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Quinto Settimio Florente Tertulliano De poenitentia IntraText CT - Lettura del testo |
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CAPUT II. Non si può chiamare Penitenza se non quella che si rivolge ai peccati. Se chi segue tale linea di condotta, agisse nella piena conoscenza di Dio e se per mezzo di esso avesse chiaro il concetto e intero il possesso della ragione; questi tali, dico, comincerebbero anzitutto a calcolare e a valutare giustamente la grandezza del principio della penitenza; e non ricorrerebbero mai ad essa per sostenere e coonestare procedimenti errati; eppoi finalmente porrebbero un limite a questo continuo pentirsi, perché, evidentemente, avendo timore di Dio, saprebbero anche tenersi lontani dalle occasioni di mal fare. Ma dove non è affatto timore del Signore, non vi può neppure essere modo di rinascita morale; e là dove questa possibilità di resurrezione dello spirito non c'è, la penitenza necessariamente cade nel vuoto, perché viene a mancare di quello che è il frutto e la luce sua più bella e per cui Iddio l'ha seminata e largita all'uomo; intendo dire, la sua salvezza. Poiché Iddio, dopo tante e così grandi colpe commesse dall'umana superbia e che risalgono ad Adamo, primo di questa nostra terrena stirpe; dopo aver pronunziata solenne condanna sull'uomo, col [168] peccato che è il triste retaggio delle umane genti, dopo averlo scacciato dall'eterno giardino ed averlo assoggettato alla trista necessità della morte; essendosi poi egli novamente volto a sensi di misericordia, fin d'allora istituì e consacrò in sé stesso la penitenza, stracciando la sentenza che aveva lanciata nello scoppio del suo primo sdegno; e venne a patti, che avrebbe perdonato all'uomo che era stato creato da lui a sua stessa immagine. E infatti, si scelse e fece suo un popolo e lo colmò dei doni infiniti della bontà sua, ma avendolo pure riscontrato tante volte ingrato in sommo grado, l'esortò e lo richiamò sempre a penitenza; fece che la bocca di tutti i profeti s'aprisse alla luce della profezia e promise tosto fulgore di grazia, della quale negli ultimi tempi per opera dello Spirito Santo doveva spargere per tutto l'inesausto tesoro; e volle che il sacro lavacro della penitenza, precedesse l'altro, perché con tale segno sacro si trovassero già in stato di grazia, coloro che Egli chiamava alle promesse fatte alla stirpe di Adamo. Giovanni esclama; fate penitenza; e già infatti stava per apparire alle genti una via di salvezza; era il Signore che la portava secondo la promessa di Dio; e Giovanni, intendendo intimamente il volere divino, e volendolo eseguire bandisce il principio della penitenza, perché, quanto un antico errore avesse potuto nell'animo falsare e guastare; quello che nel cuore dell'uomo potesse essere stato dall'ignoranza contaminato e [169] corrotto, tutto questo la penitenza facesse scomparire e ricoprendo con un manto di innocenza e di purità, apprestasse allo Spirito Santo che doveva discendere, integra la sede dell'animo nostro, dove potesse fermarsi in letizia, con tutti i suoi doni celesti: in uno solo si riassumono tutti questi beni : la salvezza dell'uomo, premesso l'annullamento d'ogni colpa precedentemente commessa: il punto essenziale della penitenza è appunto questo; che mentre essa è in servigio dell'uomo, mantiene integro il suo divino principio ed è parte sostanziale della misericordia del Signore. Del resto la strada che segue la penitenza ha una linea ben determinata e precisa e di essa non possiamo aver conoscenza esatta se non possediamo prima quella di Dio: la penitenza non può forzare la mano su qualche cosa che si sia fatto e pensato di bene. Non può approvare il Signore che noi in qualche modo rinneghiamo quello che talvolta si può aver fatto di buono: tutto ciò che è bontà, è di lui, da lui muove: le opere buone egli le difende e protegge e rappresentano quindi quello che egli gradisca maggiormente e se Iddio le accetta, saprà anche ricompensarle a dovere. Considera e rifletti ora dunque, se quella che sia l'ingratitudine umana debba minimamente suscitare un senso di pentimento per avere agito bene e si consideri pure, d'altro lato, se l'idea d'esser fatto segno a manifestazioni di gratitudine, possa m sé stessa, essere d'incitamento ad ogni bene: l'ima e [170] l'altra sono povere cose della terra, hanno una breve vita esse; sarà ben piccolo il vantaggio che ricaverai dal ben fare a persona che poi te ne sarà grata; come sarà piccolo il danno, se agirai bene all'indirizzo di chi invece ti ricambierà coll'ingratitudine; il beneficio chiama Dio a suo debitore ed anche chi agisce male deve attendere quel che gli spetta da Dio: egli è giudice e compensa l'una e l'altra partita. E dal momento che c'è Iddio, che regge e guida in un principio di giustizia, che egli vuole, perché è figlia sua prediletta; dal momento che, conformemente alla sua natura, appunto, egli tempera e governa l'insieme della sua dottrina, si può forse dubitare che come in tutte le altre azioni della nostra vita, non sia da rendere a Dio il più grande tributo di giustizia, anche in materia di penitenza? E si potrà soddisfare a questo principio di equità, se in noi, solo per cattive azioni, sentiamo nascere nel nostro spirito un senso di pentimento; e invero non si può chiamare peccato che quanto è male e colpevolmente compiuto: non v'è nessuno che possa divenir peccatore col far benefizio. E se non commetti peccato, perché lasciar sorgere in noi questo senso della penitenza che è invece proprio di coloro che agiscono colposamente? perché dare alla bontà certi caratteri e certi elementi che sono propri soltanto della malvagità? E avviene così appunto che mentre qualche cosa si fa quando non bisognerebbe, si [171] trascuri invece, allorché giunga il momento giusto o la circostanza opportuna.
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