donna. È così cupo!

Credo che si tratti di uno scherzo confidenziale; ma il Brilli e Marcello Capri l’approvano.

Intanto, il figlio maggiore dell’ostessa inciampa in un fiasco; cade e piange. Ed ella mi guarda in modo come se ne avessi colpa io.




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