Erano appena suonate le tre del
mattino quando Yanez, seguìto da Sandokan, da Tremal-Naik e
dai sei malesi giungeva dinanzi al palazzo reale, per intraprendere la caccia
della terribile kala-bâgh ossia la tigre nera.
Fino dal giorno innanzi avevano
noleggiati tre grandi tciopaya, ossia carri indiani tirati da una coppia di
zebù, non essendo conveniente che un uomo bianco e per di più inglese, si
recasse ad un appuntamento a piedi e senza una scorta numerosa.
Il maggiordomo della corte aveva
preparato ogni cosa per la grande caccia.
Tre magnifici elefanti, che
reggevano sui poderosi dorsi delle comode casse destinate ai cacciatori, prive
di cupolette onde non intralciare il fuoco delle carabine e montati ognuno da
un mahut, stavano fermi in mezzo alla piazza, circondati da una dozzina di
behras, ossia di valletti che tenevano a guinzaglio una cinquantina di
bruttissimi cani, di statura bassa, incapaci di tenere testa ad una belva così
pericolosa, ma necessari per scovarla.
Dietro agli elefanti stavano due
dozzine di scikari, ossia battitori, armati solamente di picche e quasi nudi,
onde essere più lesti a fuggire dopo aver stanata la belva.
- Siamo pronti, sahib - disse il
maggiordomo inchinandosi profondamente dinanzi a Yanez.
- Ed io essere contentissimo, -
rispose il portoghese degnando lo appena d'uno sguardo.
- Buoni elefanti?
- Provati e abituati alle grosse
cacce, sahib. Scegli quello che meglio ti conviene.
- Quello, - disse
Tremal-Naik, indicando il più piccolo dei tre pachidermi e
che aveva delle forme massicce, poderose e due denti superbi. - È un merghee di
buona razza. -
I mahuts avevano gettate le scale
di corda.
Yanez,
Tremal-Naik e Sandokan presero posto nella cassa del
merghee, Kammamuri coi malesi in quelle degli altri, insieme col maggiordomo
che doveva dirigere la battuta.
- Avanti! - disse Yanez al mahut.
I tre pachidermi si misero subito
in marcia mandando tre formidabili barriti, seguiti subito dagli scikari e dai
behras che conducevano i cani, i quali latravano a piena gola.
In meno di mezz'ora la truppa fu
fuori dalla città, poiché gli elefanti procedevano di buon passo obbligando la
scorta a correre per non rimanere indietro e si diresse attraverso le boscaglie
che si estendevano, quasi senza interruzione, fino nei dintorni di Kamarpur.
Yanez, dopo aver accesa la sua
eterna sigaretta e d'aver bevuto un lungo sorso d'arak, si era seduto dinanzi a
Tremal-Naik dicendogli:
- Ora tu, che sei indiano e che
hai passati tanti anni nelle Sunderbunds, ci spiegherai che cos'è questa tigre
nera.
Noi conosciamo quelle bornesi e
là di nere non ne abbiamo mai vedute, è vero Sandokan? -
Il pirata che fumava placidamente
il suo cibuc, gettando in aria, con lentezza misurata, delle nuvole di fumo,
fece col capo un cenno affermativo.
- Quella che noi indiani
chiamiamo kala-bâgh non è veramente nera, - rispose
Tremal-Naik. - Ha il mantello simile a quello delle altre:
siccome però sono le più feroci, i nostri contadini credono che incarni una
delle sette anime della dea Kalì che come sai si chiama anche la Nera.
- Non si tratterebbe quindi che
di uno di quei terribili solitari che gli inglesi chiamano man's eater ossia
mangiatori d'uomini.
- E che noi chiamiamo
admikanevalla o admiwala kanâh.
- Una bestia sempre pericolosa.
- Terribile, Yanez - disse
Tremal-Naik, - perché quelle tigri sono ordinariamente
vecchie, per ciò rotte a tutte le astuzie e d'una voracità spaventosa.
Non potendo, in causa dell'età
che le priva dello slancio giovanile, cacciare le antilopi od i buoi selvaggi,
s'imboscano nei dintorni dei villaggi o si nascondono in prossimità delle
fontane in attesa che le donne vadano a prendere acqua.
Sono d'una prudenza
straordinaria, conoscono luoghi e persone, attaccando di preferenza gli esseri
deboli e sfuggendo quelli che potrebbero tenere a loro testa.
- Vivono sole? - chiese Sandokan.
- Sempre sole, - rispose il
bengalese.
- Sono allora difficili a
catturarsi.
- Certo, perché sono
prudentissime e cercano di evitare sempre i cacciatori.
- Siccome però quella tigre mi è
necessaria, noi la prenderemo, - disse Yanez.
- Tu diventi incontentabile,
amico - disse Sandokan, ridendo. - Prima era la pietra di Salagraman che ti era
necessaria, oggi è una tigre e domani cosa vorrai?
- La testa del rajah, - rispose
Yanez celiando.
- Oh per quella, ci penso io. Un
buon colpo di scimitarra e te la porto ancora quasi viva.
- E i seikki che vegliano sul
principe, non li conti tu.
- Ah sì! Mi hai parlato di quei
guerrieri. Che gente sono, amico Tremal-Naik? Tu devi
conoscerli un po'.
- Guerrieri valorosi.
- Incorruttibili?
- Eh! Secondo, - rispose il
bengalese. - Non devi dimenticare, innanzi tutto che sono mercenari.
- Ah! - fece Sandokan.
- Ehi fratellino! - esclamò
Yanez. - Che cosa t'interessano quei seikki?
- Tu hai le tue idee, io ho le
mie, - rispose la Tigre della Malesia, continuando a fumare. - Sono anche
quelli adoratori di Visnù e delle pietre di Salagraman, amico
Tremal-Naik?
- Non adorano né Siva, né Brahma,
né Visnù, né Budda, - rispose il bengalese. - Essi non credono che in Nanek, un
religioso che sul principio del secolo decimosesto si fece un gran nome e che fondò
una nuova religione.
- Vorresti diventare anche tu un
seikko.
- Non glielo consiglierei, -
disse Tremal-Naik, scherzando - perché sarebbe costretto,
per essere ammesso a quella setta religiosa, a bere dell'acqua che ha servito a
lavare i piedi e le unghie al sacerdote.
- Ah! Porci! - esclamò Yanez.
- Ed a mangiare servendosi di un
dente di cinghiale, almeno per le prime volte.
- Perché? - chiese Sandokan.
- Per abituarsi a superare la
ripugnanza che tutti i mussulmani hanno pei maiali, - rispose
Tremal-Naik.
- Se lo terranno per loro il
dente perché io non ho alcun desiderio di diventare un seikko, - disse la Tigre
della Malesia. - Ho semplicemente un'idea verso quelle guardie. Bah! Ci
penseremo su.
Siamo nei boschi bassi. Apriamo
gli occhi. È in questi, è vero Tremal-Naik, che
preferiscono abitare quei terribili solitari?
- Sì, le macchie dei banani e le
terre umide delle grandi erbe, - rispose il bengalese.
- Teniamoci in guardia dunque. -
I tre elefanti, che procedevano
sempre di buon passo, erano giunti in una immensa pianura che era interrotta
qua e là da gruppi di mindi, arbusti non più alti di due o tre metri, dalla
corteccia bianchissima e lucente ed i rami sottilissimi; da piccoli banani e da
piccole macchie di butee frondose, dal tronco nodoso e robusto, coronato da un
folto padiglione di foglie vellutate d'un verde azzurrognolo e sotto le quali
pendevano degli enormi grappoli d'una splendida tinta cremisina.
A grandi distanze, e per lo più
in mezzo a piccole piantagioni d'indaco e ombreggiate da cespugli di mangifere,
si scorgeva qualche capanna. Animali invece non se ne vedevano: solamente degli
stormi di bulbul, quei piccoli, leggiadri e battaglieri rosignuoli indiani,
volavano via all'avvicinarsi degli elefanti e dei cani, mostrando le loro penne
picchiettate e la loro coda rossa.
- Che sia questo il regno della
tigre nera? - chiese Yanez.
- Lo sospetto, - rispose
Tremal-Naik. - Vedo laggiù degli stagni e quelle brutte
bestie amano l'acqua perché sanno che le antilopi vanno a dissetarsi dopo il
tramonto.
- Che riusciamo a scoprirla prima
che la notte scenda?
- Uhm! Lo dubito.
- Le prepareremo un agguato.
- Perderesti inutilmente il tuo
tempo. Le kala-bâgh non si lasciano sorprendere e potrai
mettere capretti finché vorrai e anche dei maiali, senza deciderle ad
avvicinarsi.
- Aspettiamo - concluse Yanez. -
Noi non abbiamo fretta. -
Fino al mezzodì gli elefanti
continuarono ad avanzare attraverso a quella pianura che pareva che non dovesse
finire mai, passando fra i gruppi di banani, di mindi e di mangifere, senza
aver mai dato alcun segno di inquietudine; poi il maggiordomo che montava un
magnifico makna, ossia un elefante maschio senza zanne, diede il segnale della
fermata per servire la colazione agli ospiti del suo signore.
Gli scikari rizzarono in pochi
minuti un'ampia e bellissima tenda di seta rossa in forma di padiglione e
copersero il suolo con dei soffici tappeti di Persia, mentre il babourchi,
ossia il cuoco della spedizione, aiutato da alcuni sais, cioè palafrenieri,
faceva scaricare dal makna del maggiordomo le sue provviste onde servire una
colazione fredda.
Yanez, Sandokan e
Tremal-Naik si erano affrettati a prendere possesso della
tenda, essendo il caldo intensissimo. Kammamuri ed i sei malesi della scorta,
si erano invece rifugiati sotto un immenso tamarindo che spandeva, sotto i suoi
lunghissimi e flessibili rami un'ombra benefica.
L'aria del mattino aveva aguzzato
straordinariamente l'appetito dei cacciatori, sicché gli ospiti del rajah
fecero molto onore alla curree bât che inaffiarono abbondantemente con birra e
toddy, la dolce e piccante bevanda indiana che è gradevolissima anche ai palati
europei.
Il maggiordomo, dopo d'aver
sorvegliato la distribuzione dei viveri, li aveva raggiunti, sedendosi però ad
una certa distanza dal mylord inglese.
- Ti aspettavamo, - disse Yanez,
che si era coricato su un ampio cuscino di seta rossa per fumare con maggior
comodità. - E questa tigre dove la scoveremo?
- Il jungaul barsath (re della
jungla) a quest'ora si riposerà nella sua tana, - rispose il maggiordomo. - Non
sarà che verso sera o di buon mattino che noi la incontreremo.
Non ama il sole, mylord.
- Sai approssimativamente dove
noi la incontreremo?
- Quattro giorni or sono, fu
vista nei dintorni dello stagno di Janti; anzi là divorò una donna che
conduceva una mucca onde si abbeverasse.
- La mucca scappò in tempo?
- La bâgh non si è occupata dell'animale.
Ora che si è abituata alla carne umana non desidera che quella.
- Che abbia il suo covo in quei
dintorni? - chiese Sandokan.
- Sì, deve trovarsi fra i bambù
della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata
due volte da uno scikaro.
- Questa sera potremo trovarci a
quello stagno?
- Prima del tramonto vi
giungeremo, - rispose il maggiordomo.
- Volete che tendiamo una
imboscata colà? - chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e
Tremal-Naik. - Se quella bestia è così astuta e diffidente,
non si lascerà accostare dagli elefanti.
- Era quello che pensavo anch'io,
- disse il portoghese.
- A che ora riprenderemo le
mosse? - chiese Tremal-Naik al maggiordomo.
- Alle quattro, sahib.
- Possiamo approfittare per
schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. -
Il maggiordomo fece portare altri
cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta,
onde potessero riposare più tranquilli.
Anche gli scikari ed i conduttori
dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del
nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli
elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di
cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita
loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata
con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per
ciascuno.
Alle quattro, con una precisione
cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse.
La tenda in un baleno era stata
levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla
testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi
loro mahuts.
- Avanti! - aveva gridato Yanez
che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese.
La carovana si mosse di buon
passo, sempre coll'ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul
luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai
servi.
Il paese accennava a cambiare. I
grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri,
grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina,
perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi
di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi.
Era il principio della jungla
umida, il regno dell'acto bâgh beursah (la tigre signora) come l'hanno chiamata
i poeti indiani.
Della selvaggina piccola e
grossa, spaventata dall'avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta
gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a
corsa precipitosa.
Ora erano dei samber, specie di
cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e
bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che
spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei
cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi
quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame
grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai
quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori
di daini, dei quali ne distruggono un gran numero.
Anche qualche bufalo delle
jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con
impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta
e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi
all'indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe,
guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di
lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi
s'allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e
anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura.
Il sole era prossimo al tramonto
e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima
natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez,
dall'alto della cassa, al di là d'una piccola jungla formata esclusivamente di
piante spinose, vide scintillare una distesa d'acqua.
- Ecco lo stagno della tigre
nera, - disse.
Quasi nell'istesso momento una
viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano
furiosamente formando un baccano assordante.
- Che cosa c'è dunque? - chiese
il portoghese al mahut.
- I cani hanno fiutata la pista
della kala-bâgh, - rispose l'indiano.
- Che sia passata per di qua?
- Certo, sahib. I cani non
latrerebbero così.
- E quando passata? Di recente?
- Solo i cani potrebbero saperlo.
- Il tuo elefante non dà alcun
segno d'agitazione?
- Nessuno finora.
- Avanzati verso lo stagno. Ne
faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani.
- Sì, sahib, - rispose il mahut
alzando la sua corta picca armata lateralmente d'un uncino molto acuto.
L'elefante che si era arrestato
un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù.
Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s'avanzava
nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima.
I cani, sotto una tempesta di
frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le
funicelle per slanciarsi attraverso le typha.
- Che l'abbiano proprio fiutata
la belva? - chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso
Tremal-Naik.
- Credo che il mahut non si sia
ingannato, - rispose il bengalese. - Per precauzione faremo bene a preparare le
carabine.
Si è dato qualche volta che le
tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai
cacciatori.
- Approntiamoci, Sandokan. -
La Tigre della Malesia vuotò il
suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela
poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano
imitato, poi avevano appoggiato contro l'orlo della cassa tre picche di corta
misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini
affilatissimi.
- Tu Sandokan, veglia sul mahut,
io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, - disse Yanez
quando quei preparativi furono terminati. - Conto più su di noi tre che su
tutta questa gente.
- E su Kammamuri e sui nostri
malesi, - aggiunse la Tigre della Malesia. - Non sono uomini da volgere le
spalle nel momento del pericolo. -
Quantunque tutto indicasse che
quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti
giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro
levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche
selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali
orlate di nero, la testa adorna d'un ciuffo.
Quello stagno non aveva che una
circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni
minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle.
Le piante acquatiche, le jhil,
che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato
dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte.
- Accampiamoci qui, - disse Yanez
al mahut.
Gettò la scala e scese coi suoi
compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini.
- Fa' alzare la tenda e preparare
l'accampamento.
- Sì, mylord.
- Una domanda prima.
- Parla.
- Vi sono altri stagni nei
dintorni?
- Nessuno. Non vi è che il fiume,
ma è molto lontano ancora.
- Sicché i nilgò ed i bufali sono
costretti a venire qui a dissetarsi.
- Ai villaggi non s'avvicinano
mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne.
- Non mi occorre ora che una
buona cena. -
Gli scikari, i valletti ed i servi,
aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno
d'un quarto d'ora prepararono l'accampamento intorno ad un magnifico pipal nim,
dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo
copriva quasi tutto.
Trattandosi di fermarsi in quel
luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della
terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano
formata come una barriera tutta all'intorno, legandoli strettamente.
La tenda, quantunque non fosse
proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro
del campo.
Il pranzo, molto abbondante,
poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante
destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia,
fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori.
- Mylord, - disse il maggiordomo
entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di
mangiare. - Devo far accendere dei fuochi intorno all'accampamento?
- Guardati bene dal farlo, -
rispose il portoghese. - Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a
cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana.
- Può piombare sul campo, mylord.
- E noi saremo pronti a
riceverla. Fa' collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti
d'altro. Hai del grasso tu?
- Del ghi(burro chiarificato) che
potrà servire ugualmente.
- E delle scatole di latta?
- Sì, quelle della carne
conservata per te e pei tuoi compagni.
- Riempiene tre o quattro di
burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e
collocale intorno all'accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi.
- Io farò quello che vorrai.
- Che cosa vuoi fare con quelle
scatole Yanez? - chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu
allontanato.
- Attiriamo la bâgh, - dissero
Tremal-Naik ed il portoghese.
- Ah i furbi!
- L'odore del grasso o del burro
si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, - continuò
Tremal-Naik. - Facevo così quand'ero il cacciatore della
jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero.
- Amici, prendiamo le nostre armi
ed andiamo a imboscarci fuori del campo, - disse Yanez. - Io sono certo che
quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi.
- Sono pronto, - disse la Tigre
della Malesia.
Presero le loro carabine e le
munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati
specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda.
- Tu occupati dell'accampamento e
fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, - disse Yanez al maggiordomo
che era ritornato.
- E tu, mylord, dove vai? -
chiese l'indiano con stupore.
- Noi andiamo a scovare la
kala-bâgh.
- Di notte!
- Non abbiamo paura, noi. Addio:
presto udrai le nostre carabine. -
Avvertirono anche Kammamuri di
vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come
se andassero a cacciare dei beccaccini.
Era una di quelle splendide notti
delle quali se ne vedono solamente nell'India.
Le stelle fiorivano nel cielo
purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s'alzava al di sopra delle cupe
foreste che s'estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi
azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno.
Yanez ed i suoi due compagni,
oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e
lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s'addentrarono fra i
canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio
scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi.
- Ecco un magnifico posto, - disse
il portoghese, deponendo la carabina. - Di qui possiamo sorvegliare
l'accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso
per far piacere a noi.
- È vero, - rispose Sandokan.
- Taci! - disse in quell'istante
Tremal-Naik.
- Che cosa hai udito? -
La risposta non la diede il
bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò
nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde
fibre della Tigre della Malesia.
La risposta l'aveva data la
kala-bâgh!
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