Alla conquista della luna
Testo
Alcuni anni or sono,
i pochi abitanti di Allegranza, un piccolo isolotto del gruppo delle
Canarie, venivano bruscamente svegliati da un colpo di cannone il cui
rimbombo s'era ripercosso lungamente fra quelle aride rocce, bruciate
dall'ardente sole africano.
Un colpo di cannone per quegl'isolani,
che vivevano così lontani da qualsiasi terra considerevole, e
che solo a lunghi intervalli vedevano qualche piccolo veliero entrare
nella baia dell'isolotto per provvedersi d'acqua ed imbarcare qualche
partita di pesce secco, era un tale avvenimento da metterli nella più
viva curiosità.
La nave che aveva annunziato il suo
arrivo con quel colpo, non era uno dei soliti velieri, bensì
un bel vapore dipinto in grigio e che inalberava sull'albero di
maestra la bandiera brasiliana.
Non era di grossa portata; se fosse
stato di mole considerevole non avrebbe potuto trovare fondo
sufficiente nella piccola baia; tuttavia era un bel piroscafo che
doveva stazzare almeno cinque o seicento tonnellate, come asseriva
José Faja, il più vecchio e rispettato dei pescatori
dell'isola e che nella sua gioventù aveva navigato il mondo in
lungo ed in largo.
Tutta la popolazione, dunque, una
quarantina di persone, fra uomini e donne, si era rovesciata sulla
spiaggia, attratta da quella inaspettata novità.
In vent'anni era il secondo battello a
vapore che s'era degnato mostrarsi agli sguardi degli isolani:
meritava quindi la pena di andarlo ad ammirare.
Tutti si erano affollati attorno al
vecchio Faja, che, nella sua qualità di marinaio, doveva
saperla più lunga di tutti, chiedendogli il suo parere su
quella visita straordinaria.
– Che cosa verrà a fare
qui, che non vi è nulla da imbarcare fuorchè delle
pietre? – si chiedevano tutti, guardando il vecchio.
– Non posso dirvi altro che è
una bella nave a vapore, che deve camminare come una dorata –
rispondeva l'ex marinaio. – Quando l'equipaggio verrà a
terra, ne sapremo di più.
Il battello a vapore, dopo quel colpo
di cannone, era entrato lentamente nella baia, scandagliando con
precauzione il fondo, per non correre il pericolo di arenarsi; poi
aveva gettato le sue àncore, senza occuparsi dei curiosi che
si affollavano sulla riva.
Terminate quelle manovre, gli uomini
che formavano l'equipaggio erano scomparsi sotto coperta e più
nessuno si era fatto vedere, nè alcuna scialuppa era stata
calata in mare.
Il vecchio Faja non sapeva che
pensare. Se quella nave era entrata nella baia, non era certo per
riposarsi. Qualche motivo ci doveva essere per approdare a
quell'isolotto, che non offriva nulla di attraente, fuorchè
rocce e rupi con pochi fili di erba e pochi alberi semibruciati dal
sole.
Durante quella prima giornata,
gl'isolani attesero invano che qualcuno sbarcasse.
Verso sera, invece, due grosse
scialuppe furono calate dalla nave e trasportarono a terra un bel
numero di casse accuratamente numerate ed una certa quantità
di legname, che pareva destinato alla costruzione di una capanna o di
qualche cosa di simile.
Faja, che sapeva qualche parola
brasiliana, si provò ad interrogare i marinai e non ebbe
alcuna risposta. Tutti quegli uomini parevano muti.
Senza darsi alcun pensiero
degl'isolani, disposero le casse in bell'ordine, poi scavarono un
fosso profondo, di forma circolare, ed eressero una palizzata
abbastanza alta per impedire ai curiosi di vedere nell'interno.
Compiuti quei lavori e chiusa la
palizzata con un robusto cancello di ferro con doppi chiavistelli, i
marinai tornarono a bordo del piroscafo, senza aver pronunziato una
sola parola.
– Non capisco nulla –
disse il vecchio Faja, un po' indispettito. – L'isola
appartiene a noi e quegli stranieri ne dispongono come se fosse di
loro proprietà. Se domani il comandante del piroscafo non ci
darà spiegazioni, parola da marinaio che farò bruciare
la cinta e anche le casse.
– E noi ti aiuteremo, Faja –
gridarono in coro gl'isolani.
– Andiamo a dormire e a domani –
disse il vecchio.
All'alba l'ex marinaio era già
in piedi, ben deciso di recarsi dal comandante e di dirgli ad alta
voce che quell'isola era proprietà del Governo spagnuolo e non
già del brasiliano; invece, con sua profonda sorpresa, non
vide più la nave.
I Brasiliani, approfittando del sonno
degl'isolani, se n'erano andati, senza degnarli d'un colpo di cannone
come saluto.
Alcuni pescatori, che si erano alzati
per tempo al pari di lui, lo avevano raggiunto, mostrandosi non meno
stupiti per quell'improvvisa partenza della nave.
Avevano però constatato che la
cinta non era stata levata e che le casse non erano state toccate.
– Vecchio Faja – disse uno
dei pescatori – ci capisci qualche cosa di quell'improvvisa
fuga di quei misteriosi naviganti?
– Meno d'ieri – rispose
l'ex marinaio.
– E quel recinto perchè
l'avranno inalzato? – chiese un altro.
– E quelle casse che cosa
conterranno? – chiese un terzo.
– Se contenessero delle macchine
infernali cariche di dinamite per far saltare l'isola e provare la
potenza di qualche nuovo esplosivo! – esclamò Faja, con
spavento.
Quelle parole avevano terrorizzato di
colpo quei bravi pescatori, i quali avevano una cieca fiducia nell'ex
marinaio. Stavano per darsela a gambe per rifugiarsi sulle rive
occidentali dell'isola, quando uno di loro li fermò, dicendo
– Vedo due uomini nel recinto!
Tutti si erano fermati. Se vi erano
delle persone fra quelle casse, non vi era più da temere
un'esplosione. Non sarebbero stati così stupidi da saltare in
aria assieme al recinto.
– Andiamo a interrogarli –
disse Faja, che aveva riacquistato prontamente il suo coraggio. –
Si spiegheranno o li metteremo in un canotto e li affideremo alle
onde.
Scese verso la riva seguìto dai
pescatori e, giunto dinanzi al cancello, si annunziò con un
clamoroso:
– Oh, signori! Che cosa fate
qui?
I due stranieri erano occupati ad
aprire delle casse, dalle quali traevano degli specchi colossali che
deponevano al suolo, uno sull'altro, con infinite precauzioni.
Entrambi erano attempati, quasi calvi
e portavano occhiali. Avevano più l'aspetto di scienziati o di
professori che di gente di mare.
Vedendo Faja, uno dei due che aveva
una lunga barba bianca e che pareva il più anziano, aprì
il cancello e salutò cortesemente l'ex marinaio con un:
– Buon giorno, mio caro isolano.
Faja, un po' sconcertato da
quell'accoglienza e dall'aspetto grave di quei due personaggi, era
rimasto qualche istante muto, poi fattosi animo rispose:
– Perdonate, signori, se noi
siamo venuti a disturbarvi, ma...
– Niente affatto – rispose
lo sconosciuto.
– Comprenderete... un po' di
curiosità... e poi l'isola appartiene al Governo spagnuolo,
che mi ha nominato alcade, e...
– Vi capisco – disse lo
sconosciuto, sorridendo. – Voi desiderate sapere, signor
alcade, perchè noi siamo sbarcati senza chiedere il
permesso e che cosa siamo venuti a fare qui. Rassicuratevi: non
abbiamo alcuna intenzione di disputare al Governo spagnuolo la
proprietà dell'isola, nè di recare danno alcuno ai suoi
sudditi.
«Noi siamo due tranquilli
scienziati brasiliani, incaricati di tentare un grande esperimento
che farà epoca nel mondo: andiamo a tentare la conquista della
luna.
– Oh! – esclamarono i
pescatori, guardandosi uno con l'altro, con uno stupore impossibile a
descrivere.
– Intanto – proseguì
lo scienziato – siccome noi abbiamo occupato un terreno che
appartiene al Governo spagnuolo, accettate, signor alcade,
queste cento piastre.
Consegnò a Faja una borsa, poi
con un gesto lo congedò, dicendo:
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